Seconda Guerra Mondiale: la Regia Nave Aquila (I puntata)
di Franco Harrauer
Milleottocentotrentaquattresimo giorno della Seconda Guerra Mondiale. Meridiano di Tokio:
Ad ovest il sole stava tramontando ed i suoi raggi penetravano a fatica nelle dense nubi di fumo che si levavano dalle macerie della capitale nipponica, devastata nella notte precedente dai giganteschi bombardieri Boeing B 50 americani.
Più a occidente, in Cina nella luce del sole morente, le armate del rivoluzionario Mao Tze Tung si apprestavano ad accendere i fuochi del bivacco notturno, alla fine di una tappa della lunga marcia all’inseguimento dei giapponesi in ritirata. Una gara per la presa del potere contro il generalissimo Chang Kai Shek.
Sullo stesso meridiano più a Sud erano le 19.00 e le truppe di Mac Arthur stavano sbarcando nelle Filippine, mentre nel Pacifico Occidentale e nel Mare dell’Indonesia, le grandi navi da battaglia giapponesi accendevano le luci di posizione nella loro ultima navigazione verso il supremo sacrificio.
In Birmania i Cindyt del Generale Wingate avanzavano combattendo aspramente nella jungla, mentre alte nel cielo si aggiravano le Tigri Volanti di Chennault, ancora illuminate dal sole alto. In India le truppe inglesi si apprestavano ad un pomeriggio caldo di violenza, per controllare le folla tumultuante che il Mahatma Ghandi invitava alla calma.
Oltre le distese assolate della penisola arabica in Egitto, i prigionieri di guerra italiani e tedeschi languivano sotto il sole cocente nei campi di concentramento della zona del Canale di Suez, mentre nelle isole dell’Egeo le truppe tedesche resistevano, ormai isolate dalla madrepatria.
Nel frattempo da Oriente le truppe russe marciavano contro la Germania. Il sole, che otto ore prima stava tramontando sopra le macerie di Tokyo, era al massimo della sua altezza sulle macerie dell’Europa. Gli alleati anglo-americani, preceduti da devastanti bombardamenti aerei, stavano oltrepassando le difese della linea del Reno e penetravano nel cuore della Germania nazista.
Lo stesso sole, sulla penisola italiana divisa in due dalla linea Gotica, illuminava a Sud il Castello Aragonese, sede del Comando Marina di Taranto.Tutto il mondo era ancora in guerra! Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la penisola era letteralmente divisa in due. Al Nord, occupato dalle truppe tedesche, agonizzavano i resti di un fascismo ormai rifiutato dalla maggior parte degli italiani: un Nord difeso da gruppi di combattenti italiani fedeli all’alleanza con la Germania e adideali di onore, ma insanguinato da una guerriglia fratricida contro i gruppi sempre più numerosi della Resistenza. Al Sud, occupato dalle truppe inglesi ed americane. Un governo legittimo ma senza credibilità tentava di radunare le forze armate superstiti che tenevano fede al giuramento verso la monarchia.
Anche la Decima Flottiglia MAS, atipica formazione della Marina, era divisa in due tronconi: a Nord, il Principe Valerio Borghese aveva mantenuto il comando, nel Sud a Taranto, era stata ricostruita dal Capitano di Fregata Ernesto Forza, sotto il nome di Mariassalto, per combattere a fianco degli Alleati.
Idroscalo di Genova
10 Maggio 1940
Francesco si sistemò meglio sul sedile posteriore dell’idrovolante Caproni Ca 100, il fido Caproncino. Si strinse gli spallacci che lo legavano all’aereo e sentì la mano dell’istruttore sulla sua spalla:
Vai tranquillo Francesco:
- decolla verso levante che non c’é molto traffico nel porto. L’aereo dell’Ala Littoria arriverà solo tra un’ora.
- Vola dritto fino al traverso di Nervi
- Poi vira largo e torna qui, passando parallelo alla diga foranea
- Tieniti a cinquecento metri di quota
- Su Sestri fai una 90 + 90°, sempre largo, e mettiti in finale: il solito circuito. Ciao. Ti aspetto al Bar del Club.
Il Maresciallo Contigini saltò dal galleggiante dell’aereo sul pontile.
- Contatto! Francesco si abbassò sul viso gli occhialoni che aveva comprato ancora prima di iscriversi al corso di pilotaggio e che “facevano tanto pilota”.
- Il motorista Falcinelli, in piedi sulla prua del galleggiante, rispose: Contatto.. e a due mani avviò l’elica. Il motore Colombo S 63, ancora caldo dei voli precedenti, cominciò quietamente a borbottare con i suoi sei cilindri e alle narici di Francesco cominciò a giungere il familiare odore dell’olio di ricino bruciato.
Un paio di piloti freschi di brevetto si erano riuniti sul piazzale di fronte agli hangar per assistere, con una certa aria di superiorità, al primo decollo del “pinguino”. Francesco rispose ai loro sguardi, mormorando tra i denti un sommesso «stronzi!».
Sotto la spinta dell’elica il Caproncino si slargò dal pontile e il neopilota, spedalando un po’ a destra e un po’ a sinistra, lo condusse al centro del bacino. Adesso era solo per la prima volta. La sua passione per il volo era nata con un breve volo di propaganda organizzato dalla RUNA e dal Partito per gli studenti a Genova e sullo stesso tipo di aereo. Si entusiasmò a tal punto che, se solo la sua domanda di ammissione alla Accademia Navale di Livorno non fosse stata già accettata, probabilmente sarebbe entrato all’Accademia Aeronautica di Caserta. Così, approfittando per un paio di anni delle licenze e delle vacanze estive, ogni volta che poteva scappava all’Idroscalo, dove iscritto come socio all’Aereo Club, frequentava le lezioni per conseguire il brevetto di pilota civile.
In realtà l’Aero Club di Genova, per decreto del Governo, non esisteva più e doveva essere ufficialmente chiamato “Reale Unione Nazionale Aereonautica – RUNA Sezione di Genova”, ma i soci, per la maggior parte appartenenti all’elite genovese, continuavano a chiamarlo “Aereo Club dell’Idroscalo”, così come il famoso Genova per i genovesi continuava a chiamarsi Genoa Criket and Football Gentlemen’s Club.
Ora Francesco, alla soglia della nomina a guardiamarina, stava per coronare il suo sogno: pilota di aeroplano, anzi, di idrovolante. E questo lo gratificava ulteriormente: l’idrovolante era una specie di “nave con le ali”. Una nave che lui stesso comandava. Avrebbe poi fatto domanda per il corso di osservatore navale, specialità della Regia Aeronautica riservata a gli ufficiali di Marina.
Allineato l’aereo con la prua verso il lontano Monte di Portofino, Francesco deglutì un paio di volte e si passò le mani sudate sul giubbotto di volo, poi le portò alla cloche e alla leva del gas e tirò a fondo. Il rombo dei centotrenta cavalli gli fece passare ogni apprensione. L’aereo alzò il muso, sbandando a sinistra, e Francesco spinse a fondo il pedale destro per contrastare la coppia di reazione dell’elica che faceva affondare un galleggiante più dell’altro. La visibilità anteriore, con l’aereo così cabrato era quasi nulla, ma il Caproncino che perdona sempre l’impulsività degli allievi, entrò rapidamente in redan e iniziò a correre sull’acqua, mentre il timone di direzione richiedeva sempre un minor sforzo.
