I commandos del “SILENZIO” di Franco Harrauer
AltoMareBlu ha pubblicato diversi articoli su ricostruzioni storiche di eventi di guerra assolutamente attendibili scritti dal Comandante Lino Mancini e che parlavano dei Mas della Marina Militare usati durante la seconda guerra mondiale di cui potete leggere ai seguenti link:
Nel rimettere in ordine i nostri archivi cartacei abbiamo ritrovato diversi articoli che ci aveva dato il compianto architetto Franco Harrauer, dicendoci che potevamo pubblicarli in qualsiasi momento… Poi, tra tanto materiale storico di cui siamo in possesso, questo articolo si è mimetizzato tra altri faldoni ed ecco che stamattina, mentre ero in cerca di documentazione tecnica, inaspettatamente ho ritrovato questo documento.
Fu pubblicato nel 1972 sul numero di ottobre di “Mondo Sommerso” e dopo averlo letto tutto di seguito ho pensato che l’occasione era ghiotta per riproporlo, visto che ha stretti legami con gli articoli “storici” del comandante Lino Mancini di cui i link sopra indicati e certo di fargli cosa graditissima, visto che sono stato da tramite per fargli conoscere l’Architetto Franco Harrauer con il quale ha potuto scambiare tanti pareri tecnici delle sue ricerche storiche di mezzi come i barchini esplosivi ed operazioni di assalto come Malta 2 ecc… Giacomo Vitale
HANNO IMPARATO IN ITALIA GLI INCURSORI DI ISRAELE
Il conflitto Arabo-Israeliano, che di fatto dura ininterrottamente da quasi trenta anni con alterne fasi nelle quali la tensione assume ora il carattere di guerra classica, ora quello di una serie di colpi di mano in un falso clima di armistizio, sta dimostrando che in una epoca nella quale la tecnologia domina assoluta, l’elemento umano è ancora insostituibile.
Si pensava che l’uomo combattente fosse scomparso con l’avvento delle armi da fuoco che introducevano il concetto dell’offesa a distanza, ma anche nell’ultima guerra fu l’uomo come individuo il protagonista di azioni dirette. Il kamikaze giapponese, il commando britannico o il sommozzatore italiano, sono dei soldati in senso «assoluto» e non fa nessuna differenza se il loro «cavallo» è un aereo, un paracadute o un siluro; sono gli «uomini» che con le loro mani e la loro intelligenza, portano l’arma contro il nemico.
La Marina Israeliana, una delle più giovani del Mediterraneo, era un po’ una cenerentola rispetto all’aviazione e all’esercito fino a quando, dopo la guerra dei sei giorni, le frontiere marittime di Israele non si erano estese dalle cento miglia originarie di costa Mediterranea, alle 550 miglia delle coste del Sinai e del Golfo di Akaba. I suoi compiti erano limitati al pattugliamento difensivo del litorale tra Haifa e Gaza.
Nel quadro di questa situazione la Marina di Israele, che ebbe origine dall’organizzazione paramilitare Haganà, sviluppò una tattica opposta ad una logica strategia difensiva e sin dal principio le sue azioni furono caratterizzate da una aggressività che non ha paralleli nelle vicende belliche di nessuna Marina.
Nel 1948 i servizi segreti del nuovo stato Israeliano, nato dalle ceneri del mandato britannico in Palestina, erano impegnati a procurare armi all’Haganà e impedire che gli stati arabi ne ricevessero. A quell’epoca l’Italia era la fonte e la via di transito preferita per questi traffici per la sua posizione geografica e per la non chiara condotta politica dei governi dell’epoca ancora soggetti a facili pressioni da parte delle potenze vincitrici che nei riguardi di Israele praticavano una politica ufficiale di embargo ed una clandestina di appoggio.
La presenza in Italia di grossi depositi di armi (residuati bellici) e di contingenti di truppe alleate, favoriva questi movimenti con una copertura di ufficialità avallata dalle nostre autorità. Erano gli anni nei quali su alcuni aeroporti italiani in disuso, gruppi di giovani piloti israeliani si allenavano al combattimento su caccia Spitfire e Messerschsmith che venivano loro consegnati rispettivamente dall’Inghilterra e dalla Cecoslovacchia. Trasportati fino in Italia da aerei di fantomatiche compagnie di trasporto che ripartivano nottetempo dagli stessi aeroporti con carichi di immigrati clandestini diretti in Israele. Sappiamo adesso dell’esistenza di alcuni di questi aeroporti clandestini nella Piana del Sele e nel Tavoliere Pugliese.
