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Il provincialismo del brand – La barca non è un auto (33ma puntata) settembre 2009

11/10/2009/3 Commenti/in Antonio Soccol, Antonio Soccol - Articoli, Rivista Barche - mensile di nautica/da Antonio Soccol

di Antonio Soccol

Sommario:

“Da che la gente non crede più in Dio non è che non creda più in nulla ma al contrario crede a tutto” (Gilberth Keith Chesterton)

“Pare che uno degli istinti della nostra specie sia rifiutare le spiegazioni economiche per cercarne altre più complesse e consolatorie” (Umberto Eco)

Da trentatré mesi vado scrivendo che la barca non è (né deve esser considerata) un’automobile.

Ma è proprio all’industria automobilistica che la produzione nautica deve guardare se vuol diventare “industria” lei stessa. E se vuole quindi mettere a disposizione del mercato (che siamo noi) prodotti validi con prezzi accettabili.

Un lettore mi ha scritto:

“Perché dovremmo prender lezioni da chi oggi è in crisi assoluta? Perché imitare chi produce 90 milioni di macchine quando il mercato ne può assorbire appena 60 milioni?”

Vero e giusto. Anche l’industria dell’auto fa i suoi errori. Ma è industria. La nautica no.

Riflettendo su questi concetti mi sono reso conto di come io abbia avuto in famiglia un esempio piuttosto interessante benché antico nel tempo. Risale agli anni Venti del secolo scorso.

Fu proprio nel 1920, infatti, che mio padre aprì a Venezia un cantiere motonautico. Nei primi anni di quel secolo aveva girovagato per le “industrie” del nord ovest come Guzzi, Bianchi, Officine Miller per finire poi responsabile del reparto sala prova motori alla Fiat di Torino. Da qui se n’era andato per concretizzare un suo sogno coltivato sin dall’età di sette anni: conoscere gli Stati Uniti e vivere un certo periodo di tempo a New York. Aveva perciò abbandonato un posto di lavoro importante e ben retribuito per aggregarsi alla moltitudine (4 milioni e 600mila) di italiani che emigravano verso gli States in cerca di lavoro e di fortuna.

Era consuetudine dell’epoca, da parte del datore di lavoro, rilasciare ad un lavoratore che cessava il suo rapporto di collaborazione un documento che si chiamava “benservito”: era una dichiarazione ufficiale relativa alle capacità e qualità del lavoratore stesso. In sintesi, un documento che serviva come forma di accredito e garanzia per le nuove aziende dove quel lavoratore intendeva rivolgersi.

Ho copia, sia in italiano che in inglese, di quello che la Fiat rilasciò a mio padre: vi si legge che era “qualificato e stimato” e che erano sempre disposti a riassumerlo qualora lui ne avesse avuto intenzione o desiderio. Con questo documento, l’emigrante Celeste Soccol affrontò le incognite di un paese straordinario dove però si parlava una lingua che ancora non conosceva. In compenso conosceva molto bene il linguaggio dei motori e gli fu facile inserirsi in quel sistema.

Arrivò alla Simplex che produceva automobili in catena di montaggio e poi alla fine si mise in proprio e aprì il primo punto di assistenza per automobili Fiat di tutta New York. Fece una dignitosa fortuna e al termine della I° Guerra mondiale decise di rientrare in patria e di aprire un cantiere a Venezia dove aveva trascorso l’infanzia.

Le barche allora si costruivano in legno, in doppio (talvolta triplo, ma raramente) fasciame sovrapposto con all’interno tela bagnata con olio di lino. Un lavoro lentissimo. Soprattutto perché la stessa squadra di operai faceva praticamente tutto: lo scafo (carena, coperta, tuga), installazione motori, impianto elettrico, interni, pitturazione.

Forte delle esperienze automobilistiche fatte, prima in Italia e poi negli Usa, mio padre organizzò il lavoro con il criterio della catena di montaggio: una squadra di operai faceva solo la carena, un’altra il lavori sul ponte (coperta e tuga), una terza si occupava della impiantistica, una quarta montava gli interni già costruiti “fuori opera” e infine un’ultima provvedeva a dipingere l’imbarcazione.

Capitò di dover far fronte a commesse per una dozzina di barche tutte eguali per dimensioni e motori e in quelle occasioni il criterio della catena di montaggio diede il meglio: in appena sei mesi vennero costruite 12 barche. Una media di uno scafo ogni 15 giorni era, per quell’epoca, un ritmo incredibile e imbattibile.

