Antonio Soccol: nove anni da secondo pilota offshore
di Antonio Soccol
Ho corso in offshore all’incirca nove anni: dal 1969 al 1977 ed ho esordito – come pilota – alla gara motonautica Viareggio – Bastia – Viareggio del ‘69, con la barca “Barolodelta”, un Sagitta Special (progetto Levi, monocarena, lamellare marino) da 27’ dei cantieri Sapri (Nino Petrone) spinta da due motori diesel Perkins da (circa) 140 cv ciascuno. Primo pilota era Livio Macchia (allora direttore commerciale di Perkins Italia). Abbiamo vinto facilmente nella nostra categoria (OP 2, diesel) alla media di 36,10 nodi che, per l’epoca, erano tanti. Non tantissimi, ma tanti sì.
Antonio Soccol del 1969 quando correva da secondo pilota offshore | “Barolodelta” (Sagitta Special dei Cantieri Sapri di Nino Petrone – Salerno) |
Nella gara successiva, a Les Embiez in Francia, stessa barca e stesso equipaggio: noie ad un iniettore, grandi perdite di tempo per sistemarlo, notevoli distrazioni create da numerose barche a vela con splendide ragazze in topless, settimi assoluti. Così, così…
L’anno successivo: stessa barca che però aveva nel frattempo cambiato nome (“Votapensieri”), motorizzazione (a scoppio) e primo pilota (Giovanni Parrilli). Noie meccaniche a gogò, mai raggiunto il traguardo finale.
Dal 1970 (metà stagione) al 1973 ho girovagato – sempre come secondo pilota – su molte barche: sui “Budda” (monocarena, compensato di legno, motori Volvo sia benzina che diesel) avendo come primo pilota Salvatore Gagliotta (tre o quattro volte), Gennaro Russo (una volta) e Giorgio Villani (una volta).
Sui “Roar” (monocarena in compensato Sympress, motori diesel Daf e Aifo) di Guido Buriassi (progetto GB Frare, costruzione Cantieri del Garda).
Nel 1972, sullo “Snoopy” dei cantieri Acquaviva (monocarena, legno, quattro fuoribordo Mercury da 110 CV ciascuno): primo pilota Giulio Torroni. Con questa barca abbiamo vinto, proprio nel ’72, il titolo europeo classe OP2.
Nel corso del 1972, alla gara di Napoli, lo “Snoopy” non poteva partecipare perché aveva un Mercury rotto e io ero disoccupato (in quanto pilota).
Giorgio Tognelli mi chiese allora se potevo fargli da secondo pilota: era in testa alla classifica del campionato italiano nella categoria C2 e gli bastava finire quella gara per vincere il titolo, ma gli mancava il suo secondo pilota tradizionale che era ammalato e inoltre non conosceva le acque del Golfo di Napoli.
La barca era un piccolo cabinato (8,50 m ft) in compensato, costruito anni prima dai cantieri Acquaviva e spinto da una coppia di Mercruiser da 140 cv. Tognelli l’aveva comprato usato a Bellaria e si chiamava “Arcidiavolo”.
Partimmo in tre: Tognelli, Giorgio Acquaviva e io. Il mare era forza olio: immobile. Ci alternammo, Giorgio e io, alla noiosa guida per un po’, finché nel lungo “rettilineo” finale che dai Galli-Punta Campanella porta a Napoli non lasciammo il timone a Giorgio Acquaviva e ci sedemmo a poppa, sopra al cofano motori, a goderci il panorama, fumare una sigaretta e chiacchierare.
Giorgio Tognelli era entrato nell’offshore per puro caso: giusto per far numero alla partenza della gara Bellaria – Opatja (e, il giorno successivo, Opatja-Bellaria) organizzata dall’amico Giulio Torroni, presidente del Circolo Motonautico Bellaria, paese dove Giorgio, sin dalla prima infanzia, passava sempre le sue vacanze e dove aveva anche acquistato casa.
Tognelli aveva vinto, nella sua categoria, con facilità quella sua prima prova offshore ma un importante impegno di lavoro (era un grande industriale nel settore dei “prefabbricati” con stabilimenti in tutto il mondo) gli impediva- in teoria- di fare, il giorno dopo, la gara di ritorno. Io avevo corso con lo “Snoopy” (varato per la prima volta, appena due ore prima del via) e avevamo avuto un sacco di problemi: senza flaps (non c’era stato il tempo per montarli), con i motori posizionati alla meglio, senza power trim e con una bussola che, a ogni onda, faceva tre giri completi di rotta… Per un po’ abbiamo fatto gara stando sulla scia di un bel cabinatino del cantiere Giorgi di Pesaro.
C’era mare molto formato, di prua (bora). I piloti dello scafo Giorgi a un certo momento ci hanno chiesto di passare davanti, a fare l’andatura ma per noi era assolutamente impossibile. Per noi era davvero inimmaginabile fare l’apripista con la barca in quelle condizioni. La consolle con tutti gli strumenti e gli acceleratori dei motori fb s’era staccata dai suoi supporti e crollata a pagliolo: io portavo la barca cercando di tenere la rotta e la scia del cabinatino, Giorgio Acquaviva dava e toglieva il gas in ginocchio cercando di valutare le onde, Torroni tirava bestemmie… Così loro hanno dato un paio di sgasate, creato il buco e se ne sono andati. E noi abbiamo subito-subito rotto un serbatoio. Torroni, quando si è visto le scarpe bagnate, stava per accendere le pompe elettriche di sentina: credeva fosse acqua, erano invece circa 300 litri di miscela e ben agitata anche…con tanti bei vapori di benzina. Per fortuna l’ho fermato in tempo. Altrimenti non sarei qui a raccontarla…bastava una scintilla per fare il botto.
Abbiamo puntato al minimo su Pola, comprato un po’ di taniche di vtr , un tubo del gas, ri-fatto il pieno (alle taniche) e finito la gara: era inevitabile, visto che a bordo avevamo tutte le coppe per la premiazione… (Torroni era anche l’organizzatore della manifestazione e gli slavi non avevano i soldi per comprarsi le coppe).
All’arrivo, dopo aver un po’ sistemato la barca (o quel che rimaneva di lei…) Giorgio Acquaviva mi dice se mi può presentare un amico-cliente, Giorgio Tognelli, che mi deve chiedere una cortesia: “Per favore, mi riporta la barca a Bellaria?” mi dice questo signore. “In gara o come turista?” rispondo.
“In gara, ma senza mai superare i 3mila rpm”, mi concede.
“E allora che gara è?”, chiedo ridendo. Nel frattempo mi accendo una sigaretta. Allora non c’erano gli accendini e si usavano i cerini. Io li accendevo sempre tenendoli a testa in giù, fra pollice e indice, appoggiandone la capocchia alla ciccia del pollice e la sfregavo poi, la capocchia, con l’unghia del medio. Così facendo la fiammella veniva automaticamente protetta dall’incavo della mano e in barca o quando c’era vento, funzionava egregiamente. Tognelli (gran fumatore anche lui) mi guarda e mi dice: “Beh, se lei sa accendere le sigarette così, può anche salire a 3500 rpm”.
“OK, affare fatto”, concludo.
Dopo due ore, Tognelli mi si riavvicina e mi dice: “Senta, io ho telefonato a mezzo mondo e sono riuscito a sistemare i miei problemi di lavoro, così la gara di ritorno me la faccio io. Grazie lo stesso”.
E io: “Ma a quanti rpm la farà?”.
Un paio di bicchieri di whisky hanno siglato l’inizio di una lunga amicizia.
Ovviamente nel ritorno Tognelli ha vinto nuovamente e, poiché l’appetito vien mangiando, aveva poi partecipato anche alle due gare successive (Roseto degli Abruzzi- Makarska e Makarska- Roseto) vincendo ancora alla grande. Così a Napoli era largamente in testa alla classifica del campionato e la gara stava rotolando serena alla sua conclusione mentre ci godevamo il sole.
E’ stato allora che Tognelli ha detto: “Vorrei partecipare alla prossima stagione con una barca più impegnativa. Cosa si può fare? Mi compro un Cigarette?”.
“Nooo…!”
“Ma a me basta una barca da 60 nodi con mare fra il 2 e il 3”, disse Giorgio.
