Virgin Atlantic Challenger II – Per il record inglese, trasmissioni ed eliche italiane.
di Antonio Soccol
Disco verde: secondo le previsioni meteorologiche è arrivato il momento. Si può partire.
Virgin Atlantic Challenger II si stacca dalla banchina. L’ultimo a saltare a bordo è Peter Macann, l’operatore della Bbc: è il sesto uomo dell’equipaggio. Sono le cinque e mezzo del mattino. La luce è stirata, pallida. I colori faticano a definirsi. A bordo gli uomini si guardano in faccia, un po’ impacciati, un po’ nervosi. La lunga attesa di oltre dieci giorni per aspettare le migliori condizioni meteo li ha un po’ offuscati. Si dice che New York non dorma mai. Forse è vero, ma ora gente in giro ce n’è poca: i moli del porto sono praticamente deserti. E c’è anche un gran silenzio. Rotto solo dal borbottio dei due diesel da duemila cavalli ciascuno dello Challenger II. Sfilano i grattacieli di Manhattan e appare la statua della Libertà.
Chay Blyth è ai comandi. La sua qualifica è di “senior crewman and decision maker”. Chay, l’oceano lo conosce bene: vent’anni fa, ventiseienne, l’ha attraversato a remi in novantun giorni, in compagnia del suo compagno d’armi John Ridgway. Poi, nel 1970, ha fatto il giro del mondo in barca a vela senza fare mai scalo e nel 1973 ha vinto la “Round the world race” alla media generale di 7,82 nodi. Chay aumenta dolcemente il numero dei giri dei motori. Adesso siamo sui milleseicento rpm (rotazioni per minuto) e la velocità della barca si aggira sui trentadue nodi: le temperature stanno salendo regolarmente. A poche miglia di prua si staglia, in pieno controluce, la sagoma dell’Ambrose Light Vessel, il faro di New York.
Là inizia l’oceano e là inizia anche la straordinaria avventura del Virgin Atlantic Challenger II, un motor yacht da ventidue metri che pretende di strappare al transatlantico United States, il Blue Riband, il trofeo Nastro Azzurro per la più veloce traversata dell’Atlantico. I termini del confronto sono agghiaccianti: 301,25 metri contro 22,02; 53.329 tonnellate di stazza contro quaranta; mille uomini di equipaggio contro sei. Manca il parametro della potenza motrice perché quella della nave americana è un segreto militare. Il 3 luglio 1952, l’United States coprì il percorso in ottantadue ore e quaranta minuti tenendo una media sulle 2.949 miglia di 35,67 nodi (quasi sessantacinque chilometri all’ora). E questo è il record da battere.
Sono le sei del mattino. Mancano circa due miglia per essere all’altezza del faro. Chay lascia i comandi allo skipper della barca, l’uomo che più di ogni altro ha voluto questa impresa, il trentacinquenne Richard Branson che ha investito quasi quattro miliardi di lire per riportare in Gran Bretagna il Nastro Azzurro. Branson controlla le temperature, si aggiusta nei particolari sedili anatomici che ospiteranno per tutta l’impresa l’equipaggio (non ci sono letti a bordo), guarda i compagni.
C’è sicurezza nei gesti di tutti. I sorrisi non sono stereotipati per la cinepresa della Bbc, ma autentici: vengono da una intima convinzione, da una sicurezza, da una grossa determinazione. E Richard Branson è soddisfatto, con gesto dolce ma deciso abbassa le manette del gas e la barca vola in avanti: 1800… 1900… 2000… 2100 rpm, pieno regime. Con gli 8.860 litri di nafta che sono stati caricati, la velocità è di poco superiore ai cinquanta nodi. L’ Ambrose Light viene raggiunto in un attimo: quando la barca lo sfiora, l’orologio segna (local time) le 6.03 di giovedì. In Gran Bretagna sono le 11,03 (ora legale): bisogna arrivare a Bishop Rock entro le 21,43 di domenica.