Occhio all’indicatore di velocità! Quando la lancetta arriva oltre i cento chilometri orari puoi tirare dolcemente la cloche “si disse ad alta voce” imitando inconsapevolmente lo stesso tono distaccato che usava il suo istruttore. L’aereo si staccò dall’acqua con due brevi balzi. Volava! Volava da solo! Adesso era davvero un pilota! Un’ occhiata a sinistra: la Lanterna era ormai superata ed il panorama di Genova e del suo porto si spiegava sotto le ali del piccolo biplano. A cinquecento metri di quota Francesco ridusse i giri del motore e livellò il velivolo: – Pallina e paletta al centro – come aveva sempre raccomandato Contigini.
Provò leggermente un po’ di piede, accompagnato da un piccolo movimento trasversale della cloche. Il Caproncino mise docilmente il muso verso la cima del Monte Fasce, inclinandosi e offrendo a Francesco la visione dei quartieri di Albaro e del Lido sotto di lui. Poi lo riportò con la prua verso il Monte di Portofino che rapidamente si era fatto più vicino. Era ora di ritornare: impostò la prima virata e poco dopo il panorama di Genova era alla sua destra. Ormai si sentiva sicuro. Osservò un paio di navi che stavano entrando in porto. Una la riconobbe per i suoi due fumaioli gialli. Sembrava quasi ferma, ma la scia bianca tradiva una certa velocità. Forse un giorno quello sarebbe diventato il suo compito: osservare dall’alto le navi nemiche, identificarle e stimarne la velocità e la rotta.
Con una lieve correzione del timone di direzione, si portò sulla verticale della scia della moderna motonave: la Victoria del Lloyd Triestino, che veniva dall’estremo Oriente. Diede un’occhiata alla bussola davanti a sé: 300° e la velocità poteva essere di dieci o quindici nodi, data la vicinanza del porto. Dieci o quindici nodi?? Francesco, guarda la tua velocità! Cento chilometri orari scarsi e l’orizzonte artificiale é un po’ basso… Meglio stare un po’ più attenti per evitare uno stallo per perdita di velocità. Porta la cloche in avanti e inizia la virata per la finale di rientro.
Pochi minuti dopo il Caproncino, dopo essere passato sul Castello Raggio, l’imboccatura di ponente e tutti i nuovi bacini che portavano i nomi dell’Impero, “Somalia, Libia, Etiopia ed Eritrea”, volava galleggiando nell’aria a meno di un metro dalla superficie del mare, con il motore a basso numero di giri. Francesco chiuse la manetta del gas, tirò a sé la cloche e sentì i poppini dei galleggianti toccare delicatamente l’acqua. Contigigni, visibilmente soddisfatto, lo aspettava sul pontile e insieme a Falcinelli lo aiutò nella manovra di ormeggio. Bravo! Un po’ troppo cabrato in fase di decollo, ma va bene così – disse come per abbracciarlo, con la scusa di aiutarlo a scendere dalla fusoliera.
I critici neo-brevettati non erano più sul piazzale. Francesco li ritrovò al bar dell’Aero Club: sapeva che doveva pagare il solito giro al quale si associò la giovane Marchesa Carina Neurone, vicepresidente del Club e detentrice di numerosi primati dell’aviazione sportiva. L’atmosfera non era serena. Il presidente, Giorgio Parodi, aveva delegato la Carina alla presidenza del Club e aveva raggiunto la sua squadriglia di bombardieri.
Parodi, il popolare “Lattuga”, dopo poco più di un mese, sarebbe stato abbattuto con il suo BR 20 durante un volo di ricognizione sulla base francese di Tolone. L’Italia era alla vigilia della guerra. Le armate tedesche marciavano su Parigi. La guerra si preannunciava breve e Mussolini voleva la sua parte di bottino. Forse l’Aero Club avrebbe chiuso o anche solo ridotto l’attività. Contigini avrebbe raggiunto la sua squadriglia di aerosiluranti S.79 nell’Egeo e Falcinelli avrebbe curato i motori di qualche squadriglia di caccia in Africa Settentrionale o in Sicilia. Francesco invece avrebbe approfittato della sua lunga licenza per finire il corso di pilotaggio, in attesa dell’inevitabile ordine di imbarco.
Al bar dell’Aero Club di Genova i discorsi di circostanza furono interrotti dal possente rumore dei motori dell’idro Cant Z 506 della linea Roma – Genova che stava accostando al pontile.
Sede del Comando della Regia Marina Italiana
CASTELLO ARAGONESE
Taranto 14 Maggio 1944
“Ma porca miseria… tocca sempre a me?” pensò il Sottotenente di Vascello Francesco Attanasio, rivolgendo al Capitano Drago suo diretto superiore, un eloquente, rapido e combattivo sguardo, mentre, sull’attenti davanti alla scrivania del Capitano di Fregata Forza veniva congedato. Al suo fianco, Drago sfoggiava una impassibile faccia di circostanza.
Dopo il formale saluto, il Capitano Forza si alzò e porgendo la mano a Francesco gli disse: La sua missione sarà molto impegnativa e ovviamente, coperta dal segreto militare. Ho scelto proprio lei non solo per la sua qualifica di osservatore navale – pilota e per la sua conoscenza tecnica dell’obiettivo che le verrà indicato a suo tempo, sopratutto per il suo brillante comportamento nelle missioni di Porto Buso e di Lavsa. A proposito di quest’ultima… ne terremo debito conto! Il giovane Sottotenente di Vascello era in piedi da mezz’ora nella grande sala dell’Ammiragliato, all’ultimo piano del torrionedel Castello Aragonese che domina il canale di accesso al Mar Piccolo e si avvicinò per porgere a sua volta la mano dopo il saluto.
Fu a questo punto che si rese conto dell’atmosfera da forno che regnava nell’ambiente. Il caldo era intenso, nonostante il ventilatore appeso al soffitto facesse pigramente girare le sue pale. Francesco era in un mare di sudore e mentre si chinava sentì la leggera sahariana appiccicarsi fastidiosamente alla schiena. Lontano, attraverso le piccole finestre aperte giunse il suono della sirena dell’Arsenale che annunciava la fine di un turno di lavoro. Forse anche la riunione era finita. Francesco ripeté il saluto e seguì Drago, che si era già avviato alla porta. Nel cortile assolato, il marinaio autista sonnecchiava con la testa reclinata sul volante.
Avvicinandosi da dietro Francesco lo vide e diede una botta con la mano sulla lamiera del tetto, per svegliarlo prima che Drago se ne accorgesse. Il povero marò alzò di scatto la testa e scese precipitosamente per aprire le portiere posteriori, con uno sguardo riconoscente a Francesco che in quel modo gli aveva risparmiato un cazziatone da parte del capitano Drago. Poco dopo, l’asmatica 1100 blu targata RM li accolse nuovamente per attraversare una Taranto intorpidita nel grande calore pomeridiano. Diretti alla base di S.Vito percorsero il lungomare del Mar Grande, nei cui recinti retali non sostavano più le grandi navi della squadra da tempo relegate dalle clausole armistiziali nei Laghi Amari del Canale di Suez.