“L’avrai” dissi io e tre settimane dopo eravamo a Cowes, a casa di Renato “Sonny” Levi: nacque così l’idea della barca a triciclo rovesciato e con elica di superficie. Un solo motore italiano da 8 litri di cilindrata e di “nominali” 500 cv ( mai dati più di 350 ma questo lo avremmo scoperto mesi dopo). Una roba così nuova che era persino difficile immaginarla: “Farà 60 nodi e terrà il mare sino a 3” disse Levi.
Quando la varammo, nella primavera successiva, nemmeno planava. Arrancava faticosa e malinconica a poco più di 10 nodi. C’erano talmente tante novità in quello scafo che il problema poteva essere ovunque, oppure poteva starci che il tutto fosse sbagliato proprio di progetto. Ma nessuno aveva voglia di mollare: non Levi che aveva promesso una barca da 60 nodi, non Tognelli che la voleva, non il cantiere che ci teneva. Non io che avevo messo in moto la trottola. Essere “who started the ball rolling” è spesso il mio destino, pare.
Gli scarponi laterali avevano una specie di gonnellina laterale che incapsulava e tratteneva l’aria creata dall’ala sino all’estrema poppa. “Forse creano turbolenza”, disse Levi e li fece tagliare. Non cambiò nulla. C’erano due flaps, uno alla fine di ciascuno scarpone laterale. Risultavano ininfluenti: la barca non cambiava minimamente assetto sotto la loro incidenza. Vennero tolti. Non cambiò niente: solo qualche chilo da portare a spasso in meno.
Levi disse: “Forse sono stato ottimista con l’elica. Proviamo a toglierle un po’ di diametro e vedere che succede”. E la tagliammo lungo i bordi esterni delle quattro pale.
Faticosamente “Arcidiavolo” planò. Ma non andava oltre i 25/30 nodi.
“Manca potenza”, sentenziò Levi e chiamò la BPM.
“Quanti cavalli dà questo motore?”
“Cinquecento, ingegnere” rispose sereno il direttore commerciale, l’amico Trento Selva, mentendo sapendo di mentire.
Levi chiese nuove eliche con passo ridotto. La barca riuscì a sfiorare i 40 nodi. Ma le eliche si piegarono: le pale si accartocciarono verso il mozzo.
Basilio, l’inventore delle “famose eliche Basilio” in persona, disse: “Impossibile, avete preso qualcosa in acqua”.
La settimana dopo ne provammo un’altra. Nuova. Durò mezzora poi si piegò anche lei.
“Secondo lei abbiamo di nuovo preso qualcosa in acqua?”
“No. Non credo. Allora c’è una sola soluzione: bisogna farla in acciaio. Ma ci vogliono un sacco di soldi e più di un mese di lavoro”, disse il titolare della SBM.
“Va bene”, disse Tognelli.
Arrivò alla vigilia della prima gara, questa costosissima elica in acciaio ricavata da un pezzo unico. Durò un’ora, poi sparò una delle sue quattro pale in cielo che sembrava un satellite lucente.
Decidemmo di partire per la gara ormai imminente con una vecchia elica che miracolosamente non si era piegata ma che non garantiva più di 38/40 nodi.
Dall’esordio (gara di Bellaria, giugno 73) sino all’ultima gara (Venezia, agosto 1977) ho vissuto tutta l’esperienza di “Arcidiavolo”.
Abbiamo faticosamente (problemi di alimentazione) finito la prima gara (terzi di classe). In un cabinato di serie (di quelli che partivano per far numero) c’era quell’anno in gara (ma non in modo ufficiale, ovviamente) anche il bambino Marco Tognelli, figlio di Giorgio. Ogni tanto lui ci superava con quel barcone mentre il nostro motore sputacchiava, tossiva, si ingolfava e poi ripartiva e noi lo superavamo di nuovo: “Forza Papà” urlava Marcolino. Ma poco dopo era nuovamente lui a superarci: “Oh, Papà”, diceva Marcolino.
La modesta prestazione finalmente terminò con un piazzamento che non ci stava affatto bene.“E’ stato un brutto allenamento”, dissi a Levi appena scesi dalla barca. Mi guardò un po’ triste. Poi, dopo quel giorno: sempre ritirati per noie meccaniche. O il motore o le eliche (che continuavano a piegarsi su se stesse come un carciofo).
La pressione era molta e ogni volta che uscivamo o in prova o in gara l’unica domanda era: “Cosa si romperà questa volta?” Spesso il collaudatore lo facevo io che avevo impegni meno pressanti di Giorgio. Una volta in prova, distratto a guardar gli strumenti, non avevo valutato una certa onda un po’ carogna e mi ero rotto un paio di costole, Giorgio Acquaviva- vedendo la barca rientrare al minimo nel porto canale di Bellaria-Igea Marina- disse: “Mo ben, questa volta non tocca a me aggiustare qualcosa. Ed è la prima volta…quasi quasi son contento!”
Anche i ragazzi del cantiere lavoravano non sereni. Anzi. Un paio di volte fecero davvero casino. Un giorno scambiarono la batteria di avviamento e ne misero a bordo una completamente esausta e non riuscimmo nemmeno a partire: era una Viareggio – Bastia – Viareggio, ricordo ed era la gara più prestigiosa in Italia. Giorgio spezzò la chiave d’avviamento dentro alla sua toppa a furia di girarla e rigirarla e, mentre la barca andava alla deriva verso certi pericolosi scogli dell’avanporto, si mise a piangere: “Non ho pianto per la morte di mio padre e devo piangere di rabbia per questa barca?” mi chiese sconsolato. Ma pochi attimi dopo era già pronto a ripartire. A riprendere la lotta contro tutte le avversità: “Credo in questo progetto e voglio portarlo a termine”, garantiva. E non mollava.
In un’altra occasione qualcuno del cantiere scambiò dei tubi di alimentazione e seminammo oltre 200 litri di benzina super lungo tutto il percorso di gara finché non ci fermammo …con i serbati a secco.
Altre volte la barca dava il meglio… finché poteva.
In un Trofeo Napoli, dopo circa 40 miglia di gara, siamo come sempre largamente in testa a tutti i nostri diretti concorrenti quando scorgiamo uno scafo della classe maggiore alla deriva con, in acqua, un corpo vicino e un uomo a bordo che, frenetico, agita la braccia. Accostiamo. E’ Riccardo Mambretti, l’uomo in acqua.
Sembra seriamente ferito. Urla: “Fatemi una puntura di novocaina”, implora. Mi butto in acqua e lo spingo sugli scivoli laterali di “Arcidiavolo”. Giorgio lo tira su. “La barca ha fatto spin out” dice urlando Mambretti mentre il suo secondo, un ragazzo di Venezia che conosco, sembra in preda ad una crisi di isteria. Due sberle e qualche parola rassicurante sistemano in fretta il problema.
Nel frattempo arrivano anche tutte le altre barche della nostra classe: Frare, Russo, Gagliotta, Grande, Pesenti e tutti gli altri. Si fermano. Tutti. Tutti meno uno. Un ragazzino che passa vicino, alza la visiera del casco, guarda e tira via.
Chiamiamo sulla lunghezza di soccorso in mare. Risponde una CP: “Arriviamo”, dicono.
Siamo dalle parti di Terracina. C’è una barca a vela vicina. Accosta. A fatica le trasbordiamo Mambretti e il suo secondo mentre si prende anche al traino lo scafo da corsa che è una barca americana: “Non hanno portanza a prua, questi cazzi di barche americane”, diagnostica fra un urlo e l’altro Mambretti. “Ma va? Ma come? Gli esperti non dicono che bisogna avere molto diedro nelle sezioni di prua?”, penso. Ma finché non c’è scappato il morto (anzi: due in un sol colpo) negli Usa questo non l’hanno capito.
Ci guardiamo attorno: siamo tutte barche della stessa classe.
“La gara inizia ora” tuona Giorgio.
“Giusto” risponde Gennaro Russo.
Ci rimettiamo i caschi e le tute ignifughe.
Dico a Gennaro: “ Dai tu il via”.
Ci allineiamo tranquilli e poi Gennaro urla “ TRE, DUE, UNO : VIA” e ripartiamo.
Giorgio si gira e mi dice: “Tieni stretto che andiamo a prendere quel bastardo di ragazzino che non s’è fermato”. E la barca inizia a volare come non mai. In un attimo tutti gli altri sono spariti a poppa.
