Rock around the States (4): Rene & Gale Jacoby
di Antonio Soccol
Dopo l’incontro con Jim Wynne cercai di mettermi in contatto con Lorena “Rene” Jacoby e con sua figlia Gale. Sapevo che la loro ditta, la “Amazon Hose and Rubber Co.”, aveva gli uffici a Miami. Quello che allora non sapevo era che nel 1989, cioè 18 anni dopo, l’americano John O. Crouse, il più famoso cronista del mondo delle gare offshore, avrebbe scritto, a pagina 54 del suo fondamentale libro “Searace – A Hystory of Offshore Powerboat Racing”, queste testuali parole:
“Italian boating writer Antonio Soccol, fashioning prose as only the Italians can, described the adventuresome Yankee women as …cheerful and rather reckless Americans!”.
E , men che meno potevo allora sapere, che io questa gustosa citazione (di cui sono molto fiero) l’avrei scoperta solo oggi, altri 19 anni dopo!, consultando quella “bibbia” a proposito di una classifica della Viareggio Bastia Viareggio del 1965. Onestamente non ricordo su quale rivista io abbia scritto (con l’eleganza nella prosa che solo gli italiani sanno avere: woaww! ) quei complimenti nei confronti delle due pilotasse americane: avendo provocato “danni morali e materiali” con le mie collaborazioni giornalistiche a ben più di cento testate, la memoria, talvolta-spesso, mi va in tilt. Sono però certo che, quello che avevo scritto ben 43 anni fa, lo pensavo: Rene e Gale erano davvero due americane “allegre e piuttosto temerarie”. E il fatto che fossero madre e figlia, aumentava il loro fascino.
Componevano il primo equipaggio totalmente femminile della storia dell’offshore. Personalmente le avevo conosciute proprio in occasione di quella famosa Viareggio-Bastia-Viareggiodel ’65 nella quale io ero “ispettore alle verifiche tecniche degli scafi iscritti” e alla quale le due americane avevano partecipato pilotando un esemplare del magnifico
“Settimo Velo Special” della Navaltecnica di Anzio: un progetto di Renato “Sonny” Levi sulla lunghezza fuoritutto di 24’ (7,31 m) e spinto da una coppia di Mercruiser per complessivi 450 cv.
Questo scafo aveva una lunghezza al galleggiamento di 6,10 metri, una larghezza (sempre al galleggiamento) di 2,24 m. e quindi un rapporto L/l pari a 2,7:1. Il diedro allo specchio di poppa era di ben 30° e la sua velocità di progetto era sull’ordine dei 40 nodi: una cosa quasi eccezionale per quei tempi. La gara, quell’anno, la vinse Jim Wynne con il “Maritime” in alluminio da 31’, spinto da una coppia di Daytona turbo da 400 cv ciascuno, alla media di 49,2 mph (43,265 nodi).
Fino al giro di boa di Bastia sembrava che la vittoria potesse andare a Dick Bertram con il suo nuovo “Brave Moppie” e i suoi “mostruosi” diesel GM da 560 cv ciascuno ma poi una brutta fumata denunciò la fusione di uno dei suoi “6-71 X” (sei cilindri in linea, 6980 cc di cilindrata, ciclo due tempi). Vincenzo Balestrieri (su “Speraziella Seconda”), Don Aronow (su “Donzi 007”) e Merrick Lewis (su “Formula 283”) si erano già ritirati per noie meccaniche come qualcun altro degli appena dodici partiti. (Fra questi ultimi mi piace ricordare, di passaggio, la prova, sia pure sfortunata, di “Ulixes III” di Alfredo Micheletti che, per la prima volta, tentava il mondo dell’offshore con uno scafo spinto da due motori Flagship da 185 cv cad, azionanti una coppia di idrojet Berkley. E l’esordio nel mondo delle gare d’altura di Giorgio Adreani che, sette anni dopo, avrebbe eseguito nel suo cantiere Vega, la difficile e temeraria costruzione di “Dart”, la prima barca ideata per andare attraverso le onde invece che sopra alle stesse.)
