Scafi Veloci: Progettare l’efficienza
di Antonio Soccol
Una conversazione con Renato “Sonny” Levi
Il famoso professore, in profumo di premio Nobel, entrò nell’aula magna dell’Università di Cambridge. Guardò con i suoi occhi vivaci e malandrini la grande massa di studenti raccolta nell’auditorium: la più parte aveva un’aria distratta e annoiata, come di chi è costretto a doversi sorbire un paio di ore di chiacchiere noiose quanto, probabilmente, inutili.
“In campo scientifico- iniziò il professore- abbiamo un gran numero di libri che contengono un grandissimo numero di leggi di fisica, di chimica, di matematica, di algebra, di trigonometria, di astronomia eccetera. Tanti altri volumi sviluppano teorie non sempre e del tutto dimostrate, ma comunque molto affascinanti e importanti… Lo stesso vale per la medicina, per l’ingegneria… insomma, per tutta la cosiddetta “scienza”. Molti di questi libri si trovano anche nella biblioteca di questa Università: sono i documenti del sapere umano.”
Gli ascoltatori iniziarono a sbadigliare. Qualcuno estrasse carta e penna e iniziò a fare disegnini e schizzi, altri a scrivere strazianti lettere all’ultimo amore perduto. Qualcun altro allungò un messaggio con un appuntamento galante alla maliziosa biondina che aveva in fianco mentre quella peperina tutta riccioli neri e occhi da cerbiatto sconsolato cercava disperatamente lo sguardo dell’aitante capovoga del team di canottaggio che, proprio il giorno prima, aveva sconfitto nella leggendaria “boat race”sulle acque del Tamigi, la rivale (dal 1829 !) squadra di Oxford.“Ma abbiamo una certezza!”, tuonò il professore cercando di risvegliare un difficile interesse. E, con voce profonda e convinta, aggiunse: “Sappiamo di sicuro, infatti, che la metà delle cose scritte in tutti questi libri non è affatto né vera né valida.”
Di colpo non si sentì volare neppure una mosca. Cosa voleva dire una affermazione di quel genere? Dove voleva parare l’esimio professore? Che, imperturbabile, continuò: “Il nostro problema, quello fondamentale, è che, in tutta onestà, nessuno di noi sa quale sia, in quei documenti, la metà che dice le cose valide e giuste e quale sia, invece, quella che non conta nulla.”
L’auditorium era stranito. Ma ancor di più lo fu quando il famoso professore aggiunse: “Il vostro compito, studiando, dovrebbe essere quello di scoprire quale sia la metà che conta. Buona fortuna.”, e se ne andò. La lezione era finita.
Renato “Sonny” Levi mi ha raccontato questo aneddoto più di quaranta anni or sono. E me lo ha ri-raccontato l’altro giorno quando sono andato, all’isola di Wight, a trovarlo. Non è che lui ami ripetersi. E’ che io gli avevo fatto proprio la stessa identica domanda di quaranta anni prima: “A che punto siamo?”. E lui, mentre preparava, in grande allegria ma con estrema attenzione ad ogni minimo dettaglio nella posizione dei tronchi , la brace per un ottimo barbecue nel giardino della sua casa, inesorabilmente, mi ha dato la stessa risposta. Ironica e feroce: “Crediamo di sapere ma non sappiamo cosa sappiamo”.
Quando correvamo in offshore negli anni Sessanta, “Sonny” mi diceva sempre: “Antonio, bada che in questo momento, nelle gare in mare aperto, siamo grossomodo come quando nelle competizioni automobilistiche il barone che gareggiava con la sua Bugatti e aveva un’avaria, parcheggiava la vettura sul bordo della strada, usciva dall’auto spazzolandosi l’abito, girava il cappellino a visiera dalla parte “borghese” e si rivolgeva al maggiordomo-chauffeur dicendogli: “Provvedi a far portare la macchina al castello”, il tutto mentre faceva scendere dal bagagliaio un meraviglioso plaid scozzese e la grande borsa di vimini con tutto l’armamentario per il pic nic… a base di caviale e champagne”. Io, pur ammettendo che fossimo all’ABC di quello sport, allora così emozionante e straordinario, pensavo che “Sonny” esagerava e… invece aveva ragione. Eccome.