L’avventura è iniziata: questa volta Davide deve correre più di Golia. Il mare è calmo. C’è solo un po’ di onda lunga. Roba di nessun conto sia per la barca che per l’equipaggio. Nelle due poltroncine davanti, Richard Branson e Chay Blyth dispongono ciascuno di un volante per tenere la rotta, mentre fra i due sono posizionate le manette del gas: è un sistema molto comodo per la guida perché permette di alternarsi senza dover cambiare posto, senza creare confusione a bordo. Dietro a loro vi sono altre poltroncine; una è per Peter Macann, l’operatore della Bbc, un’altra è per Steve Ridgway (il più giovane, trentaquattro anni) che viene definito “versatile all rounder“, un uomo buono per ogni incarico.
La terza era riservata a Peter Downie, quarantanove anni, capo meccanico: l’anima della barca. Ma Peter non è a bordo dello Challenger II: nelle ultime prove s’è fratturato una gamba. C’era mare grosso. Un volo e una brutta ricaduta, un orrendo crack, un urlo di dolore. «Sono stato imprevidente», il suo unico commento. E la fine, per lui, dell’avventura.
Al suo posto siede Eckhard Rastig, il motorista capo della Mtu. Sghemba rispetto alle due di prua, c’è un’altra poltrona: quella di Dag Pike, il navigatore che per il suo lavoro gode del meglio della moderna tecnologia: radar, satellitare, contatto radio quasi continuo con il quartier generale a Londra, telex. A terra, nel grande ufficio del quartier generale dell’impresa, ricavato dal Virgin Megastore di Oxford Street a Londra (con i suoi 2.250 metri quadrati, il più grande negozio d’Europa di dischi), un computer provvede al resto del lavoro.
A bordo tutto è tranquillo. La barca naviga veloce sul mare calmo. Sono previsti complessivamente tre rifornimenti in oceano che saranno effettuati da tre navi. Sono stati chiamati Rendez Vous, e quindi per sintesi Rv. Rv1 è situato a cinquecentoventisei miglia da New York, all’altezza di Halifax in Nova Scotia. Fin qui la navigazione, secondo le previsioni meteo, non dovrebbe dare alcuna preoccupazione.
I problemi si incontreranno invece fra Rv1 e Rv2 che si trova settecentodieci miglia più a nord- est e quindi a 1.236 miglia dalla partenza. Fra la Nova Scotia e Terranova ci sono nebbia fittissima e icebergs. Sarà un “bel divertimento” ma è il rischio da pagare se si vuol avere poi un oceano abbastanza calmo, e quindi la possibilità di camminare a piena velocità.
Richard Branson lascia il volante e fa scorrere i suoi pensieri accarezzato dal rumore regolare dei motori. Onesta volta tutto era iniziato con una telefonata a “Sonny” Levi. Era la fine di settembre dello scorso anno. Erano passati circa due mesi dall’affondamento del Virgin Atlantic Cliallenger I, il grosso catamarano costruito dai cantieri Cougar per il primo tentativo di record.
La barca era stata costruita molto velocemente, erano stati installati anche allora un paio di motori diesel da duemila cavalli ciascuno e per le trasmissioni i tecnici si erano rivolti a “Sonny” Levi che aveva proposto un paio di eliche di superficie: in luglio del 1985 fu tentato il record. A centotrentotto miglia dall’arrivo la barca era affondata. Era notte e nessuno, nemmeno il LIovd Register, aveva potuto escludere che la causa fosse stata l’impatto con un relitto: tant’è vero che l’assicurazione aveva pagato il danno.
