Lessico marinaro e dualismo uomo-mare nell’opera di Montale.
di Antonio Soccol
Eugenio Montale, premio Nobel per la letteratura 1975, è mito in una città di mare, a Genova. Non si può definirlo un uomo di mare, un marinaio. Tutt’altro. Nella sua biografia e nella sua opera inutilmente si cercherebbe una avventura di mare, intesa alla Hemingway per capirci. Ma il mare, il suo linguaggio, i suoi rapporti con l’umanità, persino la nomenclatura marinara sono parte essenziale della filosofia montaliana.
Molti critici si sono occupati di Montale, da De Robertis a Contini, da Flora a Getto, da Sanguinetti a Salinari, da Silvio Ramat a Giuliano Monacorda, da Marco Foni a Silvio D’Arco Avalle (con un saggio polemico e ferocemente discusso negli ambienti letterari). Si son dette cose importanti e altre meno, su Montale. Il recente conferimento del Nobel, un riconoscimento giunto fin troppo tardi, ha dato la stura a moltissime altre analisi. Nessuna però ha dato rilievo all’influenza che il mare ha nella sua opera.
Influenza pure che a me sembra lampante, oltre che determinante. “Ma tutto sommato, da noi, anche per un uomo nato sul mare come me, il gabbiano resta uno sconosciuto, un assente o la figura emblematica che appare nella ballata del vecchio marinaio del Coleridge”- (i corsivi sono di redazione, non dell’autore)- scrive Montale in Fuori di casa, il volume che raccoglie le sue prose di viaggio scritte fra il 1946 e il 1964. E’ importante sottolineare quel “anche per un uomo nato sul mare come me”. Perché questo marchio indelebile, questa realtà si riscontra nel suo lessico in modo trasparente in tutte le sue liriche maggiori.
In limine, la poesia che apre la raccolta Ossi di seppia nella sua più recente edizione (Lo Specchio, Arnoldo Mondatori Editore, 1948 – XXI edizione, 1974) e che quindi si può considerare la prima opera ufficiale di Montale inizia: “Godi se il vento che entra nel pomario / vi rimena l’ondata della vita: / qui dove affonda un morto…” e più avanti dice: “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!”. Ondata, affonda, rete, tre termini che danno fin dalla prima lirica la misura di quanto Montale abbia congenita dipendenza lessicale con il mare. Ma, in termini storici, “In limine” non è la prima vera lirica di Montale anche se, come abbiamo detto, apre Ossi di seppia (ma già questo titolo non sa forse in modo totale di mare?).
Le prime poesie di Montale pubblicate sono apparse il 15 giugno 1922 sul numero 2 di “Primo tempo”, una rivista letteraria stampata a Torino e curata da Giacomo Debenedetti, Sergio Solmi e Mario Gromo. Erano complessivamente otto: Riviere e Gli Accordi (una raccolta, questa, di sette poesie così titolate: Violini, Violoncelli, Contrabbasso, Flauti-fagotto, Oboe, Ottoni e Corno inglese). Solo Riviere e Corno inglese appaiono in Ossi di seppia (le altre sono state ripubblicate nel 1962 assieme a Musica sognata da Scheiwiller sotto il titolo “Accordi e pastelli”). In Corno inglese molti critici ravvisano una invenzione lessicale “che già si avvicina a quella degli Ossi pur senza toccarne l’esattezza di risonanza sentimentale” (Giuliano Manacorda in “Montale”, edizioni Il Castoro, pagina 25).
Dice la lirica (anche qui i corsivi sono miei e non dell’autore):
Il vento che stasera suona attento
ricorda un forte scotere di lame
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l’orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! D’alti Eldoradi
malchiuse porte!) e il mare che scaglia a scaglia,
livido muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte ;
il vento che nasce e muore
nell’ora lenta s’annera
suonasse te pure stasera
scordalo strumento,
cuore.
Certo quel “mare che scaglia a scaglia” è espressione di rara efficacia. Dice Silvio Ramat: “In Corno inglese, com’è naturale, le nomenclature di Montale non hanno ancora assunto completamente il particolare modo di essere che avranno in seguito: “vento” (non già “libeccio” o “scirocco” o “tramontana” o “grecale”); “mare” (non già “mediterraneo”); “cielo”, semplicemente: luoghi comuni forse perchè dicono il tormento di un male di tutti. Ma già la maniera descrittiva è ben secca, precisa”.
Trovo piacevolmente marinaro l’Epigramma che Montale dedica a Camillo Sbarbaro (anche questo si trova nel volume Ossi di Mondadori): sono sei versi di estrema delicatezza (sempre che parlando di Montale il termine sia concesso. No, non da parte sua che, anzi; bensì dei suoi possessivi critici). Vale la pena di rileggerla (anche qui i corsivi sono miei)-
Sbarbaro, estroso fanciullo piega versicolori
carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d’un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia, che non si perda;
guidala a un porticello di sussi.