L’acceleratore, su “Arcidiavolo”era a pedale. Giorgio ci caricò sopra tutto il suo peso e come un pazzo inseguiva solo quel puntino lontanissimo, la barca del ragazzino che non si era fermato e di cui si vedevano gli schizzi sul mare blu.
Lo raggiunse quello scafo in una decina di miglia, lo affiancò, lo guardò duro in faccia e lo superò.
Cinquecento metri dopo il nostro asse porta elica andò in frantumi. E finimmo alla deriva.
Tornammo a Napoli in macchina, con un sacchetto di olive e di caciocavallo in una mano e una bottiglia di vino nell’altra. Ma al paddock volarono i pugni: …“La mia barca non è una ambulanza”, diceva il ragazzino. “Per mare non ci sono osterie”, diceva Giorgio. E giù botte.
Solo una volta abbiamo sbagliato noi: a Imperia, alla gara di fine stagione. Abbiamo investito in pieno, a tutta velocità, un gavitello semisommerso che ha sfondato la carena dello scarpone di destra e persino la coperta: era molto buffo vedere, a ogni ondata, sbalzare verso il cielo dalla prua della barca il getto d’acqua. Sembrava un soffione dello Yellowstone. Ma i tre scafi di “Arcidiavolo” non erano comunicanti e ci fu tutto il tempo per arrivare in porto e alare lo scafo che sul fondo aveva una falla di dimensioni impressionanti. Mai si era vista una barca con un buco così in carena, galleggiare tranquillamente.
Nel 1975 quel primo “Arcidiavolo” fu sostituito dal secondo (sempre costruzione Acquaviva), più lungo di 50 cm ma anche più leggero (una tonnellata in meno: da 3,5 a 2,5 netti), più compatto e con profilo più basso di 30 cm e, infine, più aerodinamico: i posti di guida sempre rigorosamente in tandem. Il motore era stato spostato all’estrema poppa. Ma questo non gli consentì di funzionare più seriamente: tredici ritiri consecutivi! E quando non era il motore erano ancora le eliche a creare problemi, ma una volta, durante una Viareggio Bastia Viareggio, si ruppe persino la grossa barra d’acciaio che reggeva la pala del timone. E la barca , sotto la coppia dell’elica, compì una giravolta di 360 gradi su stessa, facendo perno sullo specchio di poppa e sollevando una incredibile quantità d’acqua in cielo.
Acqua che ci cascò poi tutta in testa inzuppandoci sino ai piedi, mentre il sole sorrideva sornione. Tognelli mi chiese se con il piccolo remo, previsto dalle dotazioni di sicurezza, me la sentivo di tenere in rotta la barca e tutti i suoi cavalli (pochi o tanti che fossero), per le ultime 45/50 miglia…eravamo infatti fra Gorgona e Capraia. La finimmo, quella gara, al rimorchio di una motovedetta della CP.
Il tutto accadeva mentre le critiche dei famosi “esperti” erano asfissianti: “Le eliche di superficie sprecano solo energia: e, del resto, è ovvio visto che mezza pala non lavora; il vostro forchettone non andrà mai; dovete tagliere uno scafo e farne un catamarano puro, date retta a me che me ne intendo eccetera eccetera”. Una noia.
Però qualcuno ci consigliò anche di portarla, quella barca, a Sarsina, dove –sembra- tolgono il malocchio…
In prova, “Arcidiavolo” superava ormai i 60 nodi, velocità difficilmente raggiungibile persino dagli scafi che appartenevano alla categoria superiore (16 litri di cilindrata). In gara, ne aveva ogni volta una.
Nel 1976, con molto rammarico per l’armatore che gradiva avere una barca tutta italiana, si decise di cambiar motore e vennero acquistati un paio di propulsori americani dal clan di Carlo Bonomi che smobilitava. In apertura di stagione vincemmo (primi in categoria, e secondi assoluti, tiè!) la gara di Civitavecchia (Trofeo Città di Roma) e grazie a questo piazzamento fu così possibile, in base ai regolamenti dell’epoca, avere il diritto di tentare il record mondiale per la classe OP2.
In luglio ci presentammo alla Viareggio Bastia Viareggio con due barche. Ora “Arcidiavolo” aveva, infatti, un gemello, si chiamava “Shot” ed era costruito in alluminio dai cantieri Stain (Rivoltella, Torino) di Carlo Sereno: “Sarà più leggero e quindi più veloce” aveva detto il proprietario di quel cantiere.
Non risultò più leggero: stesso peso. Tognelli era molto indeciso fra quale delle due barche scegliere: non voleva scontentare l’amico Sereno ma…
Alla fine prevalse l’affetto per lo scafo in legno, il compagno di tante disavventure che però il mese prima ci aveva regalato la gioia di una vittoria.
“Shot” fu affidato alla guida di Giorgio Acquaviva e Quinto Mussoni: dopo due ore di gara perse l’asse in mare.
Quanto a noi, con il buon “Arcidiavolo”, ci pensò la centralina elettronica a farci alzare la bandiera gialla del ritiro… Che calvario!
Il record del mondo, invece, lo stabilimmo a Sarnico, il 20 agosto di quell’anno, con la media di 67,694 nodi pari a 125,447 km/h o – come dicono gli americani – a 77,94 mph.
Quello precedente, che apparteneva a Alessandro Pesenti, era di 70.25 mph (pari a 113,07 k/h).
Al momento della verifica del propulsore- dopo i lanci del record- fatta dai tecnici della Federazione, risultò che il nostro motore aveva una valvola puntata: nemmeno quel giorno avevamo avuto il piacere di disporre del massimo dell’efficienza ma 67,694 nodi non erano davvero pochi.
Comunque ben 7e rotti più di quanto non avesse chiesto Tognelli a Renato “Sonny” Levi nel loro primo incontro all’isola di Wight.
Alcuni giorni dopo, l’americano Tom Gentry avrebbe stabilito il nuovo record mondiale per la classe 1 (doppia cilindrata) con una barca nuova di zecca, lunga appena 35’ e due efb Aeromarine appositamente preparati per quella prestazione. Segnò la media di 88,7 mph, cioè appena 10,8 mph in più (16 km/h) con uno scafo di pari lunghezza ma con il doppio di potenza!
“Arcidiavolo” è stata la prima barca al mondo con elica di superficie a stabilire un record ufficiale UIM.
Poi seguirono altre gare, ovviamente con altre avarie meccaniche. L’originale SuperVulcano della BPM (che una volta messo al banco freno sviluppò appena 350 cavalli…, hai voglia a far planare quella povera barca con un’elica studiata per 500 cv) era sì stato sostituito da un Aeromarine-Kiekhaefer ma neppure questo motore, benché più potente, era esente da un sacco di problemi.
Pochi giorni dopo il record, Tognelli ebbe un piccolo insulto cardiaco. Pretese però che la barca corresse egualmente alla Cowes-Torquay che all’epoca era in assoluto l’Università dell’offshore con i suoi oltre cinquanta partecipanti.
Per la prima (e unica) volta in vita mia venni iscritto come primo pilota (e poiché la gara era all’estero, da quel giorno potrei considerarmi un vero “nazionale” di squadra sportiva italiana…capirai che emozione). Avevo come secondo il fedele Giorgio Acquaviva.
Quel giorno lottai nelle tranquille acque del Solent per un’ora testa testa con un catamarano, “Winnings Teape” si chiamava, spinto da 4 motori Mercury .
Aspettavo la Lyme Bay dove il mare è sempre incazzato per dare una lezione a quella barca, sponsorizzata -ricordo- da Rizla (le famose cartine delle sigarette dei marinai & c….): “ Te la do io la canna”, pensavo..
Ma una bronzina decise per il no. Rientrai al minimo con i miei mezzi al Royal Yacht Squadron e fu molto triste telefonare a Giorgio Tornelli, ancora convalescente, questo ennesimo ritiro.
Su mare formato “Arcidiavolo” si comportava egregiamente: assolutamente meglio di un catamarano puro e quasi alla pari con un monocarena. Su mare calmo un cat era leggermente più veloce, ma il nostro triciclo rovesciato batteva senza alcuna difficoltà qualsivoglia monocarena. Lo dimostra la stessa storia del record mondiale di classe: noi lo abbiamo tolto al monocarena di Pesenti e poi –anni dopo- ce l’ha preso un catamarano puro costruito da Renato Molinari.
“Arcidiavolo” era, 30 anni or sono, una barca di assoluta avanguardia e lo è anche oggi.