Così, in settembre, Branson aveva cercato Levi:
Vorrei sapere la tua opinione su una nuova barca per il record dell’Atlantico
aveva esordito Branson. Pur avendo solo trentacinque anni, il manager inglese si muove con tutta la disinvoltura di chi, partendo da zero, ha messo insieme in soli quindici anni un capitale personale di oltre trecento milioni di sterline (circa settecentoventi miliardi di lire) ed è abituato a dirigere qualcosa come cento aziende (musica e dischi, night club, compagnie di volo) in ventidue Paesi.
Voglio sapere se preferisci progettarmi un catamarano o un monocarena. Pensaci e richiamami.
Sonny ci aveva pensato poco, qualche ora, poi lo aveva richiamato.
Credo che vi siano più possibilità di battere il record costruendo un monocarena
aveva detto.
Un catamarano su mare calmo e, a parità di potenza, più veloce di una barca normale (monocarena) perché l’ala che unisce i suoi due scarponi produce un effetto di sostentamento aerodinamico e questo è come se riducesse praticamente il peso effettivo della barca. Ma un catamarano che debba sopportare il mare agitato ha notevoli difficoltà.
Non voglio avere troppe incognite in questo problema» aveva detto Levi. «Del comportamento di un moncarena sappiamo tutto: è una X in meno nella complessa equazione da risolvere. E poi non è detto che un monocarena debba necessariamente camminare meno di un catamarano, specie se deve esser caricato con almeno quattordici tonnellate di nafta e deve essere sufficientemente robusto (e dunque pesante) per reggere l’oceano.
Alla fine di ottobre i disegni costruttivi erano già pronti e Peter Birkett era stato nominato “co-designer” con l’incarico di seguire presso i cantieri Brooke Yachts Ltd la costruzione.
Il varo ufficiale si era svolto il 15 maggio alla presenza della “Her Royal Highness Princess Michael of Kent”, cioè della moglie di Michele di Kent, cugino della regina Elisabetta. Nella seconda metà di maggio la barca era stata sottoposta ai collaudi più severi e si era scoperto che camminava più del vecchio catamarano: oltre cinquanta nodi a medio carico e planata immediata con tutti i serbatoi colmi, cioè con quattordici tonnellate di nafta.
Levi era stato preciso nelle sue previsioni sino al decimale di nodo. Per l’applicazione dei due prototipi delle trasmissioni Ldu, Levi aveva lasciato al team la decisione: con freddezza aveva illustrato i vantaggi e con altrettanto distacco aveva ricordato che si trattava di un prodotto mai collaudato su potenze di quel genere.
Quello che funziona sulla carta o con la spinta di due-trecento cavalli può anche non funzionare in accoppiata con motori da duemila cavalli
aveva detto. E invece tutto funzionava a meraviglia: la barca non solo aveva una splendida velocità ma governava docile, molto meglio di un tradizionale motor yacht. E, a vederla camminare sul choppy sea, su quel mare disordinato (i viareggini lo chiamano “mare ignorante”) che si trova sempre sulla Manica, era uno spettacolo: dava una sensazione di sicura potenza, ispirava garanzia. Come tutte le barche di Levi, era molto più bella nella realtà che non nel disegno.
Balenaaaaa a prua…
L’urlo di Chay scuote bruscamente l’equipaggio. A cinquanta metri da prua è apparsa improvvisa una balena. Ha una mole terrificante. E come se uno scoglio fosse apparso di colpo in mezzo al mare. Chay Blyth ruota vorticosamente la timoneria, la barca risponde, si inclina leggermente e cambia rotta, ma la distanza è minima e la velocità è tale che un impatto sarebbe disastroso.
L’abbiamo evitata proprio per pochissime yarde,
trasmette a terra Richard Branson e la notizia finisce in prima pagina dei giornali londinesi.
Ecco sul radar Rendez Vous 1. È ancora lontano. Ora sono le venti secondo il Bst, cioè il British Summer Times, l’ora legale inglese. Ma qui in mare sono le quindici ed è ancora giorno pieno. Sinora la barca è stata un violino: la media parla chiaro, si viaggia oltre i quarantacinque nodi.
