Sic transit gloria mundi
di Antonio Soccol
Era più famoso del Papa. Di quell’uomo cioè che, appena viene eletto dal Conclave, incontra un maestro di cerimonie che gli presenta una canna inargentata sulla cui cima brucia una stoppa e gli mormora “Sancte Pater, sic transit gloria mundi”. Una inchiesta, fatta negli Usa alla fine degli anni Settanta, lo aveva classificato “l’uomo più conosciuto” di tutto il pianeta. Si chiamava Jacques Yves Cousteau, il “Comandante Cousteau”, “le Commandant” per tutti. Era famoso per un sacco di cose ma soprattutto per quella straordinaria serie di documentari , “The Undersea World of Jacques Cousteau”, girati per la M.G.M. e distribuiti in tutto il mondo.
La prima volta che lo incontrai di persona era il 1977. Ero direttore del mensile “Mondo sommerso”, allora. E lui era a Venezia con la sua Calypso, la leggendaria ex motovedetta americana (comprata come residuato di guerra e poi restaurata) con la quale aveva navigato tutti i mari ed esplorato tutti gli abissi della Terra. Tramite l’amico Sergio Bertino, che di Cousteau era “l’eminenza grigia”, ebbi facilmente un appuntamento per una intervista. Mandai, un paio di giorni prima, Marian Skubin a fare un po’ di fotografie e poi mi presentai assieme a Silvia Terraciano e a Marina Cecchini che erano aspiranti giornaliste, esordienti in redazione. Gli portammo in omaggio una t-shirt con il logo della rivista che finse di apprezzare. Mi concesse una cordiale chiacchierata nella sua “cabina -camera da letto- studio” ma proibì alle ragazze di varcarne la soglia: “Tranne mia moglie Simone, nessuna donna può entrare qui dentro”, disse. Mandai le giovani e avvenenti fanciulle a chiacchierare con l’equipaggio che gradì la mia decisione…
“Non registra?” mi chiese il “Comandante”? Con la mia solita presunzione risposi che, se avessi scordato qualcosa, voleva dire che non era molto importante. Rimase colpito dall’arroganza ma non commentò. Aveva da poco abbracciato la linea ecologista e abbandonato i fucili subacquei: “Quest’anno li abbiamo proprio tolti dal catalogo della nostra azienda che produce materiale sub e, nella doppia pagina, che un tempo presentava i vari modelli, abbiamo scritto: Stop ad uno sport sbagliato, basta caccia”, disse. E poi si scatenò contro la mania degli italiani di sparare a tutto quello che sott’acqua si muove, dalle sardine agli squali: “Uccidere un animale, sparargli è scuola per uccidere anche gli uomini”, disse. “Scuola per diventare assassini?”, chiesi. “Sì, assassini”, confermò. E mi guardava con quei suoi occhi penetranti, il mezzo toscano semi spento fra le labbra: sembrava stupito della mia incondizionata aria di approvazione. Ero direttore da poco e non poteva sapere che avevo già dato un radicale cambiamento ai contenuti della rivista sostituendo la caccia sub con la fotosub persino nello “scopo” del famoso storico Trofeo che portava il nome della testata. E non sapeva che tutto questo mi aveva già creato un nutrito stuolo di nemici.
Quando pubblicai la sua intervista successe un finimondo. Come prima razionale (???) reazione, ovviamente, tutte le industrie italiane che producevano materiale sub tolsero la loro pubblicità alla rivista: “Se i nostri clienti devono esser considerati degli assassini, non vogliamo aver a che fare con voi. E poi… la caccia fa parte del dna dell’uomo, se la togliamo chi andrà più sott’acqua?”, dissero quei lungimiranti imprenditori. Venni accusato di voler mettere sul lastrico migliaia di dipendenti. Io? Arrivarono valanghe di lettere (ovviamente di insulti: molti per il comandante, una infinità per me). E si mandarono all’avvocato Gianni Agnelli, che al tempo era anche il proprietario di “Mondo sommerso”, persino telegrammi di sdegno firmati con nomi di fantasia. (Fu un gioco da ragazzi scoprire chi, da dove e perché avesse fatto queste operazioni ma il presidente della Fiat fece spallucce e cestinò il tutto).