Nato a Karachi (allora India, oggi Pakistan) nel 1926, Levi è stato ed è uno dei più importanti e geniali progettisti di scafi veloci. Secondo me, è stato ed è semplicemente il migliore ma qualcuno mi accusa di essere un po’ partigiano per via di questa nostra antica amicizia che ci lega da così tanto tempo. Ho già avuto modo scrivere in merito:
Oltre quarant’anni (sono più di 15mila giorni) di lettere, di telefonate, di fax, di conversazioni, di racconti, di idee, di gare, di record, di delusioni, di emozioni e anche- per fortuna- di vittorie spesso vissute assieme. Una vita.
Ci siamo conosciuti, il 6 di agosto del 1966, sulla banchina del porticciolo francese di Les Embiez, nel sud della Francia. “Sonny”, ricordo, aveva in mano una bussola e voleva, con questa, verificare la validità e attendibilità di quella installata sul posto di guida di “Ultima volta”, la barca da corsa offshore monomotore diesel (Fiat Carraro V12 ss da 850 cv a 1800 rpm) che aveva progettato e fatto realizzare per l’avvocato Gianni Agnelli. Non c’era proprio tempo per fare i rituali “giri bussola”. Eravamo a poche ore dalla partenza del Dauphin d’Or, la prima gara offshore francese che portava i concorrenti da Les Embiez a Cannes ed era impressionante notare, con la barca ormeggiata in banchina, lo sbandamento laterale che quello scafo assumeva (e l’azione di rollio conseguente che ne derivava) dando semplicemente un po’ di gas in folle.
L’effetto della coppia degli 850 cavalli era fortissimo. Inoltre, il fatto che il motore fosse turbocompresso creava non poche difficoltà in fase di planata: anche la curva di potenza del Carraro era, infatti, piuttosto “blanda” nella sua fase iniziale (ci fosse un diesel italiano che non sia così…) e era complicato portare il propulsore a un regime tale da far entrare in funzione il turbo. “Sonny” era riuscito a dribblare il fastidioso problema ricorrendo all’antico trucco di soffiare aria compressa all’altezza dell’elica.
Trucco che aveva funzionato benissimo ma che altresì sottoponeva l’equipaggio (quel particolare equipaggio…) allo stress di un perfetto dosaggio dell’aria: “Troppo fastidioso…”, era stato il laconico commento, con erre rigorosamente arrotata, del famoso armatore-pilota. Così era stato deciso di cambiare il numero dei giri dell’elica grazie a un moltiplicatore inserito nel V-drive: con un’elica di 17”1/2 di diametro e 21” 1/4 di passo, a 4000 rpm all’elica, la barca planava facilmente e filava 49 nodi: niente male per un cabinato da 36’6” (11,12 m), quasi 5 tonnellate di peso, con quattro letti, bagno, cucina eccetera: insomma con tutti gli ammennicoli che i regolamenti dell’epoca imponevano alle barche offshore della classe C (dove C sta per cabinati).
La gara, il Dauphin d’Or, non era poi andata tanto bene per l’avvocato Agnelli costretto al ritiro da una noia meccanica del suo Fiat Carraro e i francesi, forse per fare un po’ di casino, lo dichiararono disperso in mare mentre in realtà, l’allora presidente della Fiat, era già tranquillamente rientrato in patria. Festeggiammo, “Sonny” e io, la notizia del suo “ritrovamento” al Martinez di Cannes. E diventammo amici: ci eravamo già scritti prima (a dir il vero, io lo avevo sommerso di lettere piene di domande e lui, gentilmente, aveva cercato di rispondere ai miei mille quesiti) ma non ci eravamo mai incontrati di persona. All’epoca “Sonny” era già famoso per aver progettato le prime carene a V profonda, per aver vinto la leggendaria gara offshore Cowes-Torquay di qualche anno prima e per aver progettato già due barche da corsa per Gianni Agnelli oltre che per aver realizzato i disegni del cabinato-sogno di quegli anni: la “Speranzella” della Navaltecnica.