In rada era presenti molte navi mercantili inglesi ed americane in attesa di scaricare i rifornimenti per la prima linea che ormai nella sua avanzata aveva sorpassato Roma. Le truppe tedesche arretravano e la Campagna d’Italia si trascinava da quasi due anni senza le avvisaglie di una rapida soluzione. Da quando avevano lasciato il palazzo dell’Ammiragliato i due ufficiali erano rimasti in silenzio e la vettura era ormai quasi arrivata a Capo S.Vito, dove la litoranea costeggiando il mare saturato dalla calura, sembrava una lastra di piombo. Le ostruzioni retali dell’ingresso alla diga foranea erano aperte e un ennesimo convoglio alleato entrava lentamente nel Mar Grande.
Erano quattro navi, grigie e basse sull’acqua, scortate da una malridotta torpediniera italiana. Francesco riconobbe la Cassiopea, piccola unità di ottocento tonnellate sulla quale era stato imbarcato in Egeo nel 1940 – il suo primo imbarco. Cassiopea, la sua piccola nave… Dopo il suo sbarco, nel maggio del ‘43, con la gemella Cigno di 1000 tonnellate, mentre scortava un convoglio di mercantili nel canale di Sicilia, poco a sud delle Egadi, sostenne un combattimento contro due cacciatorpediniere inglesi, di armamento e dislocamento quasi doppio.
Fu un cruento scontro notturno nel quale il Cigno affondò spezzato in due ma prima di sparire sott’acqua, il suo unico cannone da 100/47 posto sul superstite troncone di prora e manovrato dal sottocapo cannoniere Tullio Botteon, continuò a sparare contro il caccia Pakenham di 2.200 tonnellate provocando danni tali da costringerne l’abbandono ed il successivo affondamento.
La Cassiopea, comandata dal Capitano di Corvetta Virginio Nasta, con i serventi ai pezzi decimati dal fuoco delle mitragliere inglesi, si portò all’attacco in una vera e propria mischia, con distanze di tiro anche inferiori ai novecento metri. Mentre i caccia inglesi si ritiravano, la Cassiopea, fortemente sbandata a sinistra, con la plancia completamente distrutta ed in preda ad un violento incendio, rimase immobilizzata alla deriva fino all’alba, quando fu presa a rimorchio dalla gemella Clio, arrivata da Trapani. Fu successivamente rimorchiata a Taranto per i lavori di ricostruzione che durarono ben sei mesi e consentirono il suo rientro in squadra dopo l’armistizio dell’8 Settembre.
Il pensiero di Francesco andò indietro nel tempo a quasi cinque anni prima, ma gli sembrava passato un secolo. La sua prima nave, i suoi compagni, ma soprattutto il suo amico Gigi Sauro che rivide in una confusa carrellata di immagini:
- nel tedio dell’isolamento di Parteni
- nell’isola di Lero
- poi durante l’avventura dell’Araxos, nel tentativo di imbottigliare il Canale di Corinto, durante la breve prigionia in Grecia
- Oppure accanto a lui, di guardia nelle lunghe e lente navigazioni tra le isole dell’Egeo, di scorta a qualche vecchia carretta.
- Al Pireo quando, liberi dal servizio ne percorrevano le chiassose e variopinte stradine in cerca di qualche ristorante dove mangiare o durante i voli fatti assieme nel periodo trascorso a Pola, quando di comune accordo avevano chiesto di frequentare il corso di osservatori navali che si svolgeva all’idroscalo di Pontisella.
La mamma di Gigi, sorella del martire istriano “Nazario Sauro” medaglia d’oro della Regia Marina, aveva accolto Francesco come un secondo figlio. Per lui era davvero come essere rientrato nella sua famiglia a Genova e considerava Gigi come un fratello. Data la vicinanza del centro di addestramento, i due dormivano a casa Sauro e tutte le mattine di buon’ora, in bicicletta raggiungevano l’idroscalo. Il complesso aeroportuale di Pontisella era situato sulla sponda orientale del canale di Fasana, a circa mezzora di strada a Nord di Pola: un ampio bacino riparato dal mare e dai venti, tra le isole Brioni e la costa dell’Istria.
Francesco riprese a volare come osservatore ed anche come pilota, ma dovette ricominciare tutto da capo, con il solo vantaggioche volò da solo su un Caproncino come quello dell’Aero Club di Genova e su un Breda idro 25, dopo solo un’ora di doppio comando con istruttore. I voli come osservatore si svolgevano su idro biplani RO 43, pilotati da personale della Regia Aeronautica e le ricognizioni d’altura si effettuavano sui Cant Z 501. Lunghi voli lungo le coste della Dalmazia, oppure fino allo stretto di Otranto, con soste agli idroscali di Zara, Cattaro o Brindisi. Francesco aveva imparato a riconoscere e stimare la velocità e la rotta delle navi dei convogli che sorvolava in servizio di scorta. Permanentemente esposto al maltempo ed al vento del volo, nella sua postazione aperta all’estremità anteriore della fusoliera, spesso passava in cabina di pilotaggio, con la complicità dei piloti e assumeva i comandi del velivolo, ma non si sarebbe mai cimentato in un ammaraggio che gli era proibito ed era considerato anche dai piloti delicato e pericoloso.
Una volta anche lui fu coinvolto in un ammaraggio pesante quando al rientro da un lungo volo il Cant si presentò regolarmente in finale e forse a causa della stanchezza dei piloti o per un’errata valutazione della quota, dovuta all’effetto specchio della superficie marina perfettamente calma, il velivolo rimbalzò pesantemente sull’acqua, in quella che in gergo si chiamava piastrella. Francesco era al suo posto all’estremità anteriore dello scafo. Per effetto del violento contatto dello scafo con l’acqua, i montanti di sostegno anteriori del motore e dell’ala si piegarono e l’elica, ancora in moto, tranciò la parte superiore dello scafo in corrispondenza della pedaliera dei piloti.
Fortunatamente ritirarono i piedi un attimo prima dell’inevitabile amputazione, che in passato aveva già colpito alcuni colleghi. In quell’istante Francesco vide la morte molto da vicino, con la grande elica metallica che era passata come una falce a meno di un metro dalla sua testa, ma fortunatamente tutto si risolse in una cappottata, l’aereo fuori uso e un bagno per tutto l’equipaggio. Al termine del corso e dopo una breve licenza, Francesco fu destinato come osservatore imbarcato sul RO 43 dell’incrociatore pesante Zara della Prima Divisione, mentre Gigi andò in Egeo su una torpediniera.
A Taranto, prima di prendere imbarco sullo Zara ed oltre ad un ulteriore periodo di allenamento, Francesco fece una serie di lanci sul RO 43, dalla catapulta della nave appoggio aerei Miraglia, ancorata nel Mar Grande e suo malgrado, dovette assuefarsi a questa violenta forma di decollo. La perdita dello Zara nello scontro di Capo Matapan, affondato assieme ai gemelli Pola e Fiume e ai caccia Alfieri e Carducci, pose fine alla carriera di osservatore del Sottotenente di Vascello Francesco Attanasio, che in quei tragici giorni era ancora alle prese con la catapulta della Miraglia.
Fu così che ritrovò Gigi: la nuova destinazione di Francesco era l’Egeo. Poi di nuovo il buio di quattro anni: Francesco in Centro America con la nave Mercurio e Gigi chissà dove. Infine, solo pochi mesi prima lo straordinario incontro: Gigi Sauro al Nord con la divisa della Decima MAS. Nord e Sud avevano perso il loro significato geografico. Ognuno di loro aveva fatto la propria scelta ma erano rimasti amici, e Gigi lo aveva dimostrato. Durante la missione a Porto Buso e Brioni, oltre le linee nemiche, lo aveva aiutato nell’avventuroso ritorno.