Isaac Asimov, uno dei migliori scrittori di fantascienza, ha basato l’elemento portante della sua famosissimo Trilogia della Galassia su un concetto elementare: l’umanità ha una forte propensione a dimenticare. Per questo, quegli uomini della Galassia avevano deciso di realizzare la più grande Enciclopedia mai pensata e realizzata. Perché nulla di quanto era stato studiato e inventato andasse perduto per sempre.

Nel settore della nautica una Enciclopedia del genere sarebbe quanto meno indispensabile. Grandi inventi, grandi tentativi, grandi ricerche sono finite in discarica senza pudore e con grave nocumento.

Certo oggi le barche si costruiscono in una specie di catena di montaggio (lo faceva già, come ho ricordato il mese scorso, Carlo Riva negli anni Settanta: una barca al giorno). Ma bisogna anche ricordare che, sin dal 1910, William Albert Hickman aveva provato le prime eliche di superficie e con tale successo da brevettarle e farle funzionare su decine e decine di barche.

Ma nessun cantiere raccolse quel suggerimento e nessun progettista tentò di migliorare le prestazioni allora raggiunte. Dovettero passare più di sessanta anni perché Renato “Sonny” Levi le applicasse al Drago della Italcraft dimostrando la loro totale efficienza e supremazia nei confronti delle trasmissioni immerse tradizionali.

Oggi, quasi 40 anni dopo il varo di Drago e quindi a un secolo dagli studi fatti da Hickman, nella nautica da diporto le eliche di superficie non sono ancora diffuse… I pochi cantieri che le conoscono dicono che non vanno bene per i loro clienti i quali, invece che imparare a portare una barca, sono felicissimi di sprecare il 20 per cento in più di carburante. Contenti loro, visto il poco che costano oggi benzina e nafta…

E allora, che cosa ha oggi da imparare la nostra cantieristica dall’industria automobilistica? Intendo, oltre a quello di cui abbiamo già parlato il mese scorso: motori tutti eguali, pianali idem, joint venture e scambio di tecnologie fra i maggiori fabbricanti al mondo, utilizzo degli stessi fornitori.

Molto. Anche se farei prima a dire: tutto.

Avete qualche minuto? Cliccate il vostro pc su questa url http://www.fiat500.com/videoconf/01-IT/main.asp e stupitevi. Avete 500.000 (diconsi cinquecentomila) possibilità di personalizzare la vostra ipotetica Fiat 500: 12 colori di carrozzeria, 12 tipi di cerchi, 2 tipi di tetto, 55 tipi di sticker & badget, 4 generi di sportività, 2 di vintage, 14 tipi di sedili, 28 possibilità di scelta del tipo di chiave, di leva del cambio, una dozzina di soluzioni per la sportività e il confort e , infine, 4 scelte per l’infotainment (che, onestamente non sapevo neppure cosa significasse ma che, dalle figurelle, ho capito aver a che fare con la radio, le casse acustiche, il gps eccetera).

Il tutto consente un gioco: quello di farsi la Fiat 500 come uno vuole. Le soluzioni disponibili sono, come detto, più di mezzo milione.

“Ma così non si fa industria”, potrebbe obiettare qualcuno argomentando che una tale mostruosa facoltà di personalizzazione snatura la logica del prodotto fatto in grande serie.

Si tratta infatti di un gioco. Ma di un gioco furbo furbo. Mi dicono che a inventarlo sia stato Luca De Meo, un cervello del marketing che lavorava in Fiat prima del lancio della 500 e che poi è fuggito in Germania al colosso Wolksvagen. A cosa è servito (e in parte ancora serve) questo giochino da web? Non solo a creare una particolare attesa per quel prodotto automobilistico, non solo a far sognare ma soprattutto a conoscere effettivamente l’esigenze del futuro mercato, inesorabilmente composto nella sua maggioranza da giovani capaci di smanettare su un pc.

Quella che si chiama una “indagine di mercato” fatta senza dirlo e senza farsi capire ma acquisendo a priori gli interessi della clientela e organizzandone, di conseguenza, la produzione.

L’Ucina, con encomiabile sforzo, ha commissionato alla Ispo di Renato Mannheimer una inchiesta di mercato dalla quale è risultato che chi vuole la barca chiede di stare in contatto con la natura e con il mare. Chi l’avrebbe mai detto? Il mio amico Franco Harrauer, quando qualche potenziale cliente gli chiedeva di progettargli “la barca dei sogni”, rispondeva sempre: “Ci pensi bene, perché una bella baita in alta montagna è più…” Oggi Harrauer ha più di ottanta anni ed è sempre campato progettando barche. E continua a farlo. Dunque, vuole la barca chi vuol stare in contatto con il mare e non ci voleva il bravo Mannheimer per scoprirlo.