E le due prodi “amazzoni”? In 4 ore e 9 minuti sono andate a Bastia e tornate: seconde assolute (e prime di classe), alla media di 39,412 nodi (urca! Non devono aver sbagliato neppure di mezzo grado la rotta per tenere un’andatura così vicina alla velocità massima di quella barca ) e davanti a scafi come “ ‘A Speranziella” di Giorgio Pasquini, “Mexico II” di Luigi Zanoni eccetera. Sì, certo, il mare era piuttosto calmo (e infatti ha decimato i motori) ma che vuol dire? Calmo lo era per tutti, no?
Quando erano venute a correre in Italia erano già note. Rene, nata nel 1912, aveva 53 anni, ma di quelli che si dicono “proprio ben portati” (E, peraltro, lei non voleva assolutamente che la sua età si sapesse in giro). Gale, invece, di anni ne aveva 24 ed era molto graziosa: non il mio tipo ma… proprio niente male.
Per quanto se ne sapeva allora, avevano iniziato a correre con delle piccole barche per motori fuoribordo in spensierate gare un po’ popolari che si svolgevano a Miami. Una sera del 1956, ad un party, Sam Griffith aveva detto a Rene: “C’è la “Gold Coast Marathon”.
Perché non partecipi?” Non era una vera e propria gara offshore ma bisognava portare la barca da Miami a West Palm Beach e il tratto di mare era oceano … Dopo un attimo di perplessità dovuto al fatto che non sapeva come avrebbe potuto fare rifornimento il giorno dopo la gara, per tornare a Miami (problema che Sam risolse in un attimo) visto che era prevista una grande festa che sarebbe durata tutta la notte… Rene accettò.
Partirono in 214 (duecentoquattordici) barche e la coppia “madre-figlia” si piazzò al 15° posto! Nel 1958 si iscrissero alla “Around Miami Beach Race”: il mare era impossibile e più della metà delle barche fu costretta al ritiro. Le due ragazze dimostrarono quella che sarebbe stata la loro caratteristica: “stamina e spunk” (capacità di resistenza e fegato) e giunsero ottave assolute (prime di classe). Continuarono a correre con quella barchetta che avevano fatto disegnare tutta con “lovely flowered designs” finchè non la affondarono: “Oh, che peccato! Era così bella con quei disegni di fiori – dissero- Ma, in fin dei conti, avevamo bisogno di una barca più grande…”
E finalmente avevano poi fatto il loro esordio nel duro mondo dell’offshore in occasione della Miami-Nassau del 1963 con la loro vecchia barca da pesca, un 31’ di legno sul quale i motori erano stati cambiati per dar posto ad una coppia di nuovi 427 Interceptor: “It’s become a pretty fast old boat” (è diventata una graziosa veloce vecchia barca) commentarono dopo averla collaudata. Era stata quella una gara storica perché Sherman “Red” Crise, che la organizzava (era il capo supremo dell’offshore Usa di quegli anni), aveva stabilito che non avrebbe dato il via se il “U.S. weather bureau” di Miami, alle 7 del mattino, non avesse segnalato la presenza di un vento di almeno 10 mph. Su questi 10 mph, scoppiò una polemica: c’era chi (per esempio, Dick Bertram) intendeva 10 nodi (18,5 km/h) (e non aveva torto perché da quando in qua il vento non si misura in nodi?) e chi invece diceva che si doveva intendere quella velocità in miglia terrestri (16 km/h). Il guaio accadde la mattina del 25 aprile, giorno della gara, quando il vento si presentò ad appena 6 mph (miglia terrestri).