Sono le ventidue e trenta Bst quando il contatto con la mini petroliera in attesa è stabilito: la media è di 45,93 nodi (oltre ottantacinque chilometri all’ora), il vantaggio sull’United States è di tre ore e quarantatre minuti. Adesso arrivano nebbia, icebergs e notte: più il tempo che si perderà per fare rifornimento. E questo tempo è drammaticamente lungo. Si devono caricare diecimiladuecento litri di nafta: dovrebbero bastare quaranta minuti, invece se ne perdono cento. Il grande vantaggio permette qualche lusso, ma bisogna stare attenti: gli sprechi si pagano sempre. Si riparte: l’orologio fissato sul Bst segna le 00,10′.
La seconda tappa è di settecentodieci miglia: dovrebbero bastare circa diciassette ore. Branson e Blyth rimangono ai comandi, il resto dell’equipaggio a turno sta a prua per avvistare eventuali icebergs. I più pericolosi sono quelli che sembrano piccoli, che appena si vedono. La guida è faticosissima per la tensione:
We are all very tired. The crew are up front looking out for icebergs,
trasmette Branson. La notte è piena di spettri, di incubi. Ogni onda sembra un ostacolo improvviso, sconosciuto: sarà una balena, sarà un iceberg ? Gli occhi dei sei uomini si stancano a guardare nel buio. Solo il rumore regolare benché assordante dei motori serve per tranquillizzare.
La velocità scende, ma di poco: si riesce a marciare sul filo dei quarantuno-quarantadue nodi. Ma la stanchezza è sempre più forte. Per fortuna non c’è bisogno di fare molto slalom fra gli icebergs. Sorge il sole: è uno spettacolo splendido. Mare e luce, oceano e fuoco che ferisce gli occhi, che brucia come una ferita. Ma l’effetto sul morale è incredibile: la stanchezza scivola via. Il breakfast non è proprio in perfetto stile inglese: bicchieroni di glucosio e caffè bollente.
Sul radar un punto: le coordinate coincidono: 47 gradi e 36 primi Nord e 47 gradi, 2 primi e 49 secondi Ovest: è Rv2, il secondo punto di rifornimento. Virgin Atlantic Challenger II giunge sottobordo alla piccola petroliera alle diciassette e ventotto Bst. Ha coperto la distanza in diciassette ore e diciotto minuti, filando 41,04 nodi sul tratto. La media generale a quel punto è di 42,99 nodi ed il vantaggio sul tempo impiegato dall’United States è di oltre cinque ore e un quarto: niente male, davvero, piccolo Davide.
È importante che mantengano questo vantaggio
dice al quartier generale Peter Deeks, responsabile delle previsioni meteorologiche, e aggiunge:
Si sta innestando una perturbazione che non mi piace per niente: ma dovrebbe concretizzarsi dopo il passaggio della barca.
Il pieno è fatto con rapidità: 14.725 litri di nafta vengono imbarcati in meno di quaranta minuti. Alle diciotto e otto il Virgin Atlantic Challenger II molla gli ormeggi da Rv2 e riparte nuovamente verso est a pieno regime. La visibilità ora è ottima e il mare è calmo: solo ogni tanto qualche onda ricorda che siamo in pieno Atlantico. Passano i minuti: cinque, sei, sette. Tutto è sotto controllo. Rv2 è ormai un puntino all’orizzonte, lontano sei miglia a poppa via.
Poi, all’improvviso, i motori si spengono. Tutti e due. Insieme. Il computer di bordo non denuncia nessuna avaria. Tutti gli impianti funzionano regolarmente.
Eckhard Rastig si scaraventa in sala macchina. Ha un solo indizio: qualcosa che accomuni tutti e due i motori, e li blocchi insieme: non può esser che il carburante. Affannosamente Eckhard stacca un filtro e lo porta fuori sul pozzetto: acqua.