Drago fece fermare la macchina.
La Cassiopea, come un cane pastore ultimo dietro il gregge, era ormai entrata in porto ed il varco degli sbarramenti si era richiuso dietro di lei. La nave si apprestava lentamente a prendere ormeggio ad una delle boe e il personale a prua aveva già calato un penzolo di catena. Dal fumaiolo elegantemente inclinato all’indietro, uscì improvvisa e fragorosa una colonna di vapore bianco sporco. La nave stava “svaporando” con la residua pressione delle caldaie.
Ormai il viaggio era finito e Francesco sentendo quel suono familiare, ricordò che quello era un buon metodo per pulire i tubi delle caldaie. Poco dopo, di colpo il rumore si affievolì, finché rimase solo il clangore della catena che scendeva dall’occhio di cubìa e il martellare di un marinaio che sulla boa serrava il maniglione. La voce di Drago interruppe il silenzio ed i pensieri di Francesco:
Senti Francesco, so che è duro ripartire in missione, soprattutto dopo averne appena portata a termine una faticosa e pericolosa come quella di Lavsa, ma devi capire che dovevamo necessariamente scegliere te. Conosci il personaggio da riportare a Sud, conosci la zona e hai dimostrato di essere l’uomo adatto per questo tipo di missione per esperienza e professionalità. Ormai la guerra sta per finire ed é nostro dovere abbreviarne i tempi e salvare il salvabile al Nord. La verità é che ormai la guerra, bene o male l’abbiamo persa e non ci rimane che pensare al futuro senza recriminazioni.
Francesco annuì con gli occhi rivolti alla sua vecchia nave che, ormai vincolata alla boa,aveva messo la prua al vento. Nel frattempo erano giunti al termine della strada, l’auto rallentò di fronte ad un cancello e una sentinella aprì dopo averli riconosciuti e salutati. Davanti alla piccola e decrepita costruzione che portava la scritta “mariassalto Comando”, i due ufficiali scesero e vi entrarono salutati dal piantone di guardia. Francesco era rimasto in piedi quasi sull’attenti in attesa di ordini e si guardava intorno. Due basse finestre davano sulla piccola darsena, dove erano ormeggiati alcuni MTSM, bettoline e una motobarca diesel. Francesco notò che da alcuni giorni mancava la MS 75, la motosilurante per il trasporto dei mezzi minori che tutti familiarmente chiamavano Canguro.
L’ufficio di Drago era decisamente disadorno. Tutto il mobilio era costituito da due scrivanie, due poltroncine ed un armadio. Alle pareti un paio di carte nautiche del Tirreno e dell’Adriatico, una foto del Mercurio ripreso probabilmente durante l’allestimento a Saint Nazaire ed una bandiera in un angolo. Accomodati “disse Drago” mentre, aperto l’armadio, trafficava con la cassaforte. “Ecco gli ordini particolareggiati per te, mi sono arrivati ieri. Li potrai leggere solo in mia presenza e devi restituirmeli dopo averli firmati. Credo che dopo il colloquio con Forza capirai il perché di questa procedura”. Mentre Francesco si sedeva, Drago gli porse un dossier contrassegnato “segreto”. Mettiti comodo, puoi leggere con calma. Intanto ordiniamo un caffè.
In volo verso la Maddalena
16 maggio 1944
Il sergente radiotelegrafista si avvicinò e toccò la spalla di Francesco che, infagottato in una tuta di volo della Regia Aeronautica, di una taglia più grande della sua, guardava giù dal finestrino anteriore della curiosa pancia che faceva assomigliare l’idro Cant Z 506 ad una cicogna gravida. Signore, vuole un caffè? Francesco si voltò e toltisi i batuffoli di cotone dalle orecchie, senza aspettare che la domanda gli venisse ripetuta, fece cenno di sì con il capo, sorridendo. Grazie disse e afferrò il bicchierino di stagno colmo di caffè bollente, che il sergente aveva versato da un capace thermos.
L’aereo volava attraverso la lattiginosa luce di una nuvola, scossa da una leggera turbolenza che ne faceva scricchiolare la struttura. Il grosso idrovolante trimotore, dopo il decollo da Taranto, era salito di quota per sorvolare gli Appennini ed ora una fitta nuvolaglia nascondeva i monti della Basilicata. Due ore e mezza di volo sarebbero state sufficienti per raggiungere la Maddalena. Dopo aver restituito il bicchierino con il quale oltre allo stomaco si era riscaldato anche le mani, Francesco cercò di sistemarsi un po’ meglio sui sacchi di posta che ingombravano la parte bassa della fusoliera, il marsupio in cui erano stivate le bombe antisommergibile quando l’aereo era adibito alla ricognizione e alla scorta dei convogli prima di essere declassato a trasporto.
Questo escamotage permetteva alla Regia Aeronautica (o a ciò che ne restava dopo l’armistizio dell’8 settembre) di salvare i superstiti plurimotori e di far volare ancora i suoi piloti, sotto le insegne del Nucleo Corrieri Militari. Cercando di prendere sonno, Francesco pensò all’arido documento o meglio all’ordine di operazioni, che gli era stato fatto leggere due giorni prima da Drago a Capo S. Vito. Dopo i sacramentali timbri e bolli di “segreto”, nel solito burocratico e ampolloso linguaggio, diceva pressappoco così:
«Il Sottotenente di Vascello Francesco Attanasio in abiti borghesi, ma munito dei permessi allegati e dei documenti di riconoscimento, si recherà presso l’idroscalo di codesta base, ove prenderà imbarco sul primo aereo postale (Corrieri Aerei Militari) diretto alla Maddalena, con partenza prevista non oltre il giorno 18 c.m. Il Comando Piazza Marittima Sardegna provvederà al trasferimento del latore dei permessi allegati presso la base avanzata, dalla quale verrà trasportato nella località di incontro con il nostro agente “Marco”. La parola di riconoscimento per l’incontro è “Decima”. Qui si metterà a disposizione di predetto agente per ulteriori movimenti intesi a facilitare il recupero ed il rientro dell’agente “Alberto” e per qualsiasi necessità inerente all’operazione “Toast”» ecc. ecc.
Erano ordini che dicevano tutto e niente, come al solito, pensò Francesco. Abiti borghesi! … quale era la base avanzata, la località d’incontro, “Marco”, “Alberto”… ma chi erano? Drago, durante il loro ultimo colloquio a capo S. Vito aveva accennato al fatto che lui conosceva bene la zona delle operazione e che la base avanzata avrebbe potuto essere in Corsica. Tutti elementi che gli facevano pensare alla Liguria o Genova, dove era nato e vissuto. In Liguria, inoltre, era attivo un movimento di resistenza che probabilmente aveva anche le stesse finalità delle quali Drago aveva accennato prima della missione a Porto Buso e che gli erano state confermate dal suo amico Gigi Sauro, militante nella Decima MAS al Nord. Tutte ipotesi che trovavano tacita conferma nella parola di riconoscimento «Decima».
La guerra aveva preso una strana fisionomia dopo l’8 settembre. Nemici e amici, alleati e cobelligeranti: tutto era cambiato con una firma sotto una tenda in un uliveto presso Cassibile nella Sicilia Orientale, quando gli Alleati avevano già messo piede sul territorio italiano. Francesco ricordava nitidamente e con disagio il suo smarrimento, le sue istintive e forse avventate decisioni di quei giorni, a bordo del Mercurio, nella baia dell’isola di Coiba nel centro America, quando era fuggito – ma era poi quello il termine esatto? – con il tenente Pieri, a bordo dello Stork idro, dopo l’interruzione della missione contro Panama. Adesso i nemici erano diventati alleati.