L’ultima gara è stata la più triste. Si correva a Venezia. Organizzatore era il presidente della FIM e della UIM, Francesco Cosentino, ex Segretario Generale della Camera dei Deputati, presidente dell’Alitalia e pilota offshore. Il percorso prevedeva la partenza dal Lido di Venezia, rotta a sud fino ad Albarella (delta del Po), virata di 360°, ancora il Lido di Venezia – Trieste – Venezia.
Ad Albarella siamo terzi assoluti davanti a molte barche della classe OP1 (doppio di cilindrata) e, come sempre, largamente in testa a tutti quelli della nostra classe. Nella virata stretta si sganciano i potenti elastici che tengono chiuso il cofano copri motore che vola in mare e affonda. Per regolamento non si può correre con il motore a vista… ma la barca va che è una meraviglia. Arriviamo al Lido, ci fermiamo, spieghiamo l’accaduto alla Giuria e chiediamo se ci lasciano proseguire.
Dicono di no e tranquillamente ci ritiriamo: le regole sono regole. Aliamo la barca e ci cambiamo. Andiamo all’arrivo a complimentarci con i vincitori: fra sportivi si usa. Vince proprio Cosentino: “Complimenti”. “Grazie. Ma voi, come mai vi siete ritirati? Vi avevo visto andar molto bene…”. Raccontiamo. Dice: “ Ma che ingenui! Ma non si fa così… Bastava passare lontano dalla Giuria sia al passaggio di ritorno che al momento dell’arrivo. Fare in modo che non si vedesse niente… e poi dire che il cofano era caduto in mare proprio dopo il traguardo, mentre venivate agli alaggi”.
Io e Giorgio ci siamo guardati in faccia e assieme abbiamo detto: “Io non corro più. Se il presidente dell’UIM mi invita a prendere per il culo la giuria delle gare che organizza, cosa corro a fare?”
E così è finita la storia di “Arcidiavolo”.
Quante gare? Non lo so: non c’erano i pc allora e io avevo ben poca voglia, a quell’età, di scrivere la mia biografia…
PS: Nel 1992 ho partecipato con “Exocetus volans” alla prima tappa della regata “Venezia-Montecarlo”. “Exocetus” è un motosailer disegnato da Renato “Sonny” Levi. Iscriversi ad una gara offshore con una barca a vela sembra idea folle. Ma non è detto. Specie se coltivi il sogno poi di fare, con la stessa barca, la traversata a vela dell’Atlantico….
Siamo partiti, sempre dal Lido di Venezia, alle 9 del mattino del 10 luglio su un mare incazzato e sotto pioggia battente: non si vedeva praticamente niente. Nonostante 1200 litri di nafta, indispensabili per arrivare senza stop a Pescara, la barca, sotto la spinta di due Man-Nannidiesel da 270 cv ciascuno, filava oltre 35 nodi e teneva dietro tutte le concorrenti della sua stessa classe. Per esser un motorsailer… da diporto!
All’altezza di Cervia, ho investito in pieno un tronco nascosto dalle onde: ha picchiato di brutto in carena verso poppa, stroncando e facendo cadere a mare il flap sinistro e staccando di netto dai suoi supporti uno dei due serbatoi di nafta che ha iniziato a picchiare sul fondo dello scafo.
E’ stato giocoforza ritirarsi e chiudere per sempre con l’agonismo.
Altomareblu – Tutti i diritti riservati. Note Legali
The information disseminated by Antonio Soccol throughout his life as a nautical journalist and beyond, through numerous periodicals of which he was director, was of great and precious competence. Always available. Serious and sober in everything, he was shy from useless polemics that he left to fools and is very much missing from all those who had the good fortune to meet him in person or through his countless articles written in many specific magazines of the nautical sector, newspapers, etc. We at Altomareblu together with him we lived a beautiful adventure that gave us so much happiness and his untimely death left us an insurmountable void …
Ciaoo Antonio !!
L’informazione diffusa da Antonio Soccol in tutta la sua vita di giornalista nautico e non solo, attraverso innumerevoli periodici di cui fu direttore, era di grande e preziosa competenza, sempre disponibile per tutti, serio e sobrio in tutto era schivo da inutili polemiche che lasciava agli stolti e manca tantissimo a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo di persona o attraverso i suoi innumerevoli articoli scritti su tante riviste specifiche di nautica, quotidiani ecc..
Noi di Altomareblu insieme a lui abbiamo vissuto un’avventura bellissima che ci ha dato tanta felicità e la sua prematura scomparsa ci ha lasciato un vuoto incolmabile…
Ciaoo Antonio!
What a information of un-ambiguity and preserveness of valuable know-how regarding unpredicted feelings.
Enjoy the reading!!
Giacomo Vitale
Dear reader,
unfortunately Antonio Soccol, author of these splendid articles present here on Altomareblu that you read,
left us in 2012, struck down by an incurable disease. We thank you very much for all the nice things you say
about him. He was a special and unique person in the world. You can read all the articles by him published on
Altomateblu and often already published in other nautical periodicals many years ago by going to this link:
https://www.altomareblu.com/tag/antonio-soccol/
Thanks and happy reading!
Cordial greetings,
Giacomo Vitale
It’s going to be end of mine day, however before end I am reading this great article to improve my experience.
Signor Vitale non si preoccupi; molto probabilmente la barca e l’equipaggio in questione non hanno avuto troppa importanza nel panorama sportivo italiano. D’altronde, avere notizie più dettagliate sarebbe servito soltanto a colmare una mia personalissima curiosità.
Magari tramite qualche lettore di questo forum o il naturale “passaparola”, si potrà -in futuro- ottenere qualche informazione …qualche prezioso ricordo; chissà?
Buona sera a tutti
Roberto Todini
Gentilissimo Roberto Todini,
ho spulciato tutti i resoconti delle gare dei mondiali offshore di vari anni a partire dal 1970. Purtroppo sono resoconti che parlano solo dei nomi e delle barche più famose e quando si arriva alle posizioni di rincalzo scrivono testualmente: seguono altre otto, dieci, dodici barche…
Fa rimanere male che non ci sono né gli elenchi di partenza comprendenti barche e piloti, né le classifiche stilaste con lo stesso criterio. Queste ultime sono scritte come una lettura e quindi si fa fatica a vedere le medesime classifiche e della barca Talvez e del suo equipaggio non trovo menzione da nessuna parte…
Mi dispiace non essere stato in grado di esaudire la sua richiesta..
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Buongiorno gentilissimo signor Vitale,
si tratta di un Cigarette di nome Talvez con equipaggio formato da Franco Fantauzzi, Alessandro Blasetti e Franco Statua (meccanico).
Ciò che ho potuto apprendere dalla mia intervista ad Alessandro Blasetti (credo secondo pilota) è che avevano come avversari Giulio de Angelis e Carlo Bonomi …altro non saprei dire.
Distinti saluti Roberto Todini
PS: tale intervista è servita a scrivere la biografia della dinastia Valletta/Fantauzzi (Presidente ed Ad Fiat e suo nipote Presidente SIMA e GIMAC).
Grazie
Gentile Roberto Todini,
in riferimento al suo commento ho controllato le classifiche delle gare offshore degli anni ’70,’71,’72 ecc.. ma non ho trovato la barca che lei nomina “Talvez”. Tuttavia, se mi dice i nomi dei piloti la ricerca diventa più semplice.
La ringraziamo per averci contattato.
Cordialità,
Giacomo Vitale
Buongiorno e scusate la mia intrusione.
Ho da poco scritto una biografia (già stampata e commercializzata da un editore umbro del quale non credo sia la sede giusta per fornire titolo ed edizione; non intendo pubblicizzarmi) e riguardante un noto personaggio torinese che negli anni ’70 partecipò (non so bene con quanto successo) a gare di offshore con una imbarcazione di nome “talvez”.
Sapreste dirmi qualcosa di più sull’equipaggio, le gare fatte e tutto quanto si possa sapere a riguardo? Come avrete capito, non sono un intenditore/appassionato di questa disciplina ma certi nomi letti (Bonomi, Arrow e Jovine) mi hanno fatto rivivere l’intervista che feci al figlio del mio biografato.
Cordialità,
Roberto Todini
Antonio Soccol si e’ dimenticato dei suoi avversari!! E’ una brutta cosa!! Non importa, ci siamo divertiti ugualmente.