C’è acqua nella nafta che ci hanno dato
urla. E si precipita nuovamente in sala macchina. Stacca anche il filtro del secondo motore mentre Steve Ridgway gliene passa due di nuovi prelevandoli da quelli di scorta.
Prova a ripartire
I motori ripartono. Sorriso.
Veloci che ci rimettiamo in rotta
ordina Blyth. Ma dura pochi secondi. I motori si spengono di nuovo.
Ma quanta acqua ci hanno dato?. «Non so. Tanta». «Cosa facciamo?». «Richiama Rv2 e fallo venir qui a tutto gas». «Quanti filtri di scorta abbiamo?». «Pochi».
Rv2 ora sembra che debba arrivare dall’infinito: i suoi venti nodi di velocità sembrano grotteschi. Passa mezz’ora prima che la nave sia sottobordo di nuovo. Caricare è facile, il contrario è un dramma: i tubi di scarico dei serbatoi sono di un diametro ridicolo rispetto a quelli di carico.
Ci vorranno almeno sei ore e poi bisogna rifare nuovamente il pieno: se riusciamo a perdere complessivamente meno di otto ore è un miracolo,
sentenzia Tim Powell, capo del quartier generale di Londra.
Datemene un bicchiere, chiede Branson. «Voglio vedere quanta acqua e quanta nafta. E poi voglio portarlo a terra.». La proporzione è presto fatta: quattro tonnellate di acqua e otto di nafta. Poveri motori. Addio record? «Non mi arrendo di certo»
dichiara Branson.
A Londra stupore e incredulità. Com’è possibile? Ma la nafta non è della Esso che è sponsor dell’impresa? Sì, ma la Esso è anche americana e gli americani non vogliono perdere il record.
E’ incredibile. Rod Vickery, uno dei collaboratori più stretti di Branson, dichiara alla stampa:
We cannot rule out the possibility of sabotage.
Una delle ragazze del quartier generale, la più punk di tutte con la sua cresta di capelli tutta rossa e borchie di metallo anche sulla pelle, scoppia in lacrime. A Londra cala la notte. In oceano si continua a scaricare acqua e nafta sul Rv2: 14.725 litri, non finiscono mai. È quasi mezzanotte quando tutto è fatto. Nuovo rifornimento da un’altra cisterna “sicura” e si riparte all’inseguimento dell’United States che nel frattempo è passato in vantaggio di oltre tre ore. Per evitare altri guai è stato imbarcato al volo Stephen Lawes, uno dei jolly durante la costruzione di Virgin Atlantic II, e inviato, a suo tempo, di guardia su Rv2.
Ora a bordo c’è un sacco di lavoro da fare e la stanchezza incomincia a farsi sentire in modo durissimo.
La prossima tappa è la più lunga: Rv3 si trova infatti a ottocentonovantadue miglia. L’oceano abbandona il suo aspetto pacioso e un vento di circa dieci nodi incomincia a soffiare proprio di prua. Non è grave per una barca come il Virgin Atlantic II, però quando si è in difficoltà e in affanno tutto da più fastidio. A terra si fanno calcoli su calcoli:
Dovete cercare di raggiungere Rv3 entro le due (Bst) di questa notte per avere ancora qualche possibilità di farcela,
trasmette Tim Powell. Dalla barca la voce di Branson comunica i nuovi sviluppi della situazione:
Siamo nei guai. L’acqua ha intriso la speciale resina di cui sono foderati i nostri serbatoi e adesso la sta sputando fuori. Dobbiamo fermarci ogni quindici minuti a cambiare i filtri. Non abbiamo più filtri di riserva: utilizziamo quelli già usati dopo averli messi ad asciugare sopra ai motori. Ma non può durare a lungo: abbiamo assolutamente bisogno di filtri nuovi. E tanti, anche.
Il fantasma di United States – Golia è molto avanti e si allontana sempre più.