Ma torniamo all’industria delle auto.

Di ogni modello di base si sviluppano una gran quantità di varianti che vengono realizzate in funzione delle precise richieste del mercato (per dare un semplice esempio: per avere oggi una versione cabrio della solita 500 Fiat ci vogliono più di 18 mesi di lista di attesa…).

La produzione si rivolge a due grandi segmenti: quello classico che è un puro e semplice fenomeno di moda e quello dei veicoli commerciali. La versione “basica” tecnica è eguale per tutti: stesso pianale e stesso motore. Poi iniziano le varianti: tre volumi, monovolume, station wagon, cabriolet eccetera per la sezione “moda” che viene realizzata dal fabbricante. A latere prendono nel contempo vita le versioni dei così detti veicoli commerciali: dai carri funebri (anche quella è una fascia di mercato) ai pick up, dalle auto con cassoni frigo a quelle stile camper, dalle auto blindate a quelle per le forze dell’ordine, per la protezione civile, per i vigili del fuoco eccetera. Queste vetture vengono allestite da produttori minori, specializzati e preparatissimi nelle specifiche esigenze tecniche.

Nella nautica si può fare qualcosa di analogo? Ok, ok, lo so: in barca ci si vive, in auto no. Ma, ammettiamolo, la nostra (e non solo la nostra) cantieristica è affetta da una forma di provincialismo del brand che sfiora l’ossessione. Ogni costruttore si ritiene depositario di incredibili capacità e di grandi segreti.

Sapete invece cosa ha fatto l’industria automobilistica quando ha visto lievitare i costi in modo imbarazzante? Ha chiamato al tavolo della progettazione i propri fornitori: “Vorremmo fare un modello così e così. Tu, che mi devi fornire le ruote (i cerchi), cosa suggerisci? E tu che mi devi dare le gomme, cosa pensi? Tu che mi venderai i sedili, cosa proponi…” e così via, dal primo all’ultimo dettaglio, dai particolari apparentemente banali alla ormai fondamentale elettronica. Il progetto nasce dunque da una multi consulenza che investe ogni componente del prodotto allo studio. Si chiede una certa riservatezza, naturalmente. Ma questo è implicito.

Al contrario i nostri cantieri non conoscono quello che qualcuno definisce l’esatto confine fra la personalità del proprio brand e la capacità di produrre con parametri fortemente innovativi. In sintesi ogni capocantiere, ogni mastro d’ascia e ogni mega (?) Gruppo è incapace di esportare il proprio progetto.

E se, come già proposto il mese scorso, qualcuno producesse una unica carena e poi ogni singolo cantiere la personalizzasse? Di uno stesso scafo si possono fare un congruo numero di varianti: barca open, barca cabinata, barca con flyng bridge, barca sobria, barca elegante, barca veloce, barca velocissima, barca da lavoro (da quelle per la CP a quelle per la GdF, dai pompieri alla protezione civile, e poi carabinieri, polizia e via così…).

Mentre scrivo queste note, via mail, mi arriva una info dalla brava Giusi Feleppa, capo ufficio stampa del Salone Nautico di Genova. Dice:

“Cari colleghi, abbiamo il piacere di inoltrarvi una prima selezione di novità ricevute dagli espositori del prossimo Salone Nautico Internazionale.”

E, in allegato ci sono, solo per le barche a motore, ben 18 pagine fitte fitte di novità. Leggo, nella prima voce:

“Le linee esterne sono semplici ed eleganti, il profilo è slanciato e i volumi interni ed esterni sono particolarmente ampi”.

Nella seconda con:

“questo nuovo modello il cantiere rimarrà fedele al suo ideale di barca: sicurezza e doti marine, comodità e solidità”.

Nella terza abbiamo:

“Linee slanciate dello scafo che rivelano uno stile distintivo. Tuttavia è salendo a bordo che lo yacht svela tutta la sua unicità. Luce, spazio, stile, lusso”.

Ne salto alcune e mi imbatto in:

“I nuovi lay-out, in un ottica maggiormente crocieristica, fanno vivere una sensazione di spazio e luminosità unica in questo genere di barche”.