Gentile Livio,
sono diversi giorni che non ho contatti con Antonio Soccol, ma appena lo sento certamente lo informerò dei tuoi saluti, ricordandogli del commento che gli hai inviato. Assolutamente non credo che non ti abbia risposto per qualche motivo specifico o per superbia… Credo invece che la sua assenza si dovuta ad una mancanza cronica di tempo ed ai suoi ricordi di un passato ormai lontano che gli appaiono opachi, non riuscendo a mettere a fuoco la tua persona.
Appena lo sento lo informerò del tuo commento…
Cari saluti
Giacomo Vitale
Caro signor Vitale,
solo per caso sono tornato sul sito visto che Soccol non ha ritenuto rispondere ai saluti; si vede che ritiene che non ne vale la pena e di conseguenza..
Mi farà in ogni caso piacere salutarla direttamente sulla mia e.mail
Con i migliori saluti
Livio Macchia
La barca si chiamava White Bird, ma sulle fiancate portava la dicitura Mana’s (che era lo sponsor) w avea, se ben ricordo, il numero di gara 340: Il primo anoo era marinizzata Holman Moody ( mi sembra si scriva così)m con una propulsione a idrogetto. Poi siamo passati al gruppo poppiero con i motori che ci ha venduto Succi, meccanico di Bonomi. Dovremmo aver vinto anche il Campionato Italiano 1976 o 1977 in OP2.
Gianni Lanzani
Gentile Gianni Lanzana,
nel ringraziarla per averci contattato, La informo che il nostro direttore Antonio Soccol, a cui Lei si rivolge, è fuori sede per diversi giorni e non facilmente raggiungibile. Provvederemo appena saremo in contatto con lui ad avvisarlo circa il suo messaggio.
Le chiedo solo per maggiore semplicità di individuzione della Sua persona, visti i tanti anni trascorsi dal periodo a cui si riferisce, qual’era il nome della barca che come secondo pilota conduceva insieme al dott. Zenoni, perché da quello che riferisce non è ben conprensibile. Mi scusi se mi sono permesso di porgerle questa domanda, ma è solo per semplificare il ricordo e l’individuazione certa della persona.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Ciao Antonio,
sono Gianni Lanzani, il secondo del dott. Zanoni, corravamo in OP2 con un monocarena marinizzato Aeromarine.
Ti ricordi di noi e delle belle avventure? Mi piacerebbe sentirti… anche io ne ho tante da raccontare, come un incidente a Santa Margherita Ligure, costatami la frattura del femore.
Ciao a ben sentirti.
Gianni Lanzani
Caro Marcello,
gli anni di cui parlo e, spesso, scrivo erano proprio quegli degli albori delle gare offshore. Inizialmente, pensa, ogni organizzatore si faceva il regolamento di gara che più gli garbava. C’era chi creava classi diverse in funzione della lunghezza degli scafi, chi in funzione della cilindrata dei motori, chi pretendeva solo barche di serie con cabina, bagno, letti, tavolo da pranzo e cucina funzionante e chi invece annullava (a gara finita) il risultato perché i motori del vincitore costavano troppo…(in effetti, nel caso specifico si trattava di due gas turbine da elicottero… che, da sole, costavano quasi più dell’intera flotta di scafi da corsa impegnati in quella gara!) e c’era chi discuteva il risultato perché il pilota che aveva preceduto al traguardo era stato, sorprendentemente, dichiarato vincitore anche se aveva usato benzina “avio” mentre la barca avrebbe dovuto esser assolutamente di serie (la benzina “avio” si vendeva solo negli aeroporti e quindi per fare il pieno bisognava andare con la barca su un camion sino a quelle specialissime pompe!).
Su una cosa però tutti erano d’accordo, negli Usa come in Italia, in Francia, in Svezia o in Gran Bretagna. Sul fatto che l’unica persona che contava a bordo era il primo pilota. Il resto era “carne da cannone” e non aveva diritto neppure al nome. Perché? Beh, prima di tutto quelli erano tempi in cui non esistevano gli sponsor e quindi il “primo pilota” era, al solito, quello che pagava… i conti: andava perciò gratificato. E poi perché, agli inizi, gli equipaggi non erano composti da professionisti ma semplicemente da amici disponibili a prendere un po’ di pacche e botte sulle onde…(tieni conto che le velocità iniziali nell’offshore erano abbastanza modeste) in cambio di una piccola avventura da raccontare ai nipotini.
Peraltro era altresì, sempre e ovunque, obbligatorio che, in gara, almeno due persone per barca avessero la licenza di pilota… Insomma i piloti erano due, ma contava solo uno. E per questo non è sempre facile citarli: nessuna classifica riporta i loro nomi e, men che meno, lo fanno le cronache dell’epoca, quindi io cito solo quelli che ho conosciuto personalmente.
Va ricordato, infine, che la larga maggioranza delle avarie di quei tempi erano “letali”: non c’era meccanico al mondo che, in gara, potesse ricacciare dentro al monoblocco pistoni e bronzine che si erano frantumati in sentina oppure che potesse riparare, là in mezzo al mare, un piede poppiero disintegrato o un’elica (di una trasmissione tradizionale, immersa) che aveva “sparato” via una pala. Quindi un meccanico o un amico…erano la stessa (inutile) cosa.
Solo nel 1964, su iniziativa del giornalista americano John Crouse, si incominciò a dare un po’ di ordine a questo tipo di gare e a creare una sorta di campionato del mondo: il Sam Griffith Trophy.
Il primo a vincerlo fu Jim Wynne poi, nel 1965, Dick Bertram, e l’anno successivo, quando finalmente l’U.I.M. (Union International Motonautique) si decise a riconoscere sia questo sport che i titoli (nazionali, europei e mondiali), ancora Jim Wynne. Per questo, se tu prendi l’unico libro italiano che parla di quegli anni, “L’avventura dell’offshore” a cura di Claudio Nobis, Mursia editore, le classifiche partono solo dal 1966. E, ovviamente, sono citati esclusivamente i nomi dei primi piloti.
Con quel cercare di mettere un po’ di ordine (in principio non troppo, ma insomma…) è iniziata l’era dei “secondi” intesi come professionisti (soprattutto meccanici): in Italia Salvatore Gagliotta e Gennaro Russo correvano con Giorgio Villani (meccanico Volvo Penta), GB Frare con Pietro Ciceri (meccanico ufficiale dell’Aifo), Paolo Siviero con Pierino Gargana (un mito ad Anzio), gli inglesi fratelli Gardner disponevano dell’ottimo Ivan Valendar , Don Aronow faceva coppia “quasi” fissa con Norris “Knocky” House, Vincenzo Balestrieri con Don Pruett, Carlo Campanini Bonomi con Richie Powers. E così via. Erano tutti elementi che “vivevano” la barca da quando nasceva (erano loro, infatti, che installavano motori, trasmissioni, comandi eccetera) sino al momento della gara e ne conoscevano tutti i segreti così, se qualche dettaglio non andava, spesso riuscivano a rimediare. (Per esempio, l’arrivo dei gruppi entrofuoribordo permetteva eventualmente di cambiare in gara un’elica rotta). Erano “quasi sempre” personaggi preziosi, tenaci, coraggiosi, forti e talvolta spregiudicati. Ti racconto alcuni interessanti episodi.
Nella Cowes-Torquay del 1965, alla sua gara di esordio, il nuovissimo “Surfury” dei fratelli Gardner era in testa assieme al “Brave Moppie” dell’americano Dick Bertram, quando uno dei due motori Daytona dello scafo inglese decise di fare i capricci. Una prima ispezione da parte di Valendar non permise di identificare il problema e così i Gardner invertirono la rotta, per ritirarsi e rientrare lemme lemme con la spinta di un solo motore, a Cowes. Ma la tenacia del meccanico, dopo oltre venti minuti di lavoro, risolse il problema e lo scafo rientrò in gara, riprendendo la marcia iniziale verso Torquay dove arrivò terzo assoluto ad una manciata di minuti dal vincitore. E, dato che c’era, il giorno dopo vinse la gara di ritorno, la Torquay-Cowes.