Argomentai che sapevo perfettamente che, in un sol giorno, una rete a strascico faceva più danni di quanti un cacciatore subacqueo avrebbe potuto farne in tutta la sua vita ma dissi anche che i danni creati da tutte le reti di tutti i mari, sarebbero inesorabilmente stati fatti ricadere sull’attività subacquea, che già veniva attaccata da patetici articoli (drammatico per stupidità uno del “Corriere della Sera” di Fulco Pratesi, in cui si sosteneva che i sub scendevano i fondali con un coltello per “pugnalare” i pesci…). Dissi che proprio perché eravamo, noi sub, gli unici a vedere con i nostri occhi le devastazioni dei fondali dovevamo denunciarle e nel frattempo dare per primi il buon esempio. Osservai che se i fondali avessero perso ogni abitante, ben pochi sub avrebbero trovato divertente frequentarli e quindi che le aziende produttrici sarebbe fallite. E, infine, sbottai che non trovavo assolutamente divertente celebrare ad ogni fascicolo della rivista, iniziando dalla copertina, il “funeralino in do minore” della cernia piuttosto che del cefalo: “Che rivista è, una piena solo di cadaveri?”. Dissero che ero pazzo. Ma non mollai finché l’editore rimase Gianni Agnelli.
Poi mi feci una rivista mia, tutta mia. La chiamai “Sesto continente” in onore di quel primo film a colori subacqueo italiano girato, nel 1953, da Folco Quilici e Bruno Vailati in Mar Rosso, alle isole Dahlak e continuai la mia lotta. Dopo l’uscita del numero 1, Cousteau mi inviò un telegramma che diceva testualmente: “Ammirato stupenda e apprezzata nuova rivista del mare “Sesto continente” auguro massimo successo. Stop. Sperando presto portarle di persona nostro incoraggiamento invio amichevoli saluti”. Di quella testata se ne parla ancor oggi, a ventotto anni di distanza. E la caccia, almeno quella con l’erogatore, è stata proibita per legge.
I rapporti con Cousteau, che aveva ben capito quanto eravamo dalla stessa parte della barricata, si intensificarono. Lo aiutai ad avere la sponsorizzazione dell’Iveco nella sua spedizione con la Calypso sul Rio delle Amazzoni, collaborai alla sua enciclopedia che stava editando per i tipi della Fabbri Editore. Poi gli aprii le porte per andare a girare un documentario a Cuba, parlandone direttamente con Fidel Castro.
Questa ve la racconto. Un giorno (anzi una notte, perché riceve sempre dopo mezzanotte) Fidel mi guarda e mi dice: “Perché Cousteau non viene a girare un film qui? I nostri fondali sono stupendi e abbiamo anche molti relitti.” “Oje, compañero… Tu sai che Cousteau è il presidente di una società che ha sede negli Stati Uniti… e se viene qui, rischia non pochi problemi…”. Fidel mi squadra e con il suo vocione mi travolge: “Come sarebbe che uno, che non ha paura degli squali, ha paura dei gringos… Digli di venire! ” Stavo per rispondergli ridendo: “A su orden!” quando, per farmi capire che non scherzava, il lider maximo mi regalò due bottiglie: una di ron cubano, riserva specialissima che aveva come contenitore una splendida boccia di cotto e un’altra: “Questo è whisky. Echo en Cuba!” tuonò e aggiunse: “Faglielo assaggiare al tuo amico Cousteau e digli che, anche in questo, noi cubani siamo meglio e più bravi dei nordamericani…”. E così, pochi mesi dopo, la Calypso entrava nel marina “Hemingway” di Barlovento, alla periferia di La Habana. Il documentario che Cousteau girò, inizia con un primo piano degli stivaloni di Fidel che montano a bordo della famosa barca e prosegue poi con bellissime riprese di uno squalo balena eccetera eccetera.
Andai, poi, un paio di volte a trovarlo a Montecarlo, Cousteau. Dirigeva, infatti, anche il grande Museo Oceanografico del Principato, che è ospitato in un bellissimo edificio neoclassico costruito a picco sul mare su una scogliera alta 80 metri. Poi, per quasi un anno, ci perdemmo leggermente di vista. Sapevo che stava trafficando con una nuova barca, che aveva acquistato un brevetto di propulsione eolica e che ci sarebbero state delle novità interessanti.