Per Francesco non era stato un semplice ordine del suo Comandante al quale doveva ubbidienza. Era stato qualcosa di diverso. La sua decisione era maturata veramente dopo la fuga dal Mercurio, quando si era scontrato personalmente con l’arroganza dell’ex alleato tedesco. Oppure era stato l’incontro con Consuelo, la donna che amava e aveva lasciato a Panama? Consuelo era la vera “realtà” della vita nel buio della guerra. Ma in quel buio Francesco, forse inconsciamente, aveva semplicemente ubbidito al giuramento che aveva prestato nel cortile dell’Accademia Navale di Livorno.
Un leggero calo nel regime dei motori ed un paio di scossoni dovuti alla turbolenza tra le nubi, distrassero Francesco dalle sue inutili ipotesi ed elucubrazioni. La Marina era fatta così: probabilmente le tonnellate di carta destinate a documenti ed a vaghi e incomprensibili ordini superavano di gran lunga il dislocamento di tutta la flotta. Forse l’aereo stava scendendo di quota. Guardò fuori dal finestrino ventrale, che prima del declassamento dell’aereo a trasporto postale serviva al puntatore per traguardare e sganciare il carico bellico. Tra le nubi che si diradavano apparve il Vesuvio, che fumava tranquillamente dopo la recente eruzione. Poi l’azzurro intenso del Golfo di Napoli.
Nel porto devastato dai bombardamenti, come tutta la città, Francesco scorse lo scafo dell’incrociatore Attendolo, colpito nel dicembre del ’42, il giorno di Santa Barbara, dai bombardieri statunitensi. Ora giaceva coricato su un fianco. Ormai abbandonato ogni tentativo di recupero, lo scafo della bella unità che a giugno si era battuta con valore e successo nella battaglia di Pantelleria, serviva come banchina per lo sbarco delle navi alleate che vi si accostavano. Un pontile in ferro era stato saldato sulla sua fiancata emergente e collegato a terra.
A Francesco venne in mente il racconto che del bombardamento di Napoli gli aveva fatto il Tenente Giorgi, pilota osservatore su uno degli Stukas del Mercurio. Giorgi a quel tempo era stato imbarcato con il suo idro RO 43 su uno degli incrociatori della squadra di cui faceva parte l’Attendolo. Da quel ricordo, senza che Francesco potesse trattenerlo, il pensiero scivolò di nuovo verso Consuelo, la giovane donna che aveva conosciuto in Costa Rica e aveva lasciato a Panama e da cui voleva ritornare.
Il Cant Z 506, sorvolata l’isola di Procida e lasciata Ischia alla sua sinistra, si stava inoltrando nel Tirreno ad una quota di circa 500 o 600 metri. Il mare era leggermente increspato da un lieve maestrale, che però non avrebbe ostacolato e ritardato di molto il lungo volo. Francesco sapeva che per almeno un’altra ora non avrebbe rivisto terra, quindi si aggiustò sui sacchi della posta, servendosi del suo scarso bagaglio come di un cuscino. La perenne stanchezza che aveva accumulato in quei quattro anni di guerra e l’abitudine alla variabilità ed imprevedibilità dei turni di guardia, unita alla tensione della vita di bordo, aveva sviluppato nell’organismo di Francesco un sorta di sveglia biologica, grazie alla quale poteva addormentarsi e svegliarsi a comando.
Approfittava di qualsiasi ritaglio di tempo, sia pur breve, di giorno o di notte, per recuperare le energie. A volte gli capitava di dormire in plancia, anche in piedi, appoggiato a una paratia, nel frastuono di una sala macchine, oppure all’aperto, sdraiato dietro un osteriggio. Fin dai tempi nei quali era allievo aveva dovuto abituarsi a dormire nei posti più impensabili ed inaccessibili, purché fossero tranquilli, come la coffa dell’albero di maestra del brigantino interrato nel cortile dell’Accademia di Livorno. Ma da più di un anno a questa parte il suo orologio biologico non funzionava più così bene. Il sonno stentava a venire, ostacolato dai pensieri e dai ricordi, e soprattutto dalla visione di quella notte…
Comandava il PT 710, una vecchia motovedetta tipo Elco che il comando US Navy gli aveva affidato in quello strano periodo di cobelligeranza, dopo l’affondamento del Mercurio. Un vecchio scafo rabberciato alla meglio, ma battente la bandiera della Regia Marina Italiana, che lo scarso equipaggio aveva affettuosamente ribattezzato R.N. Mercurio II. Il suo primo comando. Francesco pattugliava il grande lago di Gatun. Durante quella notte insonne aveva incontrato ancora il suo amico Pieri, che combatteva dalla parte avversa e che tentava di sabotare e minare il Canale di Panama. Un ambizioso bersaglio per raggiungere il quale aveva perso la vita. Era stato ucciso dalla raffica della Browning 12 del PT 710, una raffica breve e mortale che lo stesso Francesco aveva comandato. Poco dopo Pieri era morto fra le sue braccia, ma il sorriso di pace e di perdono dell’amico non era valso a lenire il suo dolore.
Francesco cercava di dormire, ma appena svaniva l’immagine del volto di Pieri, subito compariva quello del Comandante Amiconi, poi quello del capitano Mc Pearson morente sull’isola di Lavsa, quello di Gigi Sauro, poi quello di Diego, il comandante dei guerriglieri costaricani, ed infine quello della sua amata Consuelo. Si accorse di aver sognato quando percepì una riduzione del rumore dei motori e di una vibrazione della fusoliera. Si rigirò verso il finestrino anteriore e vide alla sua sinistra il massiccio dell’isola Tavolata, con la sua caratteristica sagoma che ne giustificava il nome. Il radiotelegrafista si calò dalla sua postazione vicino a lui.
– Signore, tra poco saremo alla Maddalena. L’entrata sulla Tavolata è obbligatoria arrivando dal continente per il Nord della Sardegna. Quando facciamo rotta per Cagliari entriamo sempre a Capo Carbonara. Vedrà che adesso viriamo verso nord. Poco dopo l’aereo, inclinandosi verso destra, cominciò a perdere quota, mentre appariva l’imboccatura del golfo di Olbia, con l’approdo deserto dei traghetti di Golfo Aranci. I collegamenti con la Sardegna erano inesistenti e solo qualche nave della Marina o rari aerei collegavano l’Italia del Sud all’isola.
Il faro di Capo Figari sfilò alla loro stessa quota, poi, all’altezza di Capo Ferro, con un’altra virata, l’idro si mise in finale per l’ammaraggio.Il Cant passò basso tra l’isola di Santo Stefano e la terraferma e mentre virava nuovamente verso levante, Francesco vide nella baia di Palau il grande recinto retale, ormai inutile e vuoto, dell’incrociatore Trieste, la cui sagoma capovolta si intravedeva nelle acque chiare. Il grande incrociatore da 10.000 tonnellate era stato colpito a morte dai bombardieri americani, assieme al gemello Gorizia decentrato nel Golfo Palma, a Caprera nell’aprile del ’43.