Sempre in Italia si addestrava anche l’embrione della Marina Israeliana, i cui operatori subacquei ricevevano un addestramento presso Formia. Il ciclo delle esercitazioni e dell’istruzione era quello degli operatori Gamma della X MAS, ed il materiale di impiego era costituito da autorespiratori ad ossigeno, mute, pinne, maschere ed esplosivi, tutto di origine italiana.
Si trattava probabilmente di attrezzature cedute in un primo tempo dalla Marina Italiana o Inglese ed in seguito acquistate direttamente presso le ditte produttrici (Pirelli, Salvas) dall’organizzazione segreta per l’approvvigionamento di armi capeggiata in Italia da Yehuda Arazi che operava nei pressi di Magenta in una vecchia fattoria, con la copertura ufficiale per le spedizioni di armi in Israele della ditta Monti di Milano, che esportava macchine edili in Medio Oriente.
Il gruppo incursori subacquei di Formia capeggiato da Yossef Dror, che in seguito divenne il Comandante del sommergibile «Tanin», che trasportò gli incursori contro Alessandria d’Egitto nel giugno 1967, ebbe l’occasione di effettuare la prima operazione bellica senza allontanarsi molto da Formia. Dror e due operatori, misero nelle valigie mute, respiratori, bauletti esplosivi e presero il diretto per Bari. Come abbiamo accennato uno dei compiti della Palyam, questo è il nome della Marina Israeliana, era quello di impedire l’arrivo di armi agli stati arabi.
Nel marzo del 1948, un ingente quantitativo di armi cecoslovacche, ottomila fucili e sei milioni di cartucce destinate alla Siria, venne imbarcato a Fiume sul piroscafo italiano Lino. Immediatamente i servizi segreti israeliani si misero in moto e tentarono con tutti i mezzi di impedire al carico di arrivare a destinazione, compito quanto mai difficile senza correre il rischio di mettere in serio imbarazzo le autorità italiane.
Dopo aver scartato la possibilità di bombardare la nave mentre era in navigazione in Adriatico mediante gli aerei in addestramento nelle basi segrete del Sud Italia, il compito venne affidato alla Marina e precisamente agli operatori di Dror.
Durante la navigazione il Lino fece avaria alle macchine e fu costretto a poggiare su Molfetta, ove le autorità doganali italiane effettuarono un’ispezione della nave. Sembra che certe irregolarità nelle polizze di carico e non la natura del carico stesso, indussero la polizia italiana a mettere sotto sequestro la nave. Con gli elementi di valutazione in nostro possesso, potrebbe essere una illazione l’ipotesi di un tentativo di diversione del carico da parte del governo Israeliano mediante una nota diplomatica a quello Italiano, nel quadro della politica di embargo verso i belligeranti del Medio Oriente.
Il 5 aprile, il Lino entrò nel porto di Bari e si affiancò ad un molo dove, guarda caso, era ancorato un cacciatorpediniere inglese. Dror era a Bari e passeggiando sul molo studiò la situazione. Gli inglesi sorvegliavano poco discretamente la nave illuminandola con i riflettori durante la notte. Evidentemente sospettavano una mossa dei servizi segreti israeliani e non volevano sorprese.
Nella notte del 7 aprile, Dror effettuò una ricognizione subacquea ma constatò l’impossibilità di agire senza essere scoperti dall’intensa vigilanza alla quale era sottoposta la nave. Entrò in azione allora il servizio segreto che fece pervenire agli inglesi la soffiata che una motovedetta silurante israeliana attendeva il Lino fuori dalle acque territoriali italiane.