Il modellino di “Surfury” una delle barche più importanti nella storia della progettazione di Levi..
Tutto questo, come ho detto, l’ho scritto qualche tempo fa e in quella occasione avevo ricordato le tappe più importanti della storia di questo progettista: le grandi novità come la prima carena a V profondo (realizzata in India e che risale al 1958, mentre quella ideata da Ray Hunt negli Usa è appena di qualche mese dopo), la linea “delta” (il cui prototipo, il leggendario “Surfury”, è del 1964), la barca per navigare attraverso le onde (“Ramcraft 32”, 1968 e poi “Dart” nel dicembre del 1971), il primo sportfisherman con carena a V (“Aquarius”, 1969), le trasmissioni con eliche di superficie (“Drago”, 1971), la carena a “triciclo rovesciato” (“Arcidiavolo”, 1972), il motorsailer planante (“Exocetus volans”, autunno del 1976), lo scafo per la conquista del Nastro Azzurro, simbolo della più veloce traversata a motore dell’oceano Atlantico (“Virgin Atlantic Challenger II°, 1985). Fino a “Fun Whan”, un ketch da circa 10 metri che si è costruito con le sue mani in India: l’unica barca progettata per sé stesso.
Allora avevo anche citato i nomi di alcuni fra i suoi più noti clienti: l’avvocato Gianni Agnelli (tre barche), i fratelli Gardner (due barche) , l’editore inglese sir Max Aitken, il conte Mario Augusta, il sudafricano J.W. Michell, l’americano Merrick Lewis, l’Aga Khan, lady Violet Aitken, il principe Alberto di Liegi, Roberto Olivetti, Alex Moulton, Richard Branson, Bennet S. Le Bow, titolare fra le molte sue attività anche del Gruppo Chesterfield & c. Senza dimenticare: Pietrafaccia, Vincenzo Balestrieri, Liborio Guidotti, Achille Roncoroni, Don Shead, Don Aronow eccetera. La collaborazione con personaggi come Peter Du Cane, Pininfarina, Carlo Chiti, Pietro Baglietto, Franco Harrauer…
Una storia di oltre duemila progetti di scafi a motore, ma anche alcuni a vela, di aeroplani, di gommoni. Barche costruite in compensato marino, in lamellare, in legno massello, in gomma, in alluminio, in ferro e persino in acciaio inox… Progetti fatti per cantieri inglesi, italiani, francesi, norvegesi, svedesi, sudafricani, americani, giapponesi, australiani, neozelandesi, malesi, thailandesi… E, purtroppo, anche copiati ovunque.
Ci vorrebbero tutte le pagine di questa rivista per rivivere anche solo parzialmente lo straordinario excursus di questo italiano di sangue (padre e madre “nostrani”), indiano di nascita e inglese di adozione.
Ma ogni tanto il direttore di qualcuna delle oltre 130 testate con le quali ho sinora collaborato mi chiede: “Mi fai una bella intervista a Levi?” E a me vien da ridere. Perché io non saprei neppure come fare una intervista ad un amico: le nostre sono chiacchierate, conversazioni, ragionamenti sul filo dell’esperienza e delle nuove esigenze della tecnica nautica.
Così vado da “Sonny” e gli dico: “C’è una novità: debbo farti una intervista” e lui sorride comprensivo. E così, seduto, dopo l’ottimo barbecue, nel suo studio nella grande casa di Sandhills-Portchfield, sull’isola di Wight, dove viene ogni anno per l’estate (mentre il resto del suo tempo lo passa nell’amata Thailandia), “Sonny” mi illustra… i suoi progressi nella difficile arte della pittura.
“Prima di parlar di barche” -mi dice- “lascia che ti parli della mia passione…”
E garantisce:
“Per poter dipingere quello che vuoi tu, anche se lo fai per puro hobby, bisogna studiare quello che hanno fatto gli altri, i grandi pittori: bisogna capirli, analizzarli nei dettagli, vivere la loro tecnica. Provare a fare le stesse cose, e poi confrontarle. Insomma: confrontarti…”, sostiene determinato.