La rada della Maddalena era semideserta. Alle boe una corvetta italiana. Alcuni mezzi da sbarco erano sparsi nelle cale di Caprera. Alle banchine dell’Arsenale: motocannoniere inglesi, motosiluranti americane, due Mas ed in un angolo l’inconfondibile sagoma della MS 74, il Canguro di Mariassalto. I motori erano al minimo ed i flap estesi al massimo trasmettevano una forte vibrazione al vecchio idrovolante, che ormai sfiorava le acque della rada di Santo Stefano. Francesco vedeva l’acqua scorrere sotto di lui sempre più veloce mentre l’aereo rallentava cabrando.
La sensazione di velocità era sempre inversamente proporzionale alla quota di volo, pensò, mentre sdraiato osservava la prua dei lunghi galleggianti per percepire l’istante nel quale avrebbero toccato l’acqua. Invece sentì uno scossone quando vide l’estremità posteriore degli scarponi toccare la superficie. Una breve corsa sull’acqua finché l’aereo sembrò sedersi, rallentando fin quasi a fermarsi. Mentre si alzava e cercava di uscire dalla tuta imbottita, Francesco udì il rombo dei tre Alfa AR 126 ruggire nuovamente per portare l’aereo verso l’idroscalo.
Un aviere addetto alla manovra agganciò con una cima uno dei galleggianti. Una motobarca con alcuni avieri ed un guardiamarina venne incontro all’idro, mentre i motori venivano fermati, e lo rimorchiò ad un gavitello. Non appena fu agganciata la scaletta metallica tra il galleggiante sinistro e il portello d’ingresso, Francesco si affacciò e si meravigliò di essere salutato militarmente dal giovane guardiamarina. Automaticamente, dimenticandosi di essere in borghese, rispose con un gesto che concluse passandosi la mano fra i capelli. Perbacco, doveva stare attento: oltre ad essere in borghese, era anche in incognito!
Dopo aver visto il suo tesserino, il guardiamarina disse semplicemente:
Signore, lei è atteso al Comando. La sua sacca per cortesia.
Dopo il rapido scarico della posta e di alcune cassette, la motolancia si diresse verso gli ormeggi dell’Arsenale. Un leggero maestrale increspava le acque della rada e Francesco, seduto vicino al nocchiere che guidava l’imbarcazione, si allentò la cravatta, alzò lo sguardo verso il sole caldo nel cielo sereno e che solo verso le montagne della Gallura offriva l’imponente spettacolo di torreggianti nembocumuli. Il guardiamarina in silenzio lo guardava con curiosità, la stessa curiosità con cui anche lui aveva guardato il Capitano Marceglia, quando l’aveva visito per la prima volta all’Ammiragliato di Taranto, prima di portarlo a Porto Buso. Anche lui era in borghese… Chissà, forse era proprio lui l’agente Alberto.
Isola della Maddalena
Alla Maddalena, Francesco era rimasto diversi giorni a bordo della MS 74 di Mariassalto. Il Comandante, Tenente di Vascello Piero Carminati, lo aveva già avuto a bordo un paio di volte, durante l’avvicinamento a Porto Buso, in alto Adriatico, rimorchiandolo e trainando la MTSM 544 di Attanasio fino all’isola di Lavsa, in Dalmazia.
Carminati conosceva lo scopo della missione di Francesco, per cui fece uno strappo alla regola del più rigoroso segreto e gli fece vedere i due chariot sullo scivolo di poppa del Canguro accuratamente coperto da un tendale.
Sollevati i teli, i due mezzi rizzati su dei tacchi di legno apparvero a Francesco come dei normali siluri sui quali erano stati applicati dei seggiolini, alcuni contenitori ed uno scudo anteriore sotto il quale erano alcuni strumenti stagni, il volantino di controllo del motore elettrico e la cloche per il comando dei timoni di profondità e di direzione. Attorno ai due mezzi d’assalto subacquei, gli operatori inglesi facevano gli ultimi preparativi e controlli, ventilavano le batterie dopo l’ultima carica e provavano le pompe di travaso ed esaurimento.
I chariot erano dei mezzi d’assalto copiati integralmente dai nostri Siluri a Lenta Corsa, senza nessuna miglioria, anzi, a giudizio di Carminati, con qualche difetto in più, come in tutte le cose copiate. Un paio di nostri SLC erano stati recuperati dagli inglesi dopo la sfortunata azione di Malta, quello del Tenente di Vascello Costa e quello di Tesei, che, abbandonato dopo l’azione contro Gibilterra il 29 ottobre del 1940, andò in costa senza che le cariche di autodistruzione detonassero. Questi due mezzi, trasportati a Gosport, furono la base del progetto Chariot.
La Experimental Submarine Flottilla li impiegò in Mediterraneo in due azioni contemporanee nel mese di gennaio del ’43: la prima contro il porto di Palermo, dove affondarono lo scafo dell’incrociatore Ulpio Traiano in allestimento, e la seconda contro gli ancoraggi della Maddalena, nel tentativo di affondare il Gorizia ed il Trieste, i superstiti incrociatori pesanti che formavano la Terza Divisione. Con tutta probabilità questa azione fallì, perché il sommergibile trasportatore affondò dopo l’urto con una mina dei nostri sbarramenti difensivi, prima del rilascio dei chariot. Un’altra ipotesi è che prima dell’affondamento il battello abbia rilasciato le tre coppie di operatori con i loro mezzi, ma che essi siano morti nel tentativo di superare le ostruzioni oppure per difetto delle loro attrezzature subacquee. La prima ipotesi era la più attendibile, in quanto la base italiana, in quella notte, non fu nemmeno allertata.
Probabilmente partiremo questa notte per raggiungere Bastia. I due MTSM di Cugia di Sant’Orsola e di De la Penne sul quale ti imbarcherai anche tu, sono a bordo del Grecale arrivato questo pomeriggio e decentrato a Porto Palma. Ho chiesto al comandante la Base il permesso di portarti con noi. Secondo gli ordini d’operazione di Taranto in realtà avresti dovuto raggiungere la base avanzata con uno dei MAS che mantengono le comunicazioni di Bastia. In navigazione questa notte avrai il tempo di raccontarmi le tue avventure in centro America e in Dalmazia – concluse Carminati.
Ora vieni giù che ci beviamo un caffè.
Risalirono dallo scivolo poppiero e passarono vicino alla mitragliera Maser a quattro canne, alla quale facevano buona guardia due marò con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Dalla timoneria scesero nel piccolo quadrato e sedettero al tavolo, mentre il maestrino serviva loro il caffè. Non appena il marinaio in giacca bianca rientrò in cucina, Francesco a bassa voce chiese a Carminati: Comandante, che fine ha fatto il MAS 505 della squadriglia di base qui? Sono arrivate voci fino a Taranto. Nessuno crede che sia saltato su una mina, come ha comunicato ufficialmente la Marina. La radio del Nord ha detto che il 505 ora fa parte della Marina Repubblicana, è vero?
Attanasio, le cose in realtà sono andate ancora peggio. Quando sarai al Nord, cerca di sapere la verità dagli amici. Noi abbiamo la certezza che dopo la partenza da qui verso Bastia, proprio il giorno di Pasqua, l’equipaggio si sia ammutinato ed abbia ucciso il Comandante Pucci Boncampi ed il suo secondo, per poi dirottare su Porto Santo Stefano, ancora in mano ai tedeschi. Spero solo che la Kriegsmarine ed i nostri della Decima MAS giudichino questo delitto con il senso d’onore e giustizia che abbiamo tutti noi che combattiamo in mare – disse Francesco sorseggiando il caffè.