Nella giornata dell’8 aprile il caccia lasciò l’ormeggio ed uscì a pattugliare al largo delle coste pugliesi. Dror seguì con ansia i movimenti della nave britannica, percorrendo la strada costiera in automobile. Verso sera, dopo averla persa di vista, rientrò in città e preparò l’azione per la notte. Verso mezzanotte i tre incursori scesero in acqua ed effettuarono un avvicinamento a quota occhiali, sino a 50 metri dal Lino. Si immersero e dopo essere giunti sotto la carena, applicarono ad essa tre cariche esplosive con detonatore ad orologeria. Dopo un paio d’ore, mentre Dror e i compagni erano già al sicuro, le cariche esplosero e il piroscafo si adagiò su un fondale di circa dieci metri con le sovrastrutture in parte emergenti.
La stampa italiana riportò la notizia dell’affondamento del Lino con varie ipotesi sulla vicenda, non ultima quella del tentativo di far sparire le prove di un complotto comunista che avrebbe dovuto scoppiare a Lipari. Il carico del Lino comunque non giunse mai in Siria e fu oggetto di un’altra strana avventura alla 007…
Il governo Siriano, dopo aver appianato le difficoltà burocratiche ed aver dimostrato la effettiva proprietà del carico, ne curò il recupero e l’imbarco su un’altra nave italiana, l’Argiro, che con un audace colpo di mano venne catturato dagli israeliani e dirottato ad Haifa. Pochi mesi dopo e precisamente nell’ottobre del 1948, la Marina Israeliana effettuò la sua prima missione bellica in difesa del territorio metropolitano durante un tentativo di sbarco da parte degli egiziani nella zona di Gaza.
Il Comandante Yochai Ben Num guidò i suoi motoscafi esplosivi all’attacco del trasporto militare. EI Amir Farouk » che si avvicinava alla zona di sbarco. I mezzi d’assalto, del tipo MTM con motore Alfa Romeo e costruiti da Baglietto, probabilmente erano giunti in Israele clandestinamente ed erano passati dalla famosa fattoria di Magenta dopo essere stati acquistati come residuati. Il trasporto egiziano fu colpito in pieno assieme ad una unità di scorta ed affondò vicino alla spiaggia, circostanza questa che non impedì la perdita di centinaia di soldati che non addestrati al nuoto affogarono a pochi metri dalla riva.
Probabilmente i mezzi furono messi a mare dalla spiaggia dopo l’avvistamento dell’avversario, con una tecnica che gli italiani attuarono durante la seconda guerra mondiale in difesa delle coste della Cirenaica, quando la colonna Giobbe della X MAS operò in quel settore.
Possiamo escludere che siano stati messi in acqua da un mezzo trasportatore navale, sia esso subacqueo che di superficie, quantunque per questo scopo gli israeliani avessero già all’epoca una nave trasporto particolarmente attrezzata. Per rivedere in azione gli incursori con la stella di Davide dobbiamo attendere sino alla guerra del 1967, della quale sono stati resi noti tutti i particolari meno quelli riguardanti due singolari azioni portate a termine dalla giovane Marina.
Con ciò non vogliamo ignorare altri episodi antecedenti o posteriori alla guerra dei sei giorni; come la cattura del cacciatorpediniere egiziano Ibrahim el Awa, la fuga delle vedette da Cherbourg o l’affondamento dell’Eilat da parte dei missili egiziani. Tutti fatti d’armi che dimostrano la vitalità e l’alto spirito aggressivo e di sacrificio degli israeliani.
Come tutte le Marine moderne, la Palyam aveva curato molto sin dalle sue origini la componente subacquea delle sue forze di attacco, ma come tutte le marine povere, aveva dovuto sopperire alla mancanza di mezzi con l’ingegno ed il coraggio dei suoi uomini. Un rapporto operativo su due azioni di subacquei israeliani è stato recentemente rilasciato ad alcuni anni di distanza dalla fine dell’ultimo conflitto con l’Egitto.
Il 5 giugno 1967 alle ore 20,30 un gruppo di operatori subacquei lasciò il caccia «Yaffo» che era arrivato con due motosiluranti di scorta a poche miglia da Port Said, presumibilmente imbarcandosi su un battello pneumatico equipaggiato con un motore fuoribordo. La squadra, che era al comando di un ufficiale superiore che si copre con lo pseudonimo di «Ginger», arrivò in prossimità della diga foranea alle ore 23,00 e dopo aver nascosto il battello nella scogliera esterna si inoltrò a nuoto nell’interno del porto. Gli operatori che avevano ordine di attaccare esclusivamente navi da guerra, non trovarono obiettivi perché le due motosiluranti lanciamissili tipo Komar presenti a Port Said, uscirono alle 01,00 levando gli ormeggi a ridosso di alcuni mercantili che le defilavano alla vista degli attaccanti.