In fatto di determinazione Levi ha pochi rivali: a oltre settanta anni ha deciso di imparare (e l’ha imparata molto bene) la lingua thai che diosolosa quanto sia difficile: è un idioma che ha un alfabeto composto da ben quarantuno fra consonanti e vocali e dove ogni vocale ha addirittura cinque accenti differenti così che, la stessa parola scritta, può avere tranquillamente cinque significati diversi in funzione di come viene pronunciata.
Un autentico rompicapo ma soprattutto una sfida al proprio cervello: “Perché?”, gli ho chiesto.
“Per non sentirmi straniero in quella terra che amo”
è stata la sua lapidaria risposta.
Dipingere è davvero una grande passione per il progettista di “Speranzella”, di “Surfury” eccetera: negli anni Ottanta aveva preso una “sbandata” per Antonio Ligabue, lo straordinario (e piuttosto pazzo) pittore della Bassa Padana che tanto successo aveva avuto nell’immediato dopoguerra.
Così i quadri di Levi di quel periodo erano pieni di tigri, di serpenti, di fiori incredibili e di atmosfere di fortissimo impatto: tutte tele che a Londra avevano avuto anche un buon successo commerciale. Ma, in assoluto, il suo primo dipinto risale agli anni Sessanta e rappresenta un fiasco di vino (Rosè Reale).
Quel quadro “storico” (firmato ancora “Renato Levi” e non semplicemente “Sonny” come quelli di oggi) ce l’ho io e lo conservo con molta cura: in quel periodo, infatti, l’autore beveva molto, diciamo pure “troppo” (e io con lui) ma, da oltre trentacinque anni, è diventato assolutamente astemio, così quel fiasco è anche un ricordo che ha anche “altre importanti valenze”, sia pure più personali che artistiche.
Lo scorso anno era stato il periodo di Amedeo Modigliani e per questo la famosa e sfortunata Jeanne Hébuterne, compagna e modella di quel geniale artista e ritratta in tutti i suoi nudi più noti, divenne, nei dipinti di Levi, una ragazza con gli occhi a mandorla…
“Adesso sto studiando Gregorio Sciltian”
mi dice il famoso progettista di barche veloci e aggiunge:
Questo quadro in originale si chiama “Trompe-l’oeil veneziano” e io l’ho ri-fatto pensando a te: come vedi ho corretto la scia di questa invisibile imbarcazione veloce che corre in un canale della tua città natale… Penso di saperne un po’ più del bravissimo Sciltian in materia di scie di barche a motore”
dice ridendo e regalandomi la tela.
Prendo lo spunto dalla scia dell’invisibile imbarcazione veneziana di Sciltian per portare la nostra conversazione sul tema nautico: Cosa pensi del mio articolo sulla esigenza di realizzare delle bio-barche? gli chiedo, indicandogli la copia di “Barche” che ha sul suo tavolo da lavoro. E aspetto curioso la sua risposta perché già so quale sarà il tasto “dolente”: la carena.
Nel mio articolo io ho sostenuto, infatti, che una “opera viva” con geometria a triciclo variabile è più efficiente di quella di un tradizionale monocarena ma so che Levi è molto “affezionato” a quest’ultima soluzione. Vero anche che la carena, adottata per la prima volta nel 1972 per la barca da corsa “Arcidiavolo” di Giorgio Tognelli, l’aveva ideata proprio lui, Renato “Sonny” Levi e vero anche che il capitolo conclusivo del suo esaustivo libro “Milestones in my designs”, là dove parla delle barche del futuro, indica proprio nel “triciclo rovesciato” la strada da seguire, ma…
E, infatti: “Sulle trasmissioni hai ragione da vendere”. – mi dice-
“Le eliche di superficie dovrebbero essere adottate su tutti i tipi di natanti: è assurdo, oltre che ridicolo, sprecare circa il 20 per cento di potenza per arare il mare con assi, cavallotti e eliche… Per quanto concerne le carene il ragionamento deve essere, invece, più…come dire?, “globale”. Non ci sono dubbi che una carena che possa garantire un sostentamento aerodinamico grazie ad un’ala sia più efficiente di un monocarena anche se planante però vale altresì la pena di valutare le differenti complessità che comportano le costruzioni dei due tipi di “opera viva.