A Londra è sabato mattina. Chi vende questi benedetti filtri? Non lo so, cerchiamo. Si, però oggi è sabato e il negozio sarà chiuso. Non importa, lo facciamo aprire: We are very sorry, sir, but we need some filters. Venite lunedì mattina in negozio. No, ci servono adesso, Ce ne servono dieci per il Challener II. Ah bene, eccoli.
Di corsa all’aeroporto. Il pilota del Cessna aspetta. No, non preoccuparti: mentre tu voli, noi ti procuriamo l’autorizzazione ad atterrare sul campo d’aviazione militare della Raf. E parte il piccolo Cessna per la base più occidentale della Raf. Non fa nemmeno tempo ad atterrare che già i piloti militari gli strappano di mano i dieci filtri e li infilano entro un contenitore stagno cui è appeso un piccolo paracadute.
Il Nimrod è già in pista con i motori in pre-riscaldamento. Tim Powell, via radio da Londra, raccomanda:
State attenti, quei filtri sono preziosi. Il Virgin ha questa posizione stimata, ma continua, nonostante tutto, ad avanzare. È probabile che sulla zona ci sia nebbia. Tenete gli occhi aperti.
E quelli della Raf, che con i Nimrod sono abituati a “beccare” i periscopi dei sottomarini, di rimando con timbro molto secco: «Yes sir, lo troviamo» e meno di due ore dopo il Virgin si vede paracadutare a venticinque metri dalla sua rotta i fondamentali pezzi di ricambio.
Scende la sera. L’equipaggio si prepara per 1’ultima notte in oceano. Il mare si è ingrossato. Con i nuovi filtri la navigazione è più regolare, ma comunque ogni ora bisogna fermarsi a cambiarli. L’ombra dell’ United States, del grande Golia, è ancora a prua del piccolo Davide la cui velocità è sui quarantadue nodi ma la cui media viene duramente penalizzata dai molti stop.
Rv3 questa volta è una nave militare irlandese. Richard Branson torna ai comandi del suo Virgin Atlantic Challenger II. Il meteo dà onde fra i due e i tre metri e mezzo. Vento sui venti nodi. «Adesso mi devi dare tutto quello che hai», dice Branson rivolgendosi alla sua barca e apre tutto il gas. Davide ruggisce sotto la spinta totale dei suoi quattromila cavalli. Nel buio, entrare a quarantotto-quarantanove nodi entro onde di cui è impossibile a priori calcolare dimensione e “spessore” ci vuol coraggio. Ma certamente bisogna anche e soprattutto avere una totale fiducia nella barca.
Lo scafo decolla nelle sezioni di prua e poi, splash dentro al mare, dentro alle onde scure e misteriose. Il boato dei motori si frange contro il rumore degli impatti dello scafo d’alluminio con il mare. E la barca vola. Man mano che la nafta viene consumata, lo scafo è più leggero e la velocità aumenta. Virgin Atlantic Challenger II è una barca da quaranta tonnellate: ogni impatto, a quelle velocità, comporta stress sull’ordine di due, quasi tre G . A sette G si muore, tanto per esser chiari. Per l’equipaggio è come essere sotto la pressione di un martello pneumatico: ma la spinta delle due eliche di superficie è costante. Lo specchio di poppa non si stacca dall’ oceano.
Quando le eliche sono in aria, non c’è spinta e la barca perde velocità:
è una vecchia regola di Levi. E vale ancor di più per le barche spinte da eliche di superficie. E il gruppo Ldu, che Levi ha montato su ciascuno dei motori, dispone proprio di eliche di superficie. E un criterio che consente, in pratica, di eliminare gli attriti di appendice dati dalle trasmissioni tradizionali e di avere così una velocità maggiore, a parità di potenza, fra il diciotto e il venti per cento.