L’anno successivo e nella stessa gara inglese, “Ghost Rider” di Jim Wynne è già in testa ma nella Lyme Bay (il pezzo più duro del percorso) la barca prende dal mare una sberla spaventosa: Bob Sherbert, il “secondo” di Wynne si rompe entrambe le gambe e un po’ di costole. Jim lo sistema dentro la piccola cabina della barca, lo lega per bene e poi, istigato dallo stesso Bob, riprende la gara e vince. Al traguardo, prima di sbarcare trionfante, Jim si carica sulle spalle il povero Bob e lo consegna ai medici! Wynne, peraltro, non era nuovo a episodi del genere: nella Sam Griffith Memorial Race dell’anno prima, era arrivato al traguardo (primo ma poi squalificato per uso irregolare di gas turbine) avendo a bordo del suo “Maritime”, Walt Walters (il progettista dello scafo) del tutto svenuto…
Don Pruett, per anni “secondo” di Vincenzo Balestrieri, era un pellerossa di forza mostruosa. Di lui si diceva per scherzo che svitasse i bulloni dei “prigionieri” incollati con l’attak, semplicemente con lo sguardo. Alto un metro e novantacinque, si distingueva dal pilota italiano che a fatica superava quota “unmetroemezzo” così, in molte fotografie di quegli anni, non vi sono dubbi su chi sta guidando la barca e chi fa il passeggero “pagante”.
Ma il personaggio più bizzarro è stato certamente Richie Powers… un ragazzo che sognava di diventare il quarto “grande pilota” (gli altri tre erano Odell Lewis, Mel Riggs e Bill Sirois) nella scuderia personale di Carl Kiekhaefer, il dispotico proprietario prima della Mercury e poi della Aeromarine, produttrice dei potenti gruppi entrofuoribordo Mercruiser. Dopo alcuni anni di apprendistato, Richie iniziò la sua carriera nell’offshore come “terzo” a bordo dello scafo “Aeromarine I°” con Bob Magoon e Gene Lanham. Alcuni mesi dopo, il “bravo ragazzo” fece una notte brava assieme ad un collega: “Bevi una birra, prendine un’altra, diamoci dentro, dai: divertiamoci…”. Morale: scontro frontale fra la sua Corvette e un’auto che rientrava da un matrimonio con sei persone a bordo. Su otto “incidentati”, sopravvissero solo in quattro.
Carl Kiekhaefer pensava che Richie Powers fosse un bravo meccanico e anche un buon manico e gli era simpatico. Così fece la cosa che gli sembrò più elementare: lo consigliò come “secondo” a Carlo Campanini Bonomi che comprava i suoi motori e che voleva vincere il titolo mondiale offshore. In questo modo Richie sarebbe venuto a vivere in Italia e nel frattempo le faccende penali in Usa si sarebbero decantate. E, infatti, così avvenne.
In quegli anni “italiani”, Richie Powers fece miracoli e anche di più per far vincere Bonomi. Non tanto per gratitudine nei confronti del pilota italiano (del tutto ignaro dei suoi antefatti “automobilistici”) quanto piuttosto per riconoscenza a Kiekhaefer: “Se non vinciamo, Carl mi sbrana”, diceva e cambiava a tempo di record, in mezzo al mare, eliche rotte, aggiustava tutto l’aggiustabile… E Bonomi vinse il titolo mondiale nel 1973 e nel ’74, arrivando secondo nel 1972 e nel 1975. A quel punto, sazio di successi, il pilota italiano si ritirò e il povero Richie Powers rimase disoccupato. In Italia. Ma rapidamente Kiekhaefer lo piazzò come “secondo” alla corte dell’astro nascente Tom Gentry… uno delle Hawaii… che quell’anno, grazie a Richie, vinse ben sei gare fra Brasile, Argentina, Usa, Svezia e Italia… Da Gentry, Powers passò al team di Rocky Aoki con il quale vinse una mezza dozzina di gare. Sino al John Wayne Memorial del 25 agosto 1979. Poi, il nostro “secondo” si mise in proprio a vender e collaudare barche e motori. Roba molto, molto veloce, naturalmente. E ideale per certi “commerci”…
Passarono un paio d’anni e il 4 settembre 1981, il New York Times titolò: “Venti tonnellate di marijuana e 33 catturati a Long Island”. Nell’elenco dei contrabbandieri presi, figuravano molti narcotrafficanti colombiani, uno dei maggiori clienti di Kiekhaefer (Giuseppe Ippolito jr. che correva in offshore con lo scafo “Michelob Light”) e il nostro Richie Powers. Ippolito si beccò otto anni di galera e Powers, accusato di essere semplicemente un “pilota ingenuo”, ne dovette scontare solo uno. La cosa più straordinaria però è che, alla fine di quei dodici mesi passati in una prigione di New York, Richie scrisse a Carl Kiekhaefer dicendogli che in quel periodo si era reso conto di aver commesso nella sua vita molti errori, che voleva farsi un avvenire nuovo e che quindi si proponeva come Presidente (sic!) della Kiekhaefer Aeromarine Motors…! Pur essendogli Richie Powers molto simpatico, Kiekhaefer ritenne di non dovergli neppure rispondere.
Tredici anni dopo, nel 1994, durante il mondiale di Key West, Richie Powers era alle manette del gas dello scafo di Tom Gentry, un catamarano da 40’ di nome “Skater”. In un incrocio con un altro concorrente, la barca è volata, si è capovolta e l’equipaggio è rimasto intrappolato sotto: spinti verso l’alto dai salvagenti, i piloti erano impossibilitati ad uscire da quella prigione subacquea. Richie Powers si è salvato grazie alla presenza, vicino al suo posto guida, di un erogatore da sub collegato con una bombola di aria compressa. Tom Gentry, invece, dopo 4 anni di coma irreversibile, è morto il 17 gennaio 1998. Dopo questa ennesima, tragica disavventura Richie non ha più corso. Di sicuro è stato il “secondo” più imbarazzante di tutta la storia dell’offshore dei miei tempi anche se complessivamente ha vinto (fatto vincere) ben sette titoli mondiali.
Il “secondo” più fortunato (si fa per dire) è stato di certo l’australiano Don Wright che, il 26 marzo 1972, era al centro fra i due fratelli Paul e Var Carr sul Cigarette 32’ durante la gara “Schweppes offshore 80” di Sidney. Con forte mare (oceano) di poppa la barca fece spin-out e entrambi i piloti morirono sul colpo mentre il meccanico se la cavò con alcune pesanti contusioni grazie al fatto di essere l’unico ad indossare un giubbotto salvagente che, bloccato con le cinghie sotto al cavallo, non si è spostato nell’urto e gli ha smorzato il tremendo impatto.
Il più anomalo dei “secondi” in Italia è stato Attilio Petroni. Primo pilota agli inizi dell’offshore con vittorie e ottimi piazzamenti personali alla Viareggio-Bastia-Viareggio, a Cowes eccetera, ad un certo momento ha accettato di fare da “chioccia” a giovani esordienti che non avevano la sua esperienza. E’ stato al fianco prima di Ronny Bonelli e poi di Carlo Bonomi. Bonelli deve, senza dubbio alcuno, proprio a lui la sua vittoria nella Cowes-Torquay del 1971 dove arrivò stremato dalla fatica e senza la possibilità fisica di “portare” la barca che veniva, infatti, pilotata dal suo “secondo”.
Attilio Petroni è morto, nel 1999, a Viareggio all’età di 89 anni ma è stato un personaggio di notevole importanza in tutti quegli anni storici anche per aver stimolato le costruzioni di scafi in alluminio e lo sviluppo dei catamarani d’alto mare.
Sono stato un “secondo” anch’io e, probabilmente ho persino un piccolo record in materia: fra il 1969 (anno della mia prima gara) e il 1972, quindi in sole 4 stagioni agonistiche (e in un periodo in cui di gare non è che ce ne fosse una alla settimana) sono stato, felicemente vagabondo, al fianco di ben dieci “primi piloti”. In rigoroso ordine alfabetico sono stati: Guido Buriassi, G.B. Frare, Salvatore Gagliotta, Livio Macchia, Giovanni Parrilli, Gennaro Russo, Giorgio Tognelli, Giulio Torroni, Giorgio Villani e Giorgio Vio. Dal 1973 al 1979, ho invece vinto il premio fedeltà stando “sempre” assieme all’indimenticabile Giorgio Tognelli. (Quando ho corso come “primo” alla Cowes-Torquay, il mio “secondo” era Giorgio Acquaviva. E, alla Venezia- Montecarlo del 1992, per parteciparvi con il motorsailer “Exocetus Volans”, il mio “secondo” è stato addirittura Alfredo Micheletti che era stato primo pilota di “Ulixes”, la prima barca da corsa con idrogetti e di “Dart”, la prima e unica barca che doveva sfondare le onde invece che cavalcarle).