I piloti che avevano barche più piccole e quelli che erano venuti da lontano (qualcuno addirittura dalla Gran Bretagna) chiesero che la partenza venisse data lo stesso. Gli altri protestarono. “Red” Crise, famoso per il suo carattere molto… mmm, diciamo “irascibile”, urlò: “I myself can’t change my rules ad I make them!” Alla fine il via venne dato egualmente. Vinse il “Mona Lou” di Odell Lewis, un pilota del team Mercury. Lo scafo era un Bertram da 25’ spinto da una coppia dei nuovissimi Mercruiser da 310 cv ciascuno. Odell tenne una media, sulle 184 miglia del percorso, di 55,2 mph. E riuscì a precedere al traguardo, di appena 92 secondi, John Bakos, che aveva un 32’ in legno con eguale motorizzazione. Al terzo posto si piazzò un interessante esordiente, tale Don Aronow che portava un Formula 27’ di nome “Claudia” (il nome della figlia) spinto da due Ford Interceptor da 425 cv ciascuno. Fu in quella occasione che Aronow incominciò a capire come le tradizionali trasmissioni immerse non avessero più storia se confrontate con l’efficienza dei piedi poppieri e iniziò il suo avvicinamento a Carl Kiekhaefer per creare quel binomio di barche e propulsori (Cigarette-Mercruiser) che avrebbe imperiosamente dominato gli anni successivi.
In quella loro prima gara d’altura, Rene & Gale Jacoby erano finite al 25° posto: non un grande piazzamento ma comunque dignitoso per esser quell’equipaggio inesperto che erano… Il guaio nasceva soprattutto dal fatto che la madre era troppo piccola di statura per vedere la bussola e quindi guidava solo in partenza e all’arrivo, mentre la figlia (più alta) confessava tranquillamente. “North and South mean nothing to me” (Per me il Nord e il Sud sono cose misteriose).
Si sarebbero peraltro rifatte in novembre dello stesso anno, alla Miami-Key West: Rene e Gale erano proprio due che imparavano in fretta… e poi c’era sempre quella loro straordinaria caratteristica: “stamina e spunk” che le rendevano uniche.
Il mare, in occasione di questa prova, aveva onde da un metro e mezzo e il percorso era di 180 miglia (terrestri). Vinse, per la prima volta negli Usa, una barca spinta da motori diesel: si chiamava “Allied GX” e montava una coppia di GM da 550 cv ciascuno. Era lunga 40’ e la pilotava Jack Manson, un figlio d’arte visto che suo padre, Jack senior, aveva vinto molte gare motonautiche nel 1917.
Al secondo posto si piazzò Don Aronow con un nuovo Formula 23’, chiamato questa volta “Claudia II°” e al terzo posto, fra la sorpresa generale, arrivarono “the beautiful Jacoby girls” con il loro “Miss Amazon”. Il duro mondo del circo offshore si sorprese quando le due donne, dopo una gara tanto faticosa, si esibirono subito in un allegro “cha-cha-cha step” sulla banchina. Moltissimi i ritirati e un paio le barche affondate…Insomma una giornata piuttosto dura per quei prodi marinaretti che, la sera, al party finale, denunciavano costole rotte, gambe sbucciate, lividi ovunque, una stanchezza mostruosa eccetera mentre Rene si presentò, come riferisce il settimanale “Sports Illustrated”, con uno stupendo abito da sera di seta cinese e ballò come una scatenata tutta la notte. Quando si dice donna.
Nel 1964 l’affascinante “coppia” si presentò puntuale, l’8 aprile, alla classica Miami-Nassau: 33 partenti, mare incazzatissimo. Ai primi tre posti si piazzarono tutte barche del cantiere Bertram. Il giornalista Jim Martenhoff del “Miami Herald”, che aveva corso più volte con Dick Bertram, affondò a 50 miglia da Miami con quel “Allied GX” che aveva vinto la precedente Miami- Key West e venne recuperato in mare dagli elicotteri della Coast Guard mentre le due “eroine” ebbero un po’ più di fortuna: agganciarono una cima vagante che strozzò uno degli assi porta elica dei loro motori, il cavalletto squarciò il fondo dello scafo e affondarono in pochi minuti. Ma il tutto proprio davanti alla spiaggia del lussuoso Diplomat Hotel di Miami (in quegli anni era l’albergo frequentato da tutte le stelle di Hollywood). Raggiunsero direttamente riva a nuoto e si misero nella piscina dell’albergo a prendere il sole con alcuni intensi long drinks in mano…e ascoltando alla radio la cronaca della gara. Poi si fecero portare degli abiti eleganti (i giornali scrissero: “the girls looked good”) e andarono alla festa di premiazione a congratularsi con i vincitori. Quando si dice classe.