Pietà? Va bene, concessa. Ma non posso farvi perdere queste due perle:

“Linea bassa, slanciata, filante, giovane e divertente, per una navigazione emozionante e veloce, in completa maneggevolezza”, garantisce un noto cantiere ma immediatamente un altro risponde che il suo scafo: “nasce dalla volontà di proporre un’imbarcazione rivolta a tutti coloro che amano navigare ed essere ammirati”.

Chi l’avrebbe mai detto? E’ con questa marmellata che la nautica vuol diventare grande? Se questo è marketing… suggerisco una rilettura del libro “Cuore” di Edmondo De Amicis.

E’ del 1886 (pubblicato due anni dopo) ma può ancora esser utile a questi copywriter… e a questi futuri grandi industriali. Prosit.

 

Articolo apparso nel fascicolo di settembre 2009 del rivista Barche e qui riprodotto per g.c. dell’autore.
Tutti i diritti riservati. Note Legali

 

Tags: Antonio Soccol, Barca diporto, Barche, Nautica, Nautica diporto
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3 commenti
  1. Alessandro
    Alessandro dice:
    04/12/2009 in 09:43

    Gent.mo Antonio Soccol,
    Sono un progettista di un cantiere ligure, leggo sempre con parecchio interesse ciò che scrivi.
    Per questo articolo non posso fare altro che darti ragione al 100%.

    Ti faccio però un appunto su questa parte :
    “E se, come già proposto il mese scorso, qualcuno producesse una unica carena e poi ogni singolo cantiere la personalizzasse? Di uno stesso scafo si possono fare un congruo numero di varianti: barca open, barca cabinata, barca con flyng bridge, barca sobria, barca elegante, barca veloce, barca velocissima, barca da lavoro (da quelle per la CP a quelle per la GdF, dai pompieri alla protezione civile, e poi carabinieri, polizia e via così…).”

    L’idea non sarebbe affatto male, ma sai meglio di me quanto possa essere difficile (impossibile?) associare un solo scafo ad una gamma di imbarcazioni cosi ampia..
    Si potrebbe fare benissimo uno scafo adatto a open e fly, che già esistono, ma diversificarlo in più rami non mi sembra una impresa cosi facile!

    In campo automobilistico, per esempio, studiare un telaio o un motore e usarlo per piu’ case è stato fatto con risultati piu’ o meno buoni. Nulla vieterebbe a due o tre cantieri di fare una join venture per uno scafo..ma generalizzarlo ad un numero maggiore, forse sarebbe difficile, anche se il momento economico che stiamo affrontando potrebbe essere uno stimolo.

    Ti lascio con una domanda: secondo te, come mai alcune realtà medio piccole che lavorano solo sul custom e in maniera artigianale stanno passando indenni il brutto periodo economico, mentre altre, parlo sempre di piccole medie imprese, che producevano serialmente sono in procinto di chiudere? La catena di montaggio o comunque l’industrializzazione nautica è fallita?

    Alessandro

  2. antonio soccol
    antonio soccol dice:
    17/10/2009 in 14:17

    Grazie Sergio per la tua simpatica attenzione al blog e ai miei scritti.
    La “carena oceanica”, se non sbaglio, era lunga circa 6 metri…
    In effetti, se buttiamo a mare un tronco d’albero a Gibilterra, di sicuro entro 4 mesi arriva ai tropici. Come negare che abbia anche lui una “carena oceanica” avendo traversato l’Atlantico? Il dramma è che le parole hanno perso il loro significato e tutti le usano a vanvera: dall’ “utilizzatore finale” in giù.
    L’Accademia della Crusca sta per fallire per mancanza di economie ma probabilmente tutti i suoi studiosi potranno trovare\lavoro nella costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Come muratori, si intende.
    Antonio

  3. Sergio Abrami
    Sergio Abrami dice:
    14/10/2009 in 21:07

    No, “pietà l’è morta”.
    Ti segnalo un’altra perla genovese.
    C’era anche, visto con i miei occhi, una “carena oceanica” sic!
    Smentita, almeno sulla carta, da una “Conformità CE B”.
    Bisogna martellare duro se si vuol cambiare la mentalità della “utenza finale” (horror).

    Sulla barca, carena contenitore, se ne parla da decenni.

    “Fill this space” era un concorso di Yachting UK di 40 anni fa. Certamente il mondo dell’automotive dovrebbe essere studiato con maggior attenzione. E’ ricco di spunti anche se “La barca non è un auto”. SAYD

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