Dopo cinque ore di nuoto esplorativo nel porto, Ginger diede l’ordine di riunire il gruppo sul Molo Lesseps ove i sommozzatori si sdraiarono tranquillamente per riposarsi dopo essersi tolte le pesanti attrezzature. Le truppe egiziane di guardia alle banchine, già da tempo in allarme, alla vista della squadra israeliana raccolta sul molo si asserragliarono in alcuni edifici prospicienti il molo e gridarono “chi va là”. Ginger rispose «EI Jish el muskoviya!» facendo credere che erano marinai sovietici.
Dopo questo scambio di battute gli egiziani, forse non del tutto convinti, prudentemente non si mossero dai loro rifugi e gli israeliani cominciarono ad incamminarsi a piedi alla ricerca di bersagli per le loro cariche esplosive. Nel frattempo lo «Yaffo» veniva attaccato dalle due vedette lanciamissili e ne seguiva un violento combattimento notturno, al quale presero parte anche le batterie costiere e che si concluse con l’affondamento di una delle due unità egiziane all’imboccatura del porto mentre l’altra veniva colpita probabilmente mentre tentava il rientro e si arenava gravemente danneggiata.
Durante questo scontro che durò sino alle 02,00 gli incursori israeliani esplorarono sistematicamente ed indisturbati tutto il porto e dopo aver constatato l’assenza di obiettivi che non contrastassero con gli ordini ricevuti, si apprestarono a raggiungere il luogo di appuntamento con il caccia. E’ implicito, anche se non scritto, che il gruppo si allontanò a bordo del battello pneumatico. Il rapporto parla di un tempo di 4 ore e 45 minuti più che sufficiente a raggiungere lo Yaffo con un battello a motore fuoribordo, ma oltre al limite delle possibilità natatorie anche di elementi ben allenati tenendo conto che il caccia doveva essere oltre la gittata delle batterie e quindi oltre le 15 miglia. Comunque in pieno giorno i sommozzatori israeliani furono raccolti a bordo del caccia proprio mentre il comandante, scaduto il termine di attesa, stava per riprendere il largo.
Il risultato tattico di questo raid fu assolutamente negativo, se vogliamo escludere l’esito brillante dello scontro tra lo Yaffo e le motosiluranti egiziane, ma l’incursione provocò sul piano strategico lo spostamento di una divisione corazzata dal Sinai a Port Said, per fronteggiare un ipotetico sbarco del quale il «Ginge team» avrebbe dovuto essere il gruppo esplorante.
Nello stesso giorno, il 5 giugno segnò la data di inizio della guerra dei sei giorni. Il sommergibile «Tanin» al comando di Yossef Dror era in navigazione verso Alessandria d’Egitto con un gruppo di sei operatori subacquei al comando del maggiore Eitan Lipschitz, per un’operazione analoga e contemporanea a quella di Port Said. Approfittando delle ultime luci del giorno, Dror fece affiorare il periscopio per una ricognizione preliminare e constatò che gran parte della flotta egiziana era all’ancora nell’avamporto.
Il «Tanin» si posò sul fondo e Lipsohitz dopo un «breefing» ai suoi uomini diede inizio alte operazioni di preparazione e vestizione. Probabilmente si svolsero le stesse operazioni che vennero effettuate trent’anni fa sul sommergibile Scirè, posato sul fondo davanti ad Alessandria, forse nella stessa posizione, prima che Durand De La Penne, Marceglia e Martellotta uscissero per attaccare le corazzate britanniche.
Tutti gli uomini si vestirono con cura delle loro nere mute, controllarono i respiratori ad ossigeno, le maschere, si scambiarono le ultime scherzose battute e forse ricevettero una augurale pedata dal comandante Dror, il veterano di Bari. Indubbiamente vi era lo stesso spirito combattivo che animava gli operatori, probabilmente le stesse paure, gli stessi timori.