L’episodio più inconsueto della mia carriera? Quando, sotto al gru di un noto circolo nautico, stavo aspettando che varassero “Arcidiavolo” per delle prove. Sono stato avvicinato da qualcuno che mi ha proposto lo stesso “lavoro” per il quale Richie Powers è finito in galera…Uniche (importanti) differenze: 1) si trattava di trasportare “bionde” (così si chiamavano le sigarette nel gergo di quegli operatori) e non “maria”; 2) che, nonostante l’ingaggio offerto fosse estremamente allettante (in una sola notte avrei guadagnato quanto prendevo, in busta paga, alla fine di un mese di lavoro in redazione…), io ho detto di no. Se mi avessero preso e messo in gattabuia, infatti, mica avrei potuto scrivere all’avvocato Gianni Agnelli, proponendomi come Presidente della Fiat, no?
Ciao,
Antonio Soccol
Caro Soccol,
nei tuoi articoli storici, talvolta citi i nomi del secondo pilota degli scafi che correvano in offshore. Altre volte no. Perché? E che importanza avevano questi “numeri due”?
Grazie e cari saluti,
Marcello Jovine
Gentile Livio Macchia,
Antonio Soccol é all’estero e Le rispondo in sua assenza.
Nino Petrone sta bene e vive in quel di Salerno che é sempre una bella città di mare.
Certo sarebbe bello se potesse darci quei dvd, lieti di metterli on line.. sarebbe un bel contributo audiovisivo per la storia della motonautica offshore di quei magici ed irripetibili anni.
Le saremo veramente grati e con noi tutti gli appassionati delle vere barche… che ci seguono con grande passione, dalle varie parti d’Italia e del mondo. Ovviamente, una volta on line i filmati, ne citeremo la fonte. Conto sulla Sua disponibilità e soprattutto sulla sua passione di marinaio e resto in attesa di un Suo riscontro.
Appena Antonio rietrerà in Italia, riferirò di questo commento.
Grazie per la Sua collaborazione e per averci scritto.
Giacomo Vitale
Caro Antonio,
ho appena riguardato un paio di gare sul “Sagitta” (a proposito non ho più notizie di Nino Petrone) trasferite dal super8 in dvd; eri decisamento più bello senza barba!
Ad majora!!
Caro Riccardo Mambretti,
ti ricordi di me?
Sono passati tanti anni, Cortina, Bernate Rosales, Fenegrò.
Mi ricordo molto bene anche di Paolo che purtroppo mi hanno detto, già anni fa, essere scomparso.
Stai bene? Fatti sentire, magari via e-mail.
Ciao
Nico
P.S.: Gennari’, se osi ancora una volta chiamarmi “professore” ti mando dove puoi immaginare…
OK?
Ciao,
Antonio
Caro Gennaro,
grazie per il tuo emozionante contributo e soprattutto per il tuo splendido entusiasmo.
Giorgio Villani è il fratello di Marisa Villani in Gagliotta, moglie del progettista e costruttore Salvatore e prima donna a comporre, con Lucy Pittan, un equipaggio offshore interamente femminile in Italia. Giorgio ha lavorato per molti anni con Salvatore ed era il “secondo” pilota dei vari “Budda” portati in gara da Gennaro Russo. Con lui, oltre alla “strana” Viareggio-Bastia-Viareggio di cui ho parlato in questo articolo, ho partecipato come “secondo” ad un Trofeo Napoli dei primi anni Settanta.
Abbiamo usato, naturalmente, uno scafo Gagliotta spinto da una coppia di piccoli diesel Volvo Penta. Ricordo che aveva i posti di guida in tandem e che, per lunghi tratti di gara, abbiamo avuto un bel mare formato di poppa: la barca volava (nonostante la modesta potenza dei motori) da onda a onda. Ad un certo momento mi sono chiesto: “Ma quanto tempo stiamo in volo?” cioè con le eliche impegnate a tagliare a fettine l’aria invece che l’acqua e, così, mi sono messo a contare i secondi che passavano dal momento del decollo a quello dell’ammaraggio: il record è stato di un “salto” fatto dalle parti di Ischia che è durato 15 secondi. Sembrano pochi ma, ti assicuro, non lo sono affatto. D’abitudine, quei salti che si fanno con mare di poppa durano non più di 6,7 secondi… Però eravamo in gara…
Se vedi Giorgio Villani salutamelo e chiedigli se ricorda ancora quel piatto di spaghetti “pummarola ‘n coppa” che gli ho preparato a Milano, nella -allora- mia casa di via Chiosetto. In quella occasione dimostrò grande entusiasmo, oltre che considerevole appetito!
Goditi il tuo “Gagliotta sg”. Hai fatto benissimo a restaurarlo: è una gran barca, ideata, studiata e costruita da un formidabile uomo di mare e da una persona assolutamente eccezionale e unica. Un “vero” grande nella storia della nautica italiana. E sii cosciente di possedere uno scafo assolutamente invidiabile.
Un cordiale saluto,
Antonio Soccol
Caro professor Soccol,
sono un ragazzo di Napoli appassionato di nautica e di grandi uomini come voi.. Avendo l’opportunità di comprarmi una barca, tra tutte le nuove ho scelto un vecchio (ma stupendo) Gagliotta Camaro sg..
Ho avuto la fortuna di conoscere un certo signor Giorgio Villani (che quando ha letto il vostro articolo aveva gli occhi pieni di lacrime e di ricordi unici), impiegandoci quasi 2 anni x ristrutturarlo con tanta passione e voglia di far rinascere quel magnifico mezzo tutto ex novo, finito il mio sogno quando l’ho ammirato la prima volta finito ho pensato” Che barca!! La più bella che potessi desiderare.. ho avuto tanti complimenti anche tante critiche e mi hanno dato del pazzo x tutto quello che ho speso, ma il mio amato Gagliotta sg mi ha tolto soddisfazioni uniche con miei amici e persone con imbarcazioni lussuose attraversando mari molto mossi e riportandomi sempre a casa con tanta sicurezza..
Ringrazio tutti voi che con la vostra grande passione avete fatto grandi barche e a un certo sig. Salvatore Gagliotta x aver creato una carena unica e Giorgio che è riuscito a ricostruirmi una barca unica e farmela apprezzere in tutti i modi..
La saluto e grazie x aver scritto un bellissimo articolo, permettendo di farmi conoscere una parte di storia nautica di quegli anni.
Caro Roberto,
grazie per il tuo entusiasmo e per la fedeltà che prometti. Cercheremo di essere sempre alla altezza delle tue curiosità e dei tuoi interessi.
Tu, però, fammi una cortesia personale: non chiamarmi (e, soprattutto, non considerarmi) un “Professore”. Sono solo un cronista che ha avuto la fortuna di vivere anni stupendi con uomini eccezionali. E’ mio dovere cercare di raccontarli in modo da renderne partecipi tutti coloro che non hanno avuto egual fortuna.
Un cordiale saluto,
Antonio
@Roberto,
grazie dei complimenti, fa sempre piacere avere dei riconoscimenti quando realtà come quella che hai visionato è frutto di un lavoro fatto di persone come Renato “Sonny” Levi, Antonio Soccol, Giacomo Vitale e Tito Mancini; io sono solo un tecnico che rende possibile questa fantastica storia di uomini e di mare.
Buone letture… hai ancora tanto da leggere!!!
Alex
Uuuuaaaaauuuuuuuu!!! Ho avuto la fortuna di scoprire questo MAGNIFICO BLOG ed ora penso che non lo mollerò mai più di vista.
Grazie a tutti quelli che hanno contribuito a scrivere la storia contenuta in queste pagine, ma sopratutto a Lei Professor Soccol. Spero che un giorno riuscirò ad incontrarLa di persona!
Saluti Roberto Morelli
Certo! Ma, per favore, dammi del “Voi” così mi sento davvero un vecchietto….
So che, fra l’altro, sei anche un collega giornalista, dunque….diamoci del tu e considerami a tua disposizione per tutto quello che posso fare o ricordare.
Un caro saluto,
antonio
Ottima ricostruzione di quegli che ho vissuto begli occhi di miei molti compaesani di Bellaria.
Beh ora l’equipaggio affiliato al circolo nautico bellariese guidato da una sua conoscenza – Torroni Giulio – è campione del Mondo classe B Endurance….