Una barca come “Arcidiavolo” è molto più complicata e quindi inesorabilmente costa, in lavoro e in materiali, anche di più di una tradizionale. E allora la domanda è: il gioco vale la candela? Gli elementi da inserire nel problema sono molti: quando dico che costa di più non mi riferisco solo alle eventuali reazioni del mercato, non penso- insomma- solo al portafoglio dei clienti (che, comunque, è importante) ma alludo al maggior consumo di materiale e quindi mi preoccupo di non aumentare gli sprechi in senso generale. E’ in questa ottica che bisogna valutare e ricercare la soluzione “ideale”… o “bio” come l’hai chiamata tu.”
Intendi alludere al fatto che una barca da diporto ha un utilizzo medio inferiore alle 100 ore di moto all’anno e che quindi i maggiori costi di costruzione (e perciò anche di listino) verrebbero ammortizzati in un lasso di tempo lunghissimo?
“Sì, anche. Ma è proprio la maggior quantità di materiale, il maggior “consumo iniziale” l’argomento basilare da tener presente quando si parla di qualcosa che vuol essere “bio” e che, insomma, deve contribuire a diminuire il problema generale di tutti i consumi: ore di lavoro comprese.”
Però risparmiamo in potenza e quindi in emissione di CO2.
“Questo è vero: non ci sono dubbi. In questo momento però, il risparmio nella emissione di CO2, io lo vedo come una parte, sia pure importantissima, del problema generale, un elemento nella complessità della tematica. Naturalmente bisogna anche stabilire di che tipo di materiale di costruzione stiamo parlando. Come sai, sono contrario all’impiego di fibre di carbonio e di altre costosissime diavolerie di quel genere.
I materiali compositi sono utili giusto se parliamo di barche da corsa o da regata tipo America’s Cup e simili ma sono assolutamente “sproporzionati” per la nautica da diporto. Ormai costruire in legno è impossibile o quasi. Rimangono la vetroresina e il metallo (alluminio, ferro). In uno scafo sino a 60/70 piedi (entro i 18/21 metri) la plastica è preferibile e infatti viene scelta da quasi tutti i cantieri…
In questo caso, un progetto molto razionale e radicale di scafo con carena a triciclo rovesciato potrebbe non essere “troppo” più sprecone rispetto ad uno di un monocarena di eguale dimensione. Ma va studiato con molta attenzione altrimenti si finisce per consumare da una parte più di quanto non si risparmi da un’altra…”.
Va tenuto conto che una carena tipo “Arcidiavolo” è più capiente di un monocarena e quindi si può risparmiare sulla lunghezza fuoritutto.
“Sì. Questo è certo: tre scafi, se parliamo di cubatura, hanno un volume superiore ad uno solo”.
Torniamo alle trasmissioni. Tu hai detto che quelle che utilizzano eliche di superficie dovrebbero essere adottate da ogni tipo di natante. Per esempio, anche da un gozzo?
“Bisogna, prima di tutto, capire cosa si intende con la parola “gozzo”. Se si pensa ad una generica barca da pesca spinta da una potenza piuttosto modesta, la risposta può essere affermativa ma se si allude al classico “gozzo” mediterraneo con quella sua carena che è quasi una “double end” allora no: uno specchio di poppa non piatto impedisce un buon risultato all’elica di superficie. Questo è assodato.”
Ma vi sarebbero dei vantaggi anche se la barca, ovviamento con poppa piatta, naviga in dislocamento e non plana?