Caro Attanasio, sono passati i tempi in cui si combatteva secondo le regole d’onore. Senti questa. Non molte miglia a ponente da qui, è stato affondato il Roma. Mentre i battelli di soccorso tedeschi partiti da Tolone e Portofino portavano in salvo gli ultimi naufraghi della nostra nave da battaglia, un Liberator dei nostri attuali alleati si è abbassato e ha mitragliato ripetutamente gli idrovolanti ed i battelli tedeschi con le vistose insegne della Croce Rossa. Speriamo che tutto questo finisca presto – concluse Carminati con una nota di tristezza nella voce.
Il soffitto del piccolo quadrato era illuminato da strani e mobili riflessi del sole che si specchiava nell’acqua a fianco della motosilurante. Terminarono il caffè immersi nei loro pensieri, in un complice silenzio rotto solo dai lontani gridi dei gabbiani. Più tardi Carminati suggerì a Francesco di buttarsi in cuccetta. Riposati un po’. Stanotte ti voglio di guardia con me mentre navighiamo verso Bastia. La piccola cabina del Comandante della MS 74 non era certo il massimo della comodità, calda e mal ventilata, ma Francesco cadde subito in un sonno profondo e inquieto.
Signore! Signore!
Francesco sentì una mano che gli scuoteva la spalla con una certa energia.
Mi scusi signore, ma sono le 19.00 ed il Comandante Carminati mi ha incaricato di svegliarla. La aspetta a cena dalla “Maria” alla Maddalena tra mezz’ora. Mentre si prepara le faccio accostare sottobordo la motobarca per andare in paese.
La luce dorata del tramonto illuminava la piccola cabina della motosilurante quanto bastava per far scoprire a Francesco che nello sgabuzzino adiacente alla cabina c’era anche una doccia e ne approfittò. Mentre si asciugava con un ruvido panno che lo svegliò definitivamente, sentì il rumore di un piccolo diesel che rallentava il suo ritmo. Infilatasi la sua giacca borghese salì in coperta. Il marinaio che lo aveva svegliato gli fece strada per imbarcarsi sul mezzo che aveva accostato sulla sinistra presso la biscaglina e poi scese dopo di lui.
– Scosta, ordinò il vecchio sottocapo che stava al timone al marò che teneva la motobarca accostata alla MS 74.
Francesco sedette su una delle panche mentre l’asmatico Diesel riprendeva il suo ritmo lento che faceva vibrare il vecchio scafo di legno.
– Signore, ho l’ordine di accompagnarla fino dalla “Maria”. E’ un po’ fuori dall’abitato, ma ci si mangia bene.
– Grazie disse automaticamente Francesco al giovane marinaio, che evidentemente aveva voglia di chiacchierare ed era palesemente curioso di sapere chi fosse il borghese che veniva trattato a parigrado dal suo Comandante.
– Vedrà che trenette al pesto prepara la Maria! Già, trenette al pesto pensò Francesco, rivolgendo un anonimo sorriso al suo interlocutore. Chissà quando avrebbe potuto mangiare di nuovo le trenette della sua mamma, a Genova…
Ad occidente banchi di nuvole dai fantastici profili erano incendiati dalla calda e mutevole luce del sole appena sotto l’orizzonte. Quella era l’ora che “ai naviganti intenerisce il core”, o almeno così gli sembrava di ricordare tra le vaghe reminiscenze scolastiche. Stavano navigando lungo le banchine dell’Arsenale.
Francesco vide un gruppo di motosiluranti inglesi o americane, alcuni mezzi da sbarco ed una corvetta italiana dalla quale arrivavano le note dell’ammainabandiera. La motobarca stava superando il fanale già acceso della diga di Punta Chiesa, quando fu superata da un sommergibile in uscita dalla base, il cui scafo nero si muoveva, inquietante come una creatura degli abissi, nel sommesso brontolio del Diesel. Gli sbarramenti retali tesi tra la Punta Chiesa e l’isola di Santo Stefano si erano aperti per far uscire il battello, che lentamente passò accanto alla motobarca mentre sul pontone guardiaporto il picchetto di guardia rendeva gli onori.
Sulla torretta del battello, un ufficiale, forse il comandante, rispose al saluto portando il palmo della mano alla visiera del berretto. Appena fuori dalle rotte di sicurezza si sarebbe immerso per la sua missione di guerra. Forse l’ultima, pensò Francesco. In quel momento altri uomini stavano salpando sulle loro navi o decollando sui loro aerei, verso missioni di guerra nel Mediterraneo, nel Mare del Nord, nell’Oceano Atlantico o nel Pacifico, in Europa o in Asia.Tutti uomini che cercavano conforto nei propri pensieri. Sapevano che tra poche ore si sarebbero trovati in azione e che molti di loro non sarebbero tornati. Forse poche ore prima molti di loro avevano dato notizie a casa mordicchiando un mozzicone di matita, non sapendo cosa scrivere nelle loro lettere. Molti avranno pensato alle mogli e ai figli e avranno scritto con gli occhi umidi di pianto, cercando di tracciare le parole adeguate ad esprimere i propri pensieri. Gli innamorati si saranno sforzati di dire ciò che un tempo avrebbero sussurrato. I padri avranno esortato i figli ad aver cura delle madri se fosse accaduto il peggio.
Anche Francesco aveva scritto lettere che non sapeva se avrebbero mai raggiunto i destinatari, i suoi genitori, su al Nord. Non era facile spiegare i propri pensieri. Suo fratello minore era entrato da tempo in Marina come lui e le ultime notizie erano che, promosso allievo guardiamarina, era imbarcato su una dragamine agli ordini degli Alleati. Era riuscito a vederlo un paio di volte a Taranto. Francesco si sentiva in parte responsabile della decisione del piccolo Filippo. Già, per lui, come per la mamma, Filippo era sempre “il piccolo”.
Immerso in questo genere di pensieri, mentre guardava l’orizzonte, capì che se fosse morto in azione, quell’azione che lo aspettava l’indomani al Nord, non si sarebbe mai potuto sposare con la sua Consuelo e non avrebbe mai avuto figli. In vita sua non aveva mai avuto occasione nemmeno di considerare lontanamente questa possibilità. Aveva avuto qualche piccolo flirt negli anni del liceo, un paio di ragazze con cui ballare negli anni dell’Accademia, ma non aveva mai desiderato con tale intensità una donna dalla quale tornare al termine della giornata e un figlio a cui raccontare le favole, e non certo ricordi di guerra. La voce del sottocapo, che con la mano destra teneva salda la vibrante barra del timone, risvegliò Francesco dai suoi pensieri:
– Signore, siamo arrivati.
La motobarca, con un leggero maestrale di prora che la faceva lievemente beccheggiare, avendo superato la boa della cala Gavetta e l’abitato della Maddalena, si profilava nella splendida luce della notte già trapunta delle prime stelle.
A mezzanotte, la MS 74 uscì silenziosamente dalla rada della Maddalena, seguita dal caccia Maestrale con a bordo i due MTSM. Appena fuori dal ridosso di Spargi, il maestrale si fece sentire e al traverso di Razzoli, sulla rotta di sicurezza, incrociarono una Mas di rientro. Carminati fece chiedere con la lampada Aldis il nominativo.
– MAS 544 in rientro da Bastia fu la risposta lampeggiata dalla piccola unità che si allontanava verso Sud.