Virgin Atlantic vede ormai nel suo radar la nave irlandese che lo attende: manca circa un’ora all’ultimo appuntamento. L’aereo della Raf segnala a terra la sua posizione precisa: la distanza fra la barca e Rv3 è di quarantotto miglia. Branson apre tutto. Le onde sono ora di circa due metri. Il tragitto viene coperto in cinquantotto minuti: una media parziale nell’ultima ora superiore ai quarantotto nodi! «Hanno viaggiato like a bomb», dichiara Levi.
Tim Powell da Londra dà ordini precisi al comandante della nave irlandese:
Vi trovate davanti un equipaggio stanchissimo. Dovete fargli capire che devono eseguire assolutamente le nostre decisioni anche se non le condividono perché noi le abbiamo prese a mente lucida e dopo una attenta valutazione di tutta la situazione fatta da me, da Levi e da Deeks per quanto riguarda il meteo.
Dovete caricargli millecinquecento litri di nafta di più di quella prevista e devono cambiare rotta. Devono deviare a nord per una dozzina di miglia, riportarsi poi in una rotta parallela alla precedente e quindi rientrare verso sud dopo circa cinquanta miglia.
Così facendo allungheranno il percorso di circa trenta miglia ma troveranno condizioni meteo più favorevoli: per l’equipaggio più che per la barca. E, per favore, fate presto: siamo ancora sotto alla tabella di marcia della United States. «Nafta come zavorra, per far saltare meno la barca»,
spiega Levi.
La nave irlandese vede arrivare il Challenger II proprio come una bomba. All’una e due minuti i tubi di carico sono già innestati. Vengono trasbordati bottiglioni di glucosio sciolto, panini e altri filtri di scorta: non si sa mai. L’operazione è fatta a tempo di record: dodicimilatrecento litri vengono riforniti in trentatre minuti. All’una e trentacinque il piccolo Davide si ributta all’inseguimento di Golia: il distacco è di un’ora e sette minuti (poco meno di quaranta miglia) e ci sono ancora settecentoquarantasei miglia per colmarlo.
Ormai non c’è più profonda differenza fra l’ora di bordo e il Bst: nella sua corsa da ovest a nord est, il Virgin ha passato cinque fusi orari. La leggera deviazione di rotta consente ora di non avere più vento e mare di prua: la barca e soprattutto l’equipaggio soffrono molto meno. L’andatura è meno faticosa, ma nessuno si sogna di dormire e poi comunque fra Branson e Blyth c’è una specie di gara a chi spinge di più: la media non scende mai sotto ai quarantadue nodi. Sei ore e quarantasette minuti dura ancora l’estenuante inseguimento. Il leggero allungamento del percorso lo ha ritardato un po’. E poi non è facile recuperare oltre un’ora di ritardo su un transatlantico che fila a quasi trentasei nodi, il più veloce transatlantico di tutti i tempi.
Alle otto e ventidue minuti (Bst) il Virgin Atlantic Challenger II sfila sottobordo al fantasma dell’United States, e lo supera. Mancano 464,628 miglia al faro di Bishop.
Gli abitanti delle isole Scilly non possono proprio far nulla per venirci incontro e avvicinarci il loro faro?
Branson ha ancora la forza di scherzare, via radio, col quartier generale di Londra. Il tono della sua voce è cambiato. Si sente che la grande paura di non farcela sta scomparendo «Voglio Levi in linea», chiede. «Pronto Sonny, voglio dirtelo ora: sono contentissimo di questa barca: hai fatto qualcosa di incredibile: una barca semplicemente fantastica».
Superato un fantasma è ora da fare i conti con il secondo. Con quello del catamarano affondato tredici mesi fa. Passano le ore. Il clima diventa proprio english: pioggia, cielo scuro, nuvoloni, choppy sea. Ad un certo momento arriva anche la grandine.
Mancano duecento miglia: la stanchezza sta distruggendo le residue forze dell’equipaggio. Dag