“Sì. Le molte prove che abbiamo fatto in questi anni ce lo confermano senza alcuna ombra di dubbio. Va da sé che l’incremento di velocità è minore…diciamo che può oscillare attorno al 10 per cento…”
Se dici 10, significa 15? Perché tu, quando si parla di velocità, hai sempre l’abitudine di tenerti qualche nodo… nascosto nella manica della giacca…, lo interrompo. Sorride, glissa sulla battuta e riprende:
“Va anche tenuto conto che stiamo parlando di velocità piuttosto basse e quindi che il risultato non può essere ecclatante: se tu mi dai il 20 per cento di maggior efficienza su uno scafo da 50 nodi, parliamo di 10 nodi in più, il che non è davvero poco. Ma se stiamo parlando di una barca da 10 nodi e l’elica di superficie mi incrementa di un solo 10 per cento… arriviamo a 11 nodi. La differenza non è molta, non balza all’occhio. Diciamo che non fa mercato…”
Ma il risparmio in carburante e nella emissione di CO2, ci sarebbe, no?
“Assolutamente sì. E se ricordi che i “gozzi” sono tantissimi e che molto spesso hanno un tempo di impiego/anno largamente superiore a quello di uno yacht, visto che i pescatori vanno per mare praticamente tutti i giorni…, ecco che quel “piccolo” 10 per cento diventa una cifra. Un qualcosa che conta. Ma bisogna essere lungimiranti per capire un ragionamento di questo genere…”
Tu hai mai progettato “gozzi con eliche di superficie”?
“Sì. Alcuni anni or sono ho studiato una barca per i pescatori (professionisti) della Malaysia. E aveva, appunto, una trasmissione con elica di superficie.”
E pensi che potrebbe andar bene anche per i pescatori, più o meno dilettanti, del Mediterraneo? Sorride ancora:
“Una barca è una barca e il mare è sempre mare: molto, direi tutto, dipende da chi lo naviga.”
Convengo: “Giusto. Però, si è sempre detto, che un’elica di superficie ha bisogno di una alta velocità di rotazione: abbiamo messo anche dei moltiplicatori di giri in quelle che usavamo nei primi anni Settanta… Come funziona allora questo tipo di trasmissione se abbiamo un modesto numero di rpm all’elica?
Da allora, dagli anni Settanta, molte cose sono cambiate (anche se ben pochi le hanno capite. nda). Ti faccio un esempio: ricordi i Caravelle? Intendo gli aeroplani passeggeri degli anni Sessanta. Ricordi il rumore che facevano?: forte e quasi stridente. Beh, confrontalo, il rumore di quelle turbine, con quello di un jumbo dei nostri giorni. Un 747 ha un rumore sordo, potente, quasi cupo.
Sai cosa ha prodotto questo cambiamento? La semplice inversione dei due elementi che determinano la velocità: massa e accelerazione. I Caravelle avevano, come spinta, una piccola massa e una grande accelerazione, i jumbo hanno gas turbine che spingono una grande massa con una bassa accelerazione… Qualcosa di analogo è successo anche nel settore delle “mie” trasmissioni con eliche di superficie…”
E c’è maggior efficienza nell’invertire le quantità della massa e della accelerazione?
“Sì, senza dubbio. Ed è proprio questo che toglie ogni prospettiva per il futuro alle trasmissioni immerse, diciamo quelle “tradizionali”. Se vuoi più massa hai bisogno di eliche con maggior diametro. Un maggior diametro in una elica immersa comporta da un lato una maggior inclinazione dell’asse (altrimenti l’elica tocca il fondo della carena) e quindi una spinta ancora meno piatta e più “sporca” e dall’altro un aumento “sgradevole” del drag, cioè dell’attrito all’avanzamento subacqueo di tutta la trasmissione con una perdita di efficienza impressionante.
Le eliche immerse sono costrette a rimanere alla vecchia formula: piccola massa, alta accelerazione. Ed è una formula poco efficiente. Con una trasmissione di superficie invece non hai alcun problema a mettere eliche del diametro che vuoi perché sono fuori dalla carena e la spinta è la migliore in assoluto perché è quasi del tutto piatta. Tecnicamente le eliche immerse sono morte. Vivono solo grazie all’ignoranza, nel senso etimologico del termine, di molti, tanti (troppi. nda) costruttori e del mercato. Ma questo lo sappiamo da anni.”