Affondarono anche nella gara successiva: la Sam Griffith Memorial Race del 2 febbraio 1965. Era una prova corta, solo 145 miglia (terrestri). Partirono in 23. Arrivarono in 11. Vinse “Broad Jumper”, un Donzi 28’ costruito da Don Aronow. Da segnalare che sugli 11 arrivati al traguardo ben 8 disponevano di questa barca costruita, nel suo nuovo cantiere Donzi, dal gigante Aronow.
Quanto alle due “ragazze”, questa volta il fondo della loro barca si aprì dalle parti di Fort Lauderdale e il loro rientro a terra fu meno pittoresco di quello del naufragio precedente. Ancora una volta la barca venne recuperata e rimessa in sesto e Rene&Gale, tre settimane dopo, si iscrissero alla Gateway Marathon, una gara di 180 miglia che da West Palm Beach in Florida arrivava sino a Grand Bahama. La prova si sviluppò con un duello feroce fra il “Marittime” di Jim Wynne e il Donzi 28’ “008” di Don Aronow. Prevalse Wynne e fu quella la prima vittoria nell’offshore di uno scafo in alluminio. Madre e figlia si ritrovarono, invece, nuovamente in acqua e il loro “Miss Amazon” si perse per sempre su fondali abissali. Ne ordinarono immediatamente, allo stesso cantiere, uno di nuovo e con questo intendevano partecipare alla Miami-Key West che era in calendario per il 12 novembre di quello stesso 1965. Ma nel frattempo vennero in Europa a gareggiare e questo era il curricula offshore di quella strana, inconsueta, allegra e affascinante coppia di pilotesse quando erano salite a bordo del “Settimo Velo Special” della Navaltecnica nell’estate del 1965 e lo avevano “provato” per un paio di ore per prenderci la mano.
Ricordo, il sabato precedente la gara, era il 10 di luglio, i commenti in banchina di quelle vispe linguacce che sono i viareggini, specie quando si parla di cose di mare: “Ohsuvvvia, che s’è mai visto due donne andar sino in Corsica tutte sole?” dicevano i più gentili ed educati. Ovviamente erano in molti a pensare che, dentro alla piccola tuga del “Settimo Velo”, ci sarebbe stato, nascosto sino poco dopo il via, un mini esercito di piloti, meccanici e assistenti vari. Ma la realtà si palesò evidente il giorno dopo quando Rene&Gale, senza alcun aiuto esterno, si piazzarono al secondo posto assoluto.
Sia durante le verifiche tecniche della barca che poi, dopo il glorioso arrivo, avevamo (loro e io)… familiarizzato all’insegna di una immediata e istintiva simpatia di pelle e con la complicità di alcune bottiglie di champagne. Per questo Gale venne immediatamente al telefono quando, dal mio hotel di Miami, avevo cercato sua madre o lei. Mi disse che Rene era a New York per non so quale torneo di golf e mi propose un aperitivo per quella stessa sera: “Non preoccuparti, vengo io. Alle 18, nella hall del tuo albergo”, mi disse. E arrivò con la Mustang. “Bella macchina”, le dissi. “ Sì, -mi sorrise abbracciandomi- pensa che se avessi vinto la Miami-Key West mio padre mi avrebbe premiata regalandomi una Rolls Royce. Ma Rene e io arrivammo solo terze…e ho dovuto accontentarmi di questa”.
Fu un aperitivo molto lungo perché dopo quattro ore e un congruo numero di ginandtonic, stavamo ancora chiacchierando. Mi raccontò di come sua madre passasse il tempo volando da sola in aliante, facesse immersioni sempre più profonde, giocasse a golf “better-than-average” e facesse sempre “a botte” con gli uomini mentre suo padre dirigeva questa loro azienda che produceva tubi di gomma e in teflon. Abitavano a Miami, sulla elegante isola Belle Meade, in due ville affacciate sulla Biscayne Bay: una per Rene e il marito e l’altra per Gale e il suo compagno.