Abbiamo in moto un importante progetto per rilanciare gli anni ruggenti, possiamo contare su di lei e la sua esperienza?
Grazie Cristian
Ciao Antonio!
Solo per caso mi sono trovato a leggerti ancora, e con piacere; un piccolo bagno di giovinezza rintracciando nella mente te, Levi, Harrauer, Buriassi i cantieri di Sapri, Frare e tutta quella ingenua piccola banda di ragazzi senza soldi e con tanto entusiasmo, quello che poi ha finito con il far divenire la nautica Italiana un’indistria trainante.
Pensa quante cose avremmo da ricordare insieme! Belle ed anche brutte.
Un caro saluto Livio
“Marcolino”,
c’è una giustizia, allora! Gli anni non passano, dunque, solo per me :-) se anche tu hai i capelli bianchi.
Grazie? Scherzi?
L’unico cui devi dire grazie è Giorgio, tuo padre. Ha fatto tutto lui. Io sono solo un modesto cronista di quei bellissimi anni che ho vissuto assieme a lui e a “Arcidiavolo”.
Cerco di raccontare, per chi non c’era o per chi era troppo giovane per rammentare ogni dettaglio, una esperienza esaltante, unica e straordinaria: una incredibile vittoria contro l’ottusità.
Un abbraccio.
Antonio
Caro Antonio,
il”marcolino” che urlava “dai papà”, ora, come sai, ha i capelli bianchi.
Sei riuscito a commuovermi.
Con un velo di malinconia e con un grandissimo abbraccio ….. GRAZIE Antonio.
Nessun altra parola … GRAZIE
Non un giornalista qualunque…
Pilota e attento “utilizzatore” di imbarcazioni di un certo rilievo, amico di una fonte ineusauibile di progetti veramente interessanti, in poche parole: Antonio Soccol!
Oggi è una giornata strana, su Rai3 ho appena finito di vedere lo speciale del “Salone Internazionale della Nautica” di Genova e devo dire che… è una tristezza, come scritto in altri articoli di Antonio, tutte “case galleggianti” e “plasticoni” di lusso che poco hanno a che vedere con l’andare per mare.
Bello sapere che la cantieristica italiana vive una ripresa e che è una fonte per nuovi posti di lavoro ma mi chiedo se e quando ci si renderà conto della ricerca e dei materiali che si vanno a lavorare per costruire questi “eco-mostri“. L’impiego di resine sintetiche, collanti e poliesteri per alleggerire le stravaganti forme di questi mega-yacht che sempre meno assomigliano a belle barche e sempre più, sfociano nel lusso estremo e non giustificato se paragonato alla funzionalità di una barca, mantenere il mare ed essere sicuri in caso di imprevisti ecc…
Questa estate, nel golfo antistante a Castellabbate (Sa), con mare formato, la scena più divertente era vedere la “calca” all’ingresso del porto di tutti questi pseudo imbarcazioni, per chi malauguratamente ritardava o cercava di affrontare il mare, un vera e propria battaglia per rientrare. Avrei voluto vedere una barca tipo la Speranza, una Speranzella, un Drago in quelle conizioni, di certo uno spettacolo, non sono stato così fortunato ma ho sognato grazie a quanto letto su questo blog e agli scritti di Antonio e l’appassionatissimo Giacomo.
Gli interni di queste barche moderne; più volte ho provato a vederne dei lati positivi, immaginare di possederne una, all’apparenza il legno è ancora presente ma è l’interno di pannelli porta, tavoli e antine curve e l’utilizzo di materiali leggeri che ormai sono sempre più utilizzati per dare forme geometriche per esigenze di design che mi preoccupano. Il lusso di comperare una quantità di materiali sintetici assemblati assieme con una chimica sempre più vicina alla resa produttiva e meno per la salute, queste “mega case galleggianti” puzzano di chimico “plastica” e non è più quel romantico profumo di legno che si avvertiva un tempo.
Questo per dire che, non capisco ma ammiro quanti, è il caso di Antonio, che è tra quei pochi giornalisti esperti del settore nautico, ricordano o esprimono il loro imbarazzo avanti a imbarcazioni simili a quelle proposte al salone di Genova.
Era anche molto tempo che non compravo riviste specializzate del mondo nautico, in occasione del salone mi sono permesso di acquistarne alcune; un vero è proprio catalogo pubblicitario e null’altro di più! Poco o microscopico l’interesse suscitato se non l’effetto certo che, non comprerò mai più una rivista nautica, con la pubblicità che ho subito “pagandola“, non comprerò mai una barca che non sia un usato Levi con la consulenza di Giacomo e/o esperti di questo blog che, come me, amano il mare e le barche di una certa rilevanza costruttiva e progettistica.
Forza Antonio e in bocca al lupo al blog! Complimenti!
Alex
Caro Vincenzo,
non tutti i “secondi pilota” sono giornalisti… E poi quelli erano anni in cui contava solo il primo pilota: gli altri, pur essendo richiesti e imposti dal regolamento nazionale e internazionale, erano “carne da cannone”… degli assoluti sconosciuti senza diritto di nome e cognome: stranezze di chi fa(ceva) le leggi.
Grazie per i complimenti: io ho solo cercato di fare una rapida sintesi di nove anni di attività e della mia grande curiosità…per ogni genere di innovazione in campo nautico.
Quanto alle velocità che tu citi… Certo, ma le potenze oggi a disposizione sono mostruosamente aumentate rispetto alle “nostre” e i percorsi, non solo sono sottocosta, ma anche molto molto più brevi e quindi le autonomie (leggi: i serbatoi) sono state drasticamente ridotte: insomma c’è molto meno peso da portare a spasso. E, come tu sai, la velocità ha molto a che fare con il peso del vettore, quale che sia: barca, auto, aereo eccetera (pensa a quanto incidono pochi litri di benzina in un automobile di F1… impegnata per una pool position).
L’offshore è morto quando hanno deciso di farlo correre in-shore per esigenze televisive (sponsor, elicotteri eccetera). Ha così perso il fascino delle grandi traversate, del mare aperto, del sogno di Ulisse…
I cantieri, dal canto loro, si sono dedicati più all’interior design che non alla progettazione di carene e trasmissioni e quindi tutto quel mondo ha perso valenza: oggi pochi (quasi nessuno) fa “ricerca” ma sono tutti contenti egualmente. Contenti loro (costruttori e clienti), contenti tutti…no? Come sappiamo: “il riso abbonda sulle facce degli stolti”.
Nel 1992, io mi ero già allontanato dal mondo dell’offshore e non ho avuto modo di conoscere e vedere la barca di Carlo Popoli. Ovviamente mi interesserebbe sapere come andava e che risultati ha avuto e magari vedere qualche foto.
Infine il “secondo” di Riccardo Mambretti: non sono sicuro al 100% ma mi pare di ricordare che si chiamasse (di cognome) Caprara… Aveva lavorato in un cantiere di Venezia, città dove io sono nato e l’avevo visto un po’ in giro nel “circo” dell’offshore. Sai, son passati più di 30anni e la mia memoria non è proprio al top.
Scusa l’imprecisione.
Un caro saluto,
Antonio
“La barca ha fatto spin out” dice urlando Mambretti mentre il suo secondo, un ragazzo di Venezia che conosco, sembra in preda ad una crisi di isteria.
Due sberle e qualche parola rassicurante sistemano in fretta il problema.
IL RAGAZZO DI VENEZIA ERA… C.M.?
Complimenti …
Se tutti i secondi piloti relazionerebbero le gare effettuate… allora la motonautica agonistica -offshore- avrebbe tanto materiale ed esperienze da trasferire su i nuovi “assi” della classe 3 che si credono chissachè purtroppo oggigiorno l’offshore non fa piu’ notizia.
Nella classe 3/2lt oggi toccano e superano i 150 km/h e devono ringraziare i loro antenati sportivi.
A titolo di cronaca, un trimarano costruito da Carlo Popoli nel 1992 c.a. per la classe 3/2lt. aveva più o meno le stesse caratteristiche dell’Arcidiavolo.
Ora questa barca dovrebbe far mostra al neo museo della motonautica a Cremona .
Dovrei avere qualche foto se ti interessa.
Ciao e ancora complimenti… ho letto con interesse e piacere le tue vicissitudini sportive.
Vincenzo Cicogna