Ma tutte le eliche di superficie hanno adottato questo principio a proposito di massa e accelerazione?
“Io posso parlare solo delle mie. Quindi, in generale, non siamo ancora al top dell’efficienza.
No: la strada da percorrere è ancora lunga, abbastanza difficile e molto affascinante… I margini di miglioramento, di ulteriore miglioramento-intendo, sono notevoli. Per esempio, sinora e che io sappia, nessuno ha mai “lavorato” sul dorso delle eliche e anche là c’è molto, moltissimo da studiare… Alcuni esperimenti che ho fatto mi hanno, non dico stupito perché me l’aspettavo, ma fortemente interessato, questo sì.”
Ma fino a quali dimensioni un natante, a poppa piatta, ha vantaggio usando una trasmissione con eliche di superficie?
“Ovviamente non tutte le eliche sono eguali in quanto a efficienza. Ma, rispondendo solo in linea puramente teorica, posso garantirti una cosa: le dimensioni dei natanti che ne avrebbero importanti e considerevoli vantaggi sono semplicemente illimitate.”
A questo punto, cari lettori, devo farvi una confessione: l’amicizia che mi lega a “Sonny” è, da sempre, la mia “croce e delizia”, il mio supplizio di Tantalo professionale. Mi spiego: l’amico progettista ha assoluta fiducia in me, per anni addirittura casse dei suoi disegni con barche riservatissime e piani di brevetti, sono state depositate a casa mia.
Sa che non tradirei mai la sua fiducia neppure, come si suol dire, per tutto l’oro del mondo. Ma, Santo Cielo, il mio mestiere è quello di pubblicare notizie. Io, da lui, di notizie, ne ho avute e continuo ad averne in assoluta anteprima: ci sono stati persino casi di progetti che ho visto prima io di chi li aveva commissionati… ma tutto questo materiale, tutte queste informazioni non posso (e non voglio) metterle a profitto del mio lavoro.
Che volete che vi dica?: mi interessa di più avere la gioia di questa straordinaria amicizia con un uomo straordinario che non quella di fare uno scoop… Per cui, scusatemi se non sempre vi dico tutto quello che “Sonny” ed io ci raccontiamo quando ci vediamo. E quindi se, per esempio, adesso evito di darvi i ragguagli di questi “interessanti” esperimenti e di dove stia andando la sua capacità di inventore.
Ve lo dirà il futuro. Garantito.
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Gentilissimo Michele Palescandolo,
sono assolutamente d’accordo con lei per quanto dice di Renato “Sonny” Levi che per me è una persona assolutamente “straordinaria” ed avendo avuto la fortuna di averlo conosciuto di persona, le posso dire che essere in sua compagnia è assolutamente straordinario e le ore passate ad ascoltarlo quando racconta di tutto, dalle sue straordinarie “imprese” a come si fa un’ottima tazza di tea all’inglese, volano come se niente fosse ed è veramente straordinario comunicare con un personaggio quale lui è.
Tuttavia visto che vive in diversi luoghi del mondo è veramente difficile stargli dietro, ma appena avrò modo di sentirlo gli riferirò di questo commento, visto che non è un utilizzatore del web e sono sicuro che ne avrà molto piacere di questo commento.
La ringraziamo per averci contattato!
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Il modo di trattare gli argomenti da parte di Renato Sonny Levi rende evidente che si tratta di una personalità lontana da preconcetti e che non si lascia irretire dal linguaggio tradizionalmente adoperato nel settore navale ed in quello nautico. Suscita, per quel che mi riguarda, curiosità ed ammirazione.
Sarebbe bello poter comunicare con una persona così anche solo qualche volta e pur prescindendo dagli aspetti professionali ma solo per il piacere di scambiarsi dei punti di vista (posto che il suo resterebbe ovviamente il più autorevole).
Michele