– Tu volevi sapere del 505? Io vorrei sapere del 541, che ormai è sparito da tempo. Dopo la partenza da Bastia non se ne hanno più notizie, nemmeno dai comunicati del nemico o dalle intercettazioni.
– Certo che è proprio sfortunata questa Quinta Flottiglia MAS! A questo punto c’è da augurarsi che siano finiti onorevolmente su una mina. Erano diretti ad Arenzano, vicino Genova, per sbarcare dei sabotatori destinati a minare un viadotto che i bombardieri alleati non erano riusciti ancora a buttar giù. La grossa motosilurante spinta dai potenti Diesel procedeva a venti nodi con un fastidioso mare al traverso.
Le onde che il maestrale aveva sollevato, nella sua corsa dalle coste della Provenza, nell’imbuto delle Bocche di Bonifacio avevano alzato la cresta, che adesso frangeva al mascone della MS 74. Francesco, imbacuccato in una cerata, in plancia accanto a Carminati e al timoniere, ogni tanto abbassava la testa per non essere investito dagli spruzzi. Lo scafo procedeva in un alternarsi di profondi beccheggi e rollii, ricadendo ritmicamente e pesantemente nel cavo delle onde.
A dritta, a circa mezzo miglio di distanza, la sagoma nera del Grecale navigava visibile solo per il biancore delle cappellate che prendeva fendendo le onde. All’alba del giorno successivo erano in vista di Bastia. Avevano navigato seguendo le rotte di sicurezza di recente dragate lungo la costa orientale della Corsica. Dopo le Bocche di Bonifacio il mare si era calmato. Prima di arrivare a Bastia, alla prima luce del sole che sorgeva e metteva in risalto il lontano profilo dell’isola d’Elba, avevano visto partire dagli aeroporti costieri centinaia di Fortezze Volanti B17, che faticosamente prendevano quota e circuitando in larghe spirali si riunivano in stormi diretti a Nord, cariche di bombe destinate alla Francia occupata e purtroppo, alla Val Padana.
Entrati in porto, il Grecale ormeggiò alla diga foranea, lontano da occhi indiscreti, mentre la MS74 si affiancò alle motosiluranti e alle motocannoniere americane ed inglesi, nella darsena sotto le case variopinte del vecchio borgo. Appena ormeggiati, Francesco si fece prestare una tuta da lavoro, per nascondere i suoi abiti borghesi, e scese a terra. Per sbarcare chiese il permesso di attraversare il ponte di un paio di motosiluranti americane.
Rispose al saluto e all’invito di un giovane ufficiale sorridente, che indossava un’approssimativa divisa che solo il cappello identificava come appartenente all’US Navy. Francesco, si soffermò a guardare quella piccola unità a lui sconosciuta e a salutarne la bandiera. Quattro lanciasiluri, quattro mitragliere da 20 mm e otto da 12,7, bombe in profondità e per buona misura quattro rampe lanciarazzi in coperta a prora, oltre ad un radar che la Regia poteva permettersi solo sulle unità maggiori. Si sentiva a disagio in abiti civili anche se nascosti da una tuta della Marina con le stellette. Erano otto anni che indossava l’uniforme e ormai anche la sua maniera di camminare e di muoversi era quella della Marina.
Superato il leggero sbandamento che accompagnava sempre i primi passi a terra dopo una seppur breve navigazione, si inoltrò per gli stretti vicoli sui quali si affacciavano piccole botteghe con povere cose e balconcini fioriti di gerani, carruggi come quelli della sua Genova. Ascoltava la gente, nel suo curioso chiacchiericcio misto di toscano, francese e genovese. Dopo aver girovagato un po’ per la cittadina, verso mezzogiorno entrò in una spoglia ed affollata osteria. Si sedette ad un tavolo sovrastato da antiche volte e mangiò pane e formaggio corso con un bicchiere di vino rosso ed aspro. Mentre soddisfatto si puliva la bocca con un tovagliolo di carta, udì alle sue spalle una voce familiare, che lo riportò per un attimo a bordo della sua MTSM 544 sulle coste della Dalmazia.
– Abbiamo affondato un bel po’ di motozattere tedesche ed una motonave da 10.000 tonnellate, ma se non fosse stato per quel tenente pilota che ci ha riportato a casa con la sua Cicogna, a quest’ora saremmo a sbiancare le ossa al sole di quella maledetta isola! …terminò con enfasi il nocchiere Carmelo Patanè, pontificando in mezzo ad un gruppo di marinai italiani che, seduti ad un tavolo in fondo al locale lo ascoltavano con reverente atteggiamento. Francesco si sentì gelare. La sua missione era segreta, ma per uscire avrebbe per forza dovuto passare al banco per pagare ed il suo ex secondo lo avrebbe sicuramente riconosciuto. A quel punto era meglio affrontare la situazione subito. Si alzò e si diresse verso il gruppo.
– Ehi, Patanè,! Ma dove sei imbarcato? E’ un pezzo che non ti vedo! Stai raccontando le tue avventure?
– Minchia, signor Tenente! Che piacere rivederla! – accennò il nocchiere, ma prima che potesse continuare, Francesco lo prese per un braccio e disse:
– Patanè, per cortesia, aiutami a portare a bordo un pacco che debbo ritirare qui vicino.
– Subito, signor Tenente! e lo seguì al banco poco distante, dove l’oste aspettava con il conto.
– Allora, dove sei imbarcato?
– Sul Grecale, signor Tenente. Sono incaricato della manutenzione dei due MTSM che abbiamo a bordo e che abbiamo imbarcato a Taranto. Peccato che non ci sia il vecchio 544 che abbiamo lasciato sul fondale della baia di Lavsa – disse Patanè, poi soggiunse a bassa voce:
– Credo che si stia preparando un’azione. A bordo ci sono il Tenente di Vascello De la Penne ed altri vecchi operatori della Decima.
– Lo so e non lo so. Patanè, sai che devi tenere la bocca chiusa!
– E lei Tenente, come mai è qui? – disse il nocchiere, guardando di sottecchi con curiosità la tuta di Francesco, dal cui collo spuntava una cravatta decisamente “borghese”. – Non mi dica che sotto le stellette ci sono nuovamente i gladi?!? Come a Brioni e Porto Buso!
– Quasi, Patanè. Ma sono a Bastia per una missione di collegamento con le autorità civili francesi.
Francesco prese per un braccio Patanè e guardandosi attorno aggiunse a voce bassa: – Cose riservate! Politica! – mentì, meravigliandosi per la facilità con cui si era inventato una copertura.
– Adesso devo rientrare in ufficio, ma mi ha fatto molto piacere rivederti. Arrivederci Carmelo!
– Ma, quel pacco che doveva portare a bordo? domandò stranito Patanè.
– Ciao di nuovo, Carmelo. Non preoccuparti e non chiacchierare troppo, specialmente di cravatte, stellette e gladi…
Francesco si avviò per una stretta stradina che scendeva al porto. Forse a bordo della MS 74 con un po’ di fortuna avrebbe trovato un’altra cuccetta libera.
La stanchezza, come al solito, lo perseguitava. Ormai era diventata una costante della sua vita. Durante la navigazione dalla Maddalena a Bastia non aveva dormito chiacchierando con Carminati, in plancia alla motosilurante. Probabilmente, se fossero partiti appena calata la sera sarebbe stata un’altra notte in bianco, oltretutto scomoda sulla dura coperta della MTSM.
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