Alle 22.00 dopo un ulteriore avvicinamento all’ingresso del porto effettuato a quota periscopica gli operatori lasciarono il sommergibile, con tutta probabilità dalla torretta in affioramento, benché il «Tanin» fosse provvisto di due garritte per la fuoriuscita in immersione. Varcata l’imboccatura del porto, il gruppo che nuotava in superficie ebbe l’amara sorpresa di non trovare più le navi ai loro posti d’ormeggio. Dopo il tramonto per ragioni di sicurezza erano state spostate all’interno delle costruzioni retali nel lato orientale del porto.
Dopo lunghe ricerche gli assaltatori riuscirono a trovare in un ancoraggio non protetto due vedette lanciamissili tipo OSA ed una corvetta che attaccarono con cariche esplosive. La loro ostinazione seppure premiata da tre obiettivi raggiunti, aveva decurtato il tempo necessario per il rientro al sommergibile in misura tale che il gruppo decise di nascondersi tra gli scogli della diga frangiflutti in attesa del «Tanin» che non vedendoli rientrare li avrebbe attesi in affioramento la notte seguente.
Il sole era già spuntato quando i sei uomini esausti raggiunsero la scogliera e si nascosero dopo essersi sbarazzati dell’equipaggiamento e delle mute. Verso mezzogiorno un ragazzo arabo che pescava li scoprì e diede l’allarme. Immediatamente furono circondati da una folla che minacciava il linciaggio e solamente il sangue freddo di Lipshitz, che in un primo momento estraendo sigarette americane e parlando in inglese fece passare i suoi uomini per marinai americani, riuscì a salvare la situazione e temporeggiare sino all’arrivo della polizia egiziana. L’arresto degli israeliani coincise con la esplosione delle cariche sotto le navi nemiche e nella confusione che nacque, mentre la folla si avventava sui prigionieri incurante del fatto che la polizia avesse aperto il fuoco per proteggerli, due di essi riuscirono a fuggire nascondendosi in un magazzino portuale.
Il gruppo incursore fu tradotto al comando egiziano e dopo alcuni giorni di interrogatori, avviato ad un campo di prigionia ove fu raggiunto più tardi dai due fuggitivi che, dopo alcune rocambolesche avventure, furono arrestati mentre si avviavano verso le linee israeliane a bordo di una automobile rubata. Durante la notte successiva all’incursione, il «Tanin» venne all’appuntamento e sostenne un lungo combattimento con una corvetta egiziana, dopo aver tentato senza successo di silurare un cacciatorpediniere ancorato nell’avanporto. Dopo otto mesi di prigionia i sei israeliani furono scambiati contro cinquemila prigionieri egiziani tra i quali nove generali!
Dopo il «cessate il fuoco» dell’11 luglio 1967 la Marina Israeliana non effettuò azioni di rilievo, salvo qualche scontro durante normali azioni di pattugliamento costiero che si estendevano anche al Sinai ed al Golfo di Akàba. Fu proprio in questo settore che, viceversa, si svolse la prima azione di incursori subacquei egiziani.
Nel febbraio del 1970 un gruppo di assaltatori facenti parte delle formazioni speciali comandate dal Generale Ohazli, che oltre a commandos paracadusti e sabotatori, comprendeva anche un’unità di sommozzatori, attaccò il porto israeliano di Eilat. II gruppo egiziano, composto da un numero imprecisato di operatori, raggiunse Eilat provenendo probabilmente dalla vicina costa giordana.
Eilat dista poche miglia dal porto di Akaba, che era in mano giordana. Nottetempo i nuotatori egiziani minarono la motonave «Hat Golim» di 1.200 tonnellate, attrezzata per il trasporto di commandos e incursori ed il mezzo da sbarco «Ashod» di 730 tonnellate, che era stato trasportato via terra attraverso il deserto del Neghew, sino al Mar Rosso. Ambedue le unità rimasero danneggiate dall’attacco ma furono recuperate e rimesse in servizio.