Lo erano, davvero. Nella primavera del 1985 ricevetti, unico giornalista italiano, l’invito ad andare a La Rochelle, nel nord della Francia, per assistere al varo di questa nuova fantastica imbarcazione. All’epoca collaboravo con “la Repubblica” ed ecco cosa scrissi il 14 maggio di quell’anno sotto al titolo “ANCHE LE VELE DIVENTANO TURBO NELLA NUOVA BARCA DI COUSTEAU”
La Rochelle – Il comandante Jacques Yves Cousteau, 72 anni, è partito dal porto francese di La Rochelle con la sua nuova imbarcazione, l’ Alcyone, per New York. La traversata dell’ oceano Atlantico durerà cinque settimane con due scali di cinque giorni ciascuno alle Azzorre e alle Bermude. L’ Alcyone è uno scafo rivoluzionario per quanto concerne il sistema di propulsione. Costruito in alluminio, su progetto di Andrè Mauric e lungo 31,10 metri, dispone di due “turbovele” di 10,20 metri di altezza e con una superficie di 21 metri quadrati ciascuna (oltre che di due diesel Aifo-Iveco 8061 SM da 156 cavalli). Il neologismo “turbovela” corrisponde ad un sistema propulsivo sviluppato nel 1980 dal ricercatore francese Lucien Malavard, messo a punto con oltre 350 esperimenti da Bertrand Charrier della Fondazione francese Cousteau e brevettato dalla fondazione stessa in tutti i paesi marittimi del mondo.
Alla fine del 1984 il brevetto è stato ceduto al gruppo francese Pechiney che opera nel settore dell’ alluminio (costruzione di antenne radar, satellitari, navi eccetera) con oltre 450 ricercatori e 110 ingegneri, in 65 paesi. Il principio si basa sulla spinta del vento ma crea una energia motrice 3 volte superiore a quella che, per esempio, riescono a garantire le pur sofisticatissime vele del nostro Azzurra. Da tempo gli armatori delle flotte mercantili stanno studiando un sistema di propulsione che consenta una considerevole riduzione dei costi.
In Giappone, nel 1980, è stata costruita la Shin Aitoku Maru, una minipetroliera spinta da due vele rigide comandate da un sistema idraulico assoggettato ad un computer: i risultati sono stati giudicati interessanti benché modesti, specie dal punto di vista della velocità. “Il nostro sistema Cousteau-Pechinay – ha dichiarato il comandante francese – consente un risparmio dal 15 al 35 per cento di energia in funzione del tipo di rotta e di vento.
Questo significa che, applicato ad un mercantile da 30 mila tonnellate, può assicurare – al prezzo attuale del petrolio – un risparmio annuo di 2 milioni di franchi francesi (circa 400 milioni di lire)”. “Questa è la vera funzione degli ecologisti – ha aggiunto -: proporre novità sul piano tecnologico che consentano soluzioni di risparmio energetico e non inquinanti”. Secondo Cousteau la “turbovela” potrebbe essere applicata anche a terra per produrre energia. Ma i risultati definitivi di questa invenzione e i suoi molteplici vantaggi si avranno solo dopo la prima lunga traversata dell’ Atlantico. “Nei pochi giorni di prove che abbiamo avuto a disposizione (la barca è stata varata il 31 marzo), il vento non ci è stato amico ed ha spirato ad una velocità massima di 27 nodi con i quali abbiamo raggiunto una velocità di 10,5 nodi, il che è niente male se si pensa che Alcyone disloca comunque 16 tonnellate”. Una volta raggiunta New York l’ Alcyone proseguirà per una crociera di due anni che toccherà tutti i porti più industrializzati del mondo: in autunno scenderà le coste del Sud America, in dicembre passerà Cape Horn e nella primavera del 1986 partirà dal Messico per raggiungere la Cina e il Giappone.
Solo per Natale dell’ anno prossimo la barca entrerà in Mediterraneo, salendo dal Mar Rosso. Nel frattempo saranno terminati i lavori di trasformazione con due “turbovele” da 100 metri quadrati ciascuna, di un mercantile da 5 mila tonnellate di stazza, che attualmente trasporta vino sulle rotte della Grecia e della Turchia e che sarà la prima nave da trasporto funzionante con il brevetto Cousteau-Pechiney. “Alcyone – ha detto Cousteau – è governabile da due uomini. L’ equipaggio completo è di 5 persone per garantire la navigazione 24 ore su 24. Grazie alla orientabilità delle turbovele, la provenienza del vento non ha praticamente importanza”. E’ stato chiesto se il brevetto è applicabile anche alle imbarcazioni da diporto. “Il diporto ci interessa relativamente – ha detto l’ oceanografo – mentre ci preme molto il problema dei pescatori. Il sistema in teoria è applicabile; per poter ridurre i costi di costruzione delle turbovele dobbiamo però raccogliere più elementi”. E’ quello che vogliono fare i dodici passeggeri dell’ Alcyone: i cinque membri dell’ equipaggio, i cinque ricercatori della Fondazione Cousteau, il giornalista scientifico americano Dick Murphy e il giornalista sovietivo di Radio Mosca Vladimir Krivocheev, che, via satellite, invierà in Russia resoconti quotidiani del viaggio.”