In Ossi di seppia, l’opera che doveva garantirgli, a mio avviso, il Nobel sin dal 1925, l’opera cardine della poesia europea contemporanea (perché ha ragione chi scrive “Di Montale si può dire una cosa che si può dire di pochissimi altri, e cioè che nella letteratura italiana esiste nettamente un prima e un dopo la sua poesia” in “Montale premio Nobel” di G.R. su Tuttolibri del 1° novembre 1975); in “Ossi”, dunque, il discorso di Montale diventa preciso ai fini della nostra ricerca:
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato… Non domandarci la
formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possimo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Questo famoso no, questo esistenziale concetto della filosofia montaliana, questa prima anticipazione della sua metafora del “male di vivere”, dell’inutilità, dell’immobilismo e quindi del dolore del solitario (qualcuno ha scritto anche “dello scacco cosmico”) portano Montale sulla strada di un colloquio diretto con il mare.
Lo scontro, perché di scontro si tratta e non di incontro, era inevitabile. Il lessico marino gli rimane come forza esprimendi, come congenita incapacità d’allontanarsi dal mare nonostante il suo materiale allontanamento successivo da Genova per vivere prima a Firenze o poi a Milano, o nonostante il dichiarato non rimpianto per questa fuga: “Non ho per Genova un amore deluso, ma credo mi sia stato utile cambiare vita e città”, ha detto nel 1967 (ma poco prima aveva scritto che Genova era la città che lo
aveva formato, che aveva temprato il suo carattere bello o brutto che fosse e che non avrebbe mai potuto dimenticarla senza rinnegare se stesso). In Meriggiare (quante futili accuse di inesistente dannunzianesimo o persino di crepuscolarismo per questa splendida immagine!), in Meriggiare, dicevo, il tema è suggerito:
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
…Viene poco dopo rilasciato con maggior impeto in Non rifugiarti
nell’ombra, là quando conclude:
“Pure, lo senti, nel gioco d’aride onde
Che impigra in quest’ora di disagio
non buttiamo già in un gorgo senza fondo
le nostre vite randagie.E ribadito successivamente in “canneto rispunta i suoi cimelli” dove scrive:
“Sale un’ora d’attesa in cielo, vacua,
dal mare che s’ingrigia. Un albero di nuvole sull’acqua
cresce, poi crolla come di cinigia”.
Quasi vent’anni dopo scriverà su Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946): “Il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto”. E i termini di questo rapporto sono chiari in quel Arremba su la strinata proda che, a mio avviso, è grande preludio allo scontro dualistico concretizzato in Mediterraneo. Come altrimenti leggere:
Arremba su la strinata proda
le navi di cartone, e dormi,
fanciulletto padrone: che non oda
tu i malevoli spiriti che veleggiano a stormi.
(…)Viene lo spacco; forse senza strepito.
Chi ha edificato sente la sua condanna.
È l’ora che si salva solo la barca in panna.
Ammarra la tua flotta tra le siepi?
Giustamente sostiene Manacorda nel suo già citato Montale che questa poesia “è l’antefatto più prossimo al “delirio d’immobilità”, con la drammatica coscienza di quanto comporti la perdita delle illusioni che ogni avventura promette, e nell’ormai raggiunta certezza che nulla vale la pena d’esser vissuto, nemmeno la bellezza del rischio”. Infatti:
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada”,
scrive il poeta negli ultimi due versi dell’ultima lirica di Ossi.
* *
Mediterraneo: le nove poesie di rapporto sullo scontro diretto Montale-mare, sono pubblicate come settimo elemento del volume Ossi di seppia: sono state scritte nel 1924 e si propongono come forma di colloquio. Montale scrive sempre in “tu” (“i critici ripetono, da me depistati, che il mio tu è un istituto. Senza questa mia colpa avrebbero saputo che in me i tanti sono uno anche se appaiono moltiplicati dagli specchi”, scrive in apertura di Satura), ma mentre questo tu è spesso indefinito (solo qualche faccia di donna appare in La bufera e quella della moglie in Xenia), in Mediterraneo non vi sono dubbi su chi sia l’interlocutore, l’alternativa. E’ il mare. Nell’incontro, chiaramente dualistico, Montale si dichiara aprioristicamente succube e perdente. Solmi e anche Manacorda ritengono che Mediterraneo “in luogo di circoscriversi ad un simbolo preciso, ad un’idea, rimane una grande rapsodia dei tipici motivi del primo Montale” (Solmi). A me sembra che qui si raccolga il meglio di tutto Montale. Solo in questo dualismo fra essere finito (lui, il piccolo uomo-bambino) e infinita infinità (il mare) il poeta ha saputo sintetizzare la sua filosofia:
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
… Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine… E’ dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.
… E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliolo, mare, ha per il padre.
Scrive in Giunge a volte, repente che è la quarta delle poesie di Mediterraneo. Un mare visto come padre: pertanto con “rancura”, come un nemico. E di più aveva scavato in questo trauma di genitore-generante-nemico, sempre in Giunge a volte, repente, quando scrive:
… il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Ma, come sempre, nei confronti del padre-generatore-nemico c’è ammirazione, senso di imitazione, necessità di identificazione (“l’atteggiamento del fanciullo ammaliato dal mare da cui prende coscienza della piccolezza dell’esistere ma insieme della necessità di risolverla in quella infinita vastità” dice, qui giustamente, il Manacorda). E infatti scrive:
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine; …
e conclude questa poesia:
“Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
II tuo delirio sale agli astri ormai.
Pur mantenendo l’atteggiamento di sfida nei confronti del mare la posizione del poeta diventa ulteriormente debole e di minoranza-sudditanza quando affronta il tema della insufficienza del lessico, della parola, della incapacità di dare messaggi universali:
Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento: dato che mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare: —
Io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
La catarsi si compie nell’ultima lirica di Mediterraneo: Montale, garantendo la propria inutilità di essere umano, rende il mare testimone della sua remissione, del suo abbandono, del suo “male di vivere”. E da questa richiesta di testimonianza passa con inevitabile precisione all’ansia di dissoluzione:
Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M’attendo di ritornare nel tuo circolo,
s’adempia lo sbandato mio passare”.
E, infine, la resa finale senza condizioni:
“a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
Esaurito questo confronto, in tutta l’opera di Montale il mare torna a comparire solo quale fornitore di lessico e di metafore alcune delle quali hanno tinte ineguagliabili. In Marezzo, per esempio, c’è una lucidità d’immagine a mio avviso superiore a quella nota e decantata di Cigola la carrucola del pozzo, e questi versi in quartine dove settenari, ottonari e endecasillabili si alternano senza apparente funzione ritmica (ma solo apparente, s’intende) sono in realtà fra le più belle pagine di mare mai scritte:
Aggotti, e già la barca si sbilancia
e il cristallo delle aeque si smeriglia.
S’è usciti da una grotta a questa rancia
marina che uno zefiro scompiglia.
(…) /Un pescatore da un canotto fila
la sua lenza nella corrente.
Guarda il mondo del fondo che si profila
come sformato da una lente.
Nel guscio esiguo che sciaborda,
abbandonati i remi agli scalmi,
fa che ricordo non ti rimorda
che torbi questi meriggi calmi.
Da Ossi di seppia a La bufera e altro (opere scritte fra il 1940 e il 1945): si trovano qui definizioni di carattere marino di infinita squisitezza. In Due nel crepuscolo, per esempio ci sono questi versi:
Fluisce fra te e me sul belvedere
un chiarore subacqueo che detorma.
Ancora il mare come metafora in Visita a Fadin, prosa per un amico, l’amico-poeta Sergio Fadin, morente:
Il mare, in basso, era vuoto e sulla costa apparivano sparse le architetture di marzapane degli arricchiti.
E che dire di quel fedele, puntiglioso quadro -confronto che è “L’anguilla”, forse “il punto più alto della poesia di Montale”, come dice Manacorda,
sia per la pregnanza delle immagini che per la tensione di una struttura la quale, riprendendo i momenti più felici di una gloriosa carriera, si svolge in mirabile continuum reso ancor più serrato e incalzante dalla forma interrogativa entro cui è totalmente compreso.
Da un mare padre era del resto inevitabile trovar parentela, gemellaggio poetico nei pesci primogeniti del nostro stesso padre: l’arte anticipa sempre la scienza e quanto oggi è di dominio comune fra i colti era già stato chiaramente intuito da Montale.
Ancora due citazioni sono necessarie e vengono da Satura (poesie degli anni 1962-70). C’è una curiosa, perché apparentemente contrastante, affermazione in Gli uomini che si voltano dove scrive:
Non apparirai più dal portello
dell’aliscafo o da fondali d’alghe,
sommozzatrice di fangose rapide
per dare un senso al nulla…
e c’è un cantico in Le stagioni:
“II mio sogno non è nell’estate
nevrotica di falsi miraggi e lunazioni
di malaugurio, nel fantoccio nero
dello spaventapasseri e nel reticolato
del tramaglio squarciato dai delfini, non nei barbagli afosi dei suoi mattini
e non nelle subacquee peregrinazioni
di chi affonda con sé e col suo passato.
Nel 1966 Eugenio Montale ha dichiarato a Sandro Briosi:
Se io ho potuto vivere, attraverso prove molto difficili e dolorose (attraversate da molti uomini della mia generazione, non da tutti naturalmente, perché molti si sono accomodati con destrezza, nel modo più agevole); se ho potuto vivere e sopravvivere ho avuto una certa fede. Fede nella poesia intanto. Sarà una fede il cui oggetto può riuscire oscuro, e che consiste soprattutto nel vivere con dignità di fronte a sé stessi, nella speranza che la vita abbia un senso, che razionalmente ci sfugge, ma che vale la pena di sperimentare, di vivere”. (In Uomini e idee, marzo-aprile 1966, n. 2).
Oggi Eugenio Montale ha 79 anni.
Foto “Eugenio Montale upupamulas1” – tratta dal sito: www.forumlive.net che ringraziamo.
Articolo apparso sulla rivista “Mondo sommerso” del 15 dicembre / 15 gennaio 1975-76 e qui riprodotto per g.c. dell’autore.
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Neppure Dante lo era, ma nessuno ha mai descritto l’affondamento di uno scafo (quello di Ulisse) come ha fatto lui.
Antonio Soccol