Articolo pubblicato sul periodico “Mondo Sommerso” – ottobre 1972 e qui riprodotto p.g.c. dell’autore
In riferimento a quanto descritto nel presente articolo di Franco Harrauer il Comandante Lino Mancini, autore di AltoMareBlu ha eseguito una ricerca interpellando alcuni amici che hanno testimonianze storiche degli eventi di cui di seguito ne pubblichiamo uno stralcio:
Ci intercettarono le corazzate inglesi abbordandoci: non aveva più senso tenere i migranti nascosti e li facemmo salire sul ponte. Issate la bandiera con la Stella di Davide e la scritta con cui dichiaravamo di essere la Af al pi chen, cantammo l’inno d’Israele, Hatikvah». Sono, questi, alcuni frammenti del racconto reso dagli agenti del Mossad riguardo ai viaggi clandestini che portarono migliaia di superstiti della Shoah dalle coste Pontine alla Palestina per creare lo Stato d’Israele.
Da una base operativa del Mossad in terra pontina partirono tra il ‘47 e il ‘48, su navi e imbarcazioni di fortuna migliaia di ebrei immigrati clandestini destinata tornare in Palestina per creare lo Stato d’Israele.La copertura era offerta da un campo profughi tra Gaeta e Formia,chiamato in codice «Givah Ada – The hill»
Tra gli agenti del Mossad era nota come «The Hill»,la collina. Ma quello che oggi noi conosciamo come il promontorio di Gianola, silenziosa e verdeggiante area naturale nel parco Riviera d’Ulisse, tra il termine del secondo conflitto mondiale e la fine degli anni ‘40 ospitò un campo di profughi ebrei che fu anche una delle basi operative dei servizi segreti israeliani per il progetto Aliyah Bet: l’immigrazione clandestina di milioni di persone in terra d’Israele. Lo riferiscono in modo esplicito, ad oltre sessanta anni di distanza, le testimonianze dirette di decine di agenti del Mossad raccolte negli archivi del museo dell’immigrazione.
Nei loro racconti i nomi di Formia e Gaeta ricorrono con incessante frequenza proprio a conferma del fatto che l’area del sud-Pontino fu uno dei teatri in cui si giocò una delle partite a scacchi più importanti dell’immediato dopoguerra tra Impero Britannico, Stati Uniti, Urss e paesi arabi. Il caso che più di tutti riassume questo clima di tensione, ma anche di incredibile entusiasmo che di lì a poco culminerà nella nascita dello Stato di Israele è quello della nave da sbarco LCT-147 della marina Britannica, un vascello creato per alloggiare carri armati e diventato un simbolo dell’orgoglio ebraico. Dopo la sua parziale dismissione viene infatti donato alla Marina Militare Italiana che la ribattezzò «Michele Parma», per poi finire per vie ignote nel controllo del Mossad. Gli agenti la ribattezzano «Af-al-pi-chen», «Nonostante tutto».
«In Italia mi venne affidato il comando del campo di Formia -ricorda Yehoshua «Ossie» Ravid (agente del Mossad) ed iniziammo ad armare la nave «Af al pi chen». Mi misi in contatto con le autorità della zona e diffondemmo la voce che nel campo si era diffusa una epidemia, così che i civili italiani non potessero entrare. Con grande frequenza ci giungevano nuovi Olim (immigrati ebrei).
Yehuda Arazi giunse a Formia e mi disse di prepararmi per caricare gli Olim la notte del 15 settembre del 1947. Mi disse che non c’era necessità di scialuppe per caricare gli Olim perché il vascello era una nave da sbarco che normalmente ospitava carri armati.
Quando arrivò il momento, il portellone non si aprì e caricarono gli Olim con le scialuppe. Quella notte, mentre caricavamo i migranti si era scatenata una tempesta furiosa e così ci vollero quasi 4 ore prima che fossero tutti a bordo. L’alba stava dirompendo nel momento in cui lasciammo le coste di Formia con 434 Olim.
Sapevo che questo vascello piatto andava impiegato solo su brevi distanze e che non era adatto al mare grosso o al mare aperto. Per nostra fortuna incontrammo mare calmo». Ma l’«Af al pi chen» avrà un percorso assai più tortuoso di quanto previsto. A bordo c’era una spia che segnalava alle autorità britanniche il carico di migranti: aerei e le corazzate la intercettano dirottandola su Cipro, dove i profughi furono ospitati in un campo. Solo diversi mesi più tardi toccheranno le sponde di Israele, nel porto di Haifa.