“E come andava la nuova barca?” chiesi, ricollegandomi ai progetti che mi aveva raccontato a Viareggio qualche anno prima. “Oh, ci siamo molto divertite sin dalla prima gara con il nostro nuovo “Miss Amazon” da 32′ costruito da Prowler” mi disse Gale. E ci credo: erano partite 24 barche in quella “Miami-Key West” che John O. Crouse avrebbe definito “the most pivotal event on the 1965 world circuit since it decided the world driver’s championship”. Il mare era calmo ma non lo erano le intenzioni dei piloti che in quella ultima prova si contendevano il titolo mondiale.
Don Aronow aveva il suo nuovo Donzi “008” e minacciava sfracelli, Sam Sarra (ingegnere capo della Daytona) aveva preparato personalmente i motori del suo nuovissimo 28′ Formula che si chiamava “Thunderbird”, Bill Wishnick era alla guida del Donzi “Broad Jumper” e infine Dick Bertram portava in gara il suo famoso “Brave Moppie” con gli specialissimi diesel della GM. Che spazio poteva esserci per il nuovo “Miss Amazon” delle beautiful girls? Lo racconta la classifica finale: terze assolute, appena dietro a Dick Bertram (che aveva tenuto una media di ben 57,6 mph) e a Bill Wishnick. Era questa la prova nella quale Gale s’era giocata la Rolls Royce e dovuta accontentare di una “semplice” Mustang…
Molto meno bene, invece, era andata l’anno successivo (1966) alla Miami-Nassau che si correva in aprile. Era quella la gara che avrebbe visto l’esordio dello scafo “Ghost Rider” di Jim Wynne, costruito in lamellare marino dai cantieri Souter a Cowes in Gran Bretagna. Quella barca era assolutamente e talmente “misteriosa” che, appena tre giorni prima del via, nessun avversario l’aveva ancora vista: avendo lavorato per Carl Kiekhaefer, Wynne aveva ben appreso l’importante arte del segreto. La partenza venne spostata di giorno in giorno perché le condizioni del mare erano “assurde”. Così alcuni importanti piloti stranieri furono costretti a rinunciare, richiamati in Europa da impegni di lavoro.
Cionostante al via, dato cinque giorni dopo la data prevista, si presentarono ben 56 scafi per affrontare un mare con onde di due metri e vento di 15 nodi da sudovest. I guai incominciarono dieci miglia dal primo ceck point a Cat Way, quando l’Halmatic 25′ “Thunderfish II°” di Figgins affondò in meno di cinque minuti. “E cinque miglia dopo toccò a noi” mi raccontò Gale. “Che successe?” chiesi, ordinando un altro ginandtonic… E Gale si mise a ridere ma non volle rispondere: “Rene just fractured her back and the wiring on her boat’s port engine burned”, avrebbero scritto le cronache di quella gara che Jim Wynne aveva vinto a 47,8 mph di media, dando così inizio a quella sua irresistibile annata che gli avrebbe fatto conseguire il suo secondo titolo mondiale.
“Dimmi della Bahama 500.” chiesi allora. “Oh, una gara straordinaria, quella. Mai divertite tanto, Rene e io”, disse Gale. Non era ancora normale, all’inizio degli anni Settanta, che i figli chiamassero i genitori con il loro nome di battesimo ma, si sa, in America certe cose succedono prima che da noi…e poi, ammettiamolo, queste due erano un esemplare un po’ particolare di figlia e, ancor più, di madre… “Sai, quel pazzo di “Red” Crise”- iniziò a raccontarmi Gale- “non contento di farci andar per mare quando era furibondo e a farci così affondare le nostre belle barchette, si era fatto venire la luminosa idea di inventarsi, per il 1967, una gara d’altura lunga ben 500 miglia (terrestri): qualcosa come più di 820 chilometri. Una gara “bestiale”. Ma, come ricordi, per noi Jacoby, “stamina e spunk” sono cose normali e così accettammo la proposta che ci era pervenuta da Merrick Lewis, proprietario del cantiere Thunderbird. Si trattava di partecipare alla folle gara ideata da Crise con una house boat da 40′.
Sì, sì. Non ridere. Proprio con una house boat: sai, di quelle che si usano per le vacanze nei fiumi e nelle lagune. Solo che questa aveva una buona carena a V profondo e una adeguata motorizzazione. Merrick ne aveva iscritte due esemplari a quella “Bahama 500”: una era per noi, l’altra per due giornalisti: Jim Martenhoff del “Miami Herald” e Hal Steeger del settimanale “Argosy”. Una operazione di marketing, ovviamente. Ma come resistere ad una così divertente offerta?”, sorrise Gale. Già, come resistere? Troppo “divertente” spupazzarsi 800 e passa chilometri di mare su una house boat! In breve: finirono al 17° posto assoluto su 63 partenti.
Impiegarono 35 ore e 24 minuti, arrivando al tramonto del secondo giorno di gara. “Ma durante la notte ci eravamo fermate a dormire: è stupido navigare a velocità sostenuta con il buio”, si affrettò a dirmi la graziosa Gale. E aggiunse: “ E poi, poco prima del traguardo finale, ci siamo anche fermate a rimetterci in ordine i capelli… Sai com’è, per noi donne…”. (Alcune pubblicazioni scrissero, a questo proposito, che a bordo della house boat c’era il parrucchiere personale delle due “amazzoni”.
Altri, anche in Italia, raccontarono che l’equipaggio aveva fatto una deviazione rispetto al percorso della gara per andare a terra da un noto coiffeur a rifarsi la testa… Indubbiamente le imprese di quella coppia di donne stimolava la fantasia dei giornalisti). “E l’altra house boat affidata ai due giornalisti per quella folle gara?”, chiesi curioso. “Ritirati”, disse Gale, la graziosa, come se si trattasse di una cosa ovvia e la mia domanda fosse inutile. “Devo andare. Qualcuno mi aspetta. Ciao”, aggiunse all’improvviso e si alzò lanciandomi, con il soffio, un bacio che aveva depositato sul palmo della sua mano. E sparì con la sua Mustang nel traffico folle di Miami.
E neppure lei ho più rivisto. Ma alcune notizie mi sono pervenute: nel 1973, Harry Jacoby, marito di Rene e padre di Gale, era improvvisamente morto per un aneurisma all’aorta. Rene aveva assunto il comando dell’azienda di tubi dichiarando: “I had no idea what I was in for” (Non avevo la minima idea di cosa avrei dovuto fare). Ma aveva imparato velocemente: “stamina e spunk”, l’offshore come scuola di vita.
Nel 1973 Gale aveva partorito una bambina cui aveva dato nome Summer (estate). Nel 2002 Rene Jacoby era morta all’età di 90 anni. Nel 2003 la Amazon Hose & Rubber company, sotto la guida di Gale e di sua figlia Summer, fatturava 11,4 milioni di dollari all’anno. Di tubi. Quando, appunto, si dice “stamina e spunk”.
PS: un anno prima del mio incontro con Gale Jacoby, in occasione del Trofeo Napoli 1970, aveva corso per la prima volta un equipaggio offshore italiano interamente femminile.
Era composto da Marisa Gagliotta, moglie del costruttore e pilota Salvatore, e da Lucy Pittan, giornalista e fotografa. Le due donne avevano guidato lo scafo “Budda Flamingo” da 24’, costruito in compensato marino da Gagliotta e spinto da una coppia di Volvo Penta diesel da 70 cv ciascuno. La loro media sulle 180 miglia del percorso era stata superiore ai 20 nodi. Un risultato ottimo vista la potenza disponibile. (segue)
Articolo apparso sulla rivista “Barche” nel fascicolo di gennaio 2009 e qui riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Caro Tealdo,
è esattamente come tu dici ed ancora oggi a due anni dalla immatura scomparsa chiunque lo ha conosciuto non riesce a rassegnarsi. Il vuoto lasciato è veramente incolmabile.
Quando voglio imparare leggo uno degli articoli di Antonio e li trovo affascinanti, non solo per come sono scritti, ma per il mondo che raccontano. Mi dispiace non averlo conosciuto