Era nato un nuovo sistema di navigazione ma, come tutte le novità, molti restarono scettici. Come ho già avuto modo di ricordare, Charles-Edouard Jeanneret, detto “Le Corbusier”, ha scritto che “ci vogliono almeno vent’anni perché un’idea sia recepita, trenta perché venga realizzata…”.
Diciannove mesi dopo, nel dicembre del 1986, ero in Nuova Zelanda, a Auckland, perché c’erano i campionati mondiali dell’offshore e io dovevo farne la cronaca per i lettori del quotidiano “Il Messaggero” di Roma; perché qualcuno aveva affondato un peschereccio-nave di Greenpeace (il 10 Luglio 1985, quando mancavano dieci minuti alla mezzanotte, due esplosioni squarciarono lo scafo della nave Rainbow Warrior ormeggiata nel porto di Auckland. Lo scafo affondò immediatamente mentre, Fernando Perreira, un fotografo di Greenpeace, rimase ucciso) e quei bravi ecologisti volevano “giustizia” e perché Claudio Sabelli Fioretti, allora direttore della stupenda rivista “PM” (Panorama Mese), mi aveva incaricato di descrivere per i suoi lettori le bellezze della Nuova Zelanda (sapete neanche 10 milioni di abitanti, 40 milioni di mucche e 70 milioni di pecore).
Erano giorni densi di lavoro quelli: la giornata iniziava alle sette con la disperata ricerca di impossessarsi per primo di un elicottero “veloce”, più veloce delle barche che correvano in offshore intendo. In Nuova Zelanda, allora, affittare un elicottero costava meno del noleggio di una autovettura in Europa. Il cambio con il dollaro neozelandese era ottimo persino per la nostra liretta ma soprattutto là di “elicotteri privati” ce n’erano a iosa… Solo che erano piccolini e relativamente veloci…così fra i fotoreporter accreditati, ogni mattina, c’era la gara a chi riusciva ad accaparrarsi l’unico potente…
Dopo la prova dei mondiali, che finiva verso le 13, bisognava andare al paddock per le interviste di rito, portare le pellicole a sviluppare, incontrare i responsabili del turismo nazionale, intervistare i ragazzi di Greenpeace, scrivere il “pezzo” per il quotidiano romano e…aspettare le 4 del mattino (quando in Italia erano le 16: dodici ore esatte di differenza di fuso orario!) per dettarlo alla sala stenografi de “Il Messaggero”. Insomma dormivo sì e no tre ore al giorno. Un notte che proprio era stanchissimo, mi stavo appisolando su una poltrona in attesa della fatidica ora nella quale qualcuno sarebbe stato presente in sala stenografi (non esistevano, allora, le e-mail e i fax erano molto difettosi) quando Antonella mi dice: “La radio ha appena detto qualcosa su Cousteau. Se ho ben capito è qui a Auckland”. Feci un salto alla finestra dell’albergo che dominava il porto e scoprii subito la sagoma inconfondibile della Calypso ormeggiata poco oltre il paddock dell’offshore.
Per mia fortuna, l’indomani era giornata di riposo per il mondiale e avevo un po’ di tempo. Armai le macchine fotografiche e mi presentai alla passerella della Calypso. J.Y. Cousteau mi dava le spalle ed era intento ad una stranissima manovra che non capivo, ma d’istinto fotografai. Poi lo salutai.
Si sorprese: “Vous?, Vous aussi êtes ici?”. “ Et bien, oui, mon Comandant.” Gli chiesi cos’era quello strano armeggio che avevo notato. Sorrise e spiegò: “Devo incontrare i maori e mi sono scritto sul palmo della mano un “saluto” nella loro lingua impossibile…” . “Come a scuola quando eravamo ragazzi e venivamo interrogati?”. “Infatti, la vita è tutta una interrogazione…”, chiosò.
Chiacchierammo a lungo e poiché, come ho detto, avevo proprio poco da fare, ne ricavai una bellissima intervista che inviai a “Epoca”, il prestigioso settimanale allora diretto da Roberto Briglia, (oggi capo di tutti i periodici Mondatori)… e dove mi persero quella divertente, buffa fotografia del comandante che si scriveva sul palmo della mano il saluto maori.
Non lo vidi più. Mi invitò, nel 1989, per la cerimonia di consegna di quella spada (che aveva voluto di cristallo e al cui acquisto avevo contribuito assieme a tanti suoi amici) che lo rendeva membro dell’Académie Francaise e quindi “Grande di Francia”, ma impegni di lavoro mi impedirono di andare a Parigi a festeggiarlo. Nato l’11 giugno del 1910 a St. André de Cubzac, vicino a Bordeaux, è morto a Parigi il 25 giugno 1997. Ha lasciato moltissimi film, tanti testi e un aforisma fantastico: “La felicità è conoscere e meravigliarsi”. Sono passati appena undici anni dalla sua scomparsa e quasi più nessuno si ricorda di lui.
E le sue barche? La Calypso giace abbandonata, autentico relitto galleggiante grondante di ruggine e tana di pantegane, nel porto di La Rochelle. Jocelyne de Pass, traduttrice e fedele amica sia di Simone che di Jacques Yves Cousteau, ha scritto un bellissimo libro: “Moi, Calypso” (edito in Francia da Editions Michalon ma non in Italia) sulla storia di questo leggendario scafo che meriterebbe d’esser trainato al largo e lasciato affondare e così riposare su quei fondali che ha tanto contribuito a farci conoscere.
Alcyone, che Cousteau (come Ovidio) chiamava “la figlia del vento”, è stata venduta nel 1993 per circa due milioni di dollari e, dal 30 maggio, di quest’anno si trova a Concarneau, presso i cantieri Piriou, per lavori di ripristino.
E’ proprio il caso di dire « Sancte Commandant, sic transit gloria mundi ».
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Caro Mirco (ex-Miura),
grazie per le tue parole: riuscire a creare emozioni, sia pure attraverso i ricordi, è davvero un elemento importante (e gradevole) del mio lavoro di cronista del mio tempo.
Rispondo alle tue domande.
Dart: Giorgio Adreani che lo aveva costruito, ora vive in Centro-America e, faticosamente raggiunto dalla tua domanda (quella vecchia di qualche mese fa), ha mandato a dire che lo ha venduto per poche lire ma non ricorda a chi… Difficile trovarlo (il Dart, intendo). Ma non dispero. Appena la trovo quella barca te lo dico dov’è, promesso.
Latino: quando viene eletto il nuovo Papa, un camerlano lo avvicina e, facendogli vedere un stoppa che brucia, gli dice : “Sancte Pater, sic transit gloria mundi”, cioè “Santo Padre, ricordati che così passa la gloria umana (terrestre)”. Insomma: “Ora sei potente ma non ti montare troppo la testa perché il tuo potere termina in fretta come questo fuoco della stoppa”.
Parafrasando quella storica espressione, ho scritto “Sancte Commandant, sic transit gloria mundi “, cioè “Santo Commandante, (ahimè) così passa la gloria terrestre”.
Ciao,
Antonio
>Ultima domanda, dal momento che con il latino non ci ho mai preso,….nemmeno alle medie…. mi traduce il significato di « Sancte Commandant, sic transit gloria mundi ». Grazie ..
Egr.Sig. Soccol,
è destino che lei deve muovere sensazioni in me sopite da anni, parlando del “comandante” mi ha fatto ricordare i magnifici documentari che venivano trasmessi anni fà in RAI (non la spazzatura che viene proposta hai ragazzi di Oggi).
Non riesco ad andare avanti, tutto in un tratto ricordo i giorni in cui attendevo con ansia che trasmettessero le avventure del COMANDANTE con i suoi figli ed equipaggio… Ci sentiremo più avanti perchè ora questo suo articolo mi ha riempito di una nostalgia… di un ricordo che nonostante tutto esistevano… e spero esistano uomini che hanno un credo in quello che fanno,….uomini… esempi. .. che la società di oggi avrebbe veramente bisogno…
Grazie…
PS. 2 motori del Montreal (da rifare…ma non è un problema) li ho trovati… ma il DART ..per caso sà dove si trova? … se c’è ancora?
Affettuosi saluti
Mirco