Simbolo di questa nuova migrazione fu il vascello «Af-al-pi-chen» (Nonostante tutto). Partì all’alba del 17 settembre del 1947 con 434 ebrei sopravvissuti all’Olocausto. L’agente Yehoshua Ravid: «L’alba stava dirompendo mentre lasciavamo le coste pontine»
I progetti del Mossad, tuttavia, non si arrestano. Alcuni vascelli portano carichi di armi per l’imminente guerra d’indipendenza, altre di immigrati. Da Gaeta e Formia, ed in particolare da un cantiere semidistrutto, tra il ‘47 e il ‘49 partono con certezza le navi:
- «Avionia» (1000 immigrati)
- «Esmeralda-Yechiam» (238 immigrati)
- «Enzo Sereni» (700 passeggeri)
- «Tirat Tzivi» (900 immigrati)
- «Fabio», «Albatross», «Arsia», «Kefalos», «Tulia Christina» e «Scio»
L’ultima nave “illegale” (nel ‘48 nascerà lo Stato di Israele) salperà la notte del 14 maggio 1948. Nel complesso quella mobilitata è una massa umana immensa: migliaia di persone sulle quali le autorità chiudono un occhio e che sfilano grazie ad un miracolo organizzativo sotto il naso degli inglesi. «Fui inviato a «Givah Ada», un campo sul golfo di Gaeta ricorda Eliahu «Cushi» Shachar, che sorgeva sulla costa e serviva da base logistica.
Non lontano c’era un hotel che gli inglesi usavano per osservare il campo costantemente: sapevano che era una base per Aliyah. Una nave da sbarco abbandonata, fatiscente e senza un motore entrò nella baia. Ada Sereni, Alon e Avraham Zakai vennero al Givah e decisero di preparare la nave e sei di noi lavorarono tutta la notte nel vascello. La sera successiva, il 16 settembre 1947, un peschereccio giunse al punto di incontro prestabilito. Imbarcammo gli immigrati più velocemente possibile e alle 04 del mattino salpammo».
«Una notte, nel mezzo del Mediterraneo – racconta ancora Shachar – ci intercettarono 4 corazzate inglesi. Decidemmo che non aveva più senso tenere i migranti sotto il ponte e dicemmo loro di salire. Sul ponte comparve la stella di Davide e fu spiegato un lungo stendardo su cui era scritto che eravamo la nave “Af al pi chen”. Alla vista della bandiera israeliana tutti i migranti iniziarono a cantare «Hatikvah», l’inno nazionale».
A 67 anni da quel giorno l’«Afal pi chen» esiste ancora, collocata in tutta la sua immensa mole all’ingresso del museo navale di Haifa. E’ una gigantesca arca, scelta da Israele come simbolo di quei viaggi disperati ma carichi di attese con cui milioni di persone, partite anche dalla provincia Pontina, vissero – millenni dopo Mosè – un nuovo Esodo verso la terra promessa.
TRA MIGRANTI E AZIONI MILITARI
Tra le operazioni organizzate nel campo, l’affondamento di un mercantile che portava armi alla Siria:
Non solo imbarchi da Gaeta e Formia, ma anche la pianificazione di operazioni militari. La base situata sul promontorio di Gianola fu infatti testimone di una fase molto delicata della costituzione del nascente Stato d’Israele: il conflitto e la guerra d’indipendenza dagli inglesi, ma soprattutto dai paesi arabi che circondavano la Palestina. Lo ricorda Amnon Yona descrivendo le operazioni che dalla base tra Gaeta e Formia portarono all’affondamento del “Lino”, un mercantile carico di armi diretto in Siria per aiutare la guerriglia araba contro il nascente Stato di Israele.
«Mi venne affidato il comando dell’operazione – dice Yona – e scelsi la mia squadra.Munia Mardor fu incaricato di procurare le armi a Formia. Poi partimmo per Bari.
Giungemmo al porto e gli uomini, subito dopo che era calata l’oscurità, entrarono finalmente in azione.
Si calarono in mare con una imbarcazione leggera. All’una e trenta del mattino avevano già fatto ritorno.Yossale annunciò che tutto era andato a buon fine e che la mina era stata attaccata al “Lino”.
Munia arrivò poco dopo e così rientrammo alla nostra base a Formia, circa 400 chilometri dal teatro dell’azione, dopo aver rimosso i teli usati per camuffare il camion. Giungemmo a Formia intorno a mezzogiorno – conclude – ma nessuno aveva ancora avuto notizie di quanto accaduto a Bari.Yossale ed io andammo a Roma, all’ufficio del Mossad che si occupava del progetto Aliyah bet. Sentimmo allora che il “Lino” era stato affondato».
Gavriel Weiss, non manca invece di ricordare come gli italiani, ben più degli inglesi e degli americani, fossero sempre pronti a chiudere un occhio. Chi e perché appoggiava la loro causa, chi e perché non riusciva a resistere al fascino del denaro. «Fui mandato a Formia – ricorda Weiss – e incaricato della gestione del campo. Un gruppo di migranti Ma’apilim erano in attesa di essere imbarcati. Provvedemmo ad imbarcarli su una nave nel vicino porto di Gaeta. C’era un grosso magazzino di cui gli italiani erano a conoscenza, ma ci aiutarono senza prestare attenzione a quello che facevamo, grazie all’influenza di Ada Sereni ed anche grazie a qualche mazzetta per le persone giuste al momento giusto.
In quei giorni appresi per telefono della creazione dello Stato di Israele».
Articolo “La nostra MEMORIA” pubblicato da “La Provincia Quotidiano” (quotidiano della provincia di Frosinone) Giovedì 27 Gennaio 2011
Ma chi era Yosef “Yossale” Dror?
Yosef “Yossale” Dror, nato in Polonia nel 1925, mette a disposizione della nascente Marina Militare del nuovo stato d’Israele la sua ricca esperienza acquisita dal suo precedente servizio nel Ha’Chulya, la piccola squadra di sabotaggio subacqueo del Palyam (nella quale era entrato nel 1944).
Nel 1930 la famiglia, composta da sua madre ed un fratello, emigrò da Città del Messico e si stabilì a Telaviv nel quartiere di Mahloul, situato vicino al mare, e così ebbe modo nella sua giovinezza di trascorrere gran parte del suo tempo in acqua nuotando, navigando, facendo canottaggio, ecc.
Alla fine del 1942 Dror completò gli studi e si unì alla compagnia del Pal’mach. All’inizio del 1944 si trasferì alla Società Navale, che divenne poi il nucleo del Palyam, e partecipò a un corso per comandanti di piccole imbarcazioni. Questo corso durò tre mesi e mezzo e dopo aver ricevuto una certa formazione pratica s’imbarcò sui pescherecci dei kibbutzim.
All’inizio del 1945 fu istituito il primo corso per ufficiali navali, a cui partecipò, che aveva lo scopo di preparare personale per gestire, con navi mercantili, l’immigrazione degli ebrei che dall’Europa tornavano in Palestina.In questo corso i tirocinanti impararono le basi della navigazione, dell’astronomia, della costruzione di barche ed altro.
Nel 1947 fu destinato in Italia, nella base di Formia, e tra le sue attività, oltre a quelle dell’organizzazione dei viaggi d’immigrazione, ci fu anche quella di far parte delle squadre di sabotaggio che effettuavano interventi mirati per impedire che arrivassero agli stati arabi le armi che acquistavano in Europa. Con queste azioni si cercava di indebolire gli stati arabi e così bilanciare la forza degli armamenti del nuovo stato d’Israele nato dalla fine del mandato britannico in Palestina.
Una di queste azioni riguardò l’affondamento del “Lino” nel porto di Bari, azione descritta nell’articolo di cui sopra.
Dror rimase in Marina fino al 1963, dopo il suo congedo continuò ad occuparsi di lavori connessi con attività marine. Il 29 giugno 1976, durante un’escursione a Stromboli, perse la vita a causa di una caduta che gli procurò ferite mortali. E’ sepolto nel cimitero del Kibutz di Ma’agan Michael, Kibutz in cui ha vissuto gran parte della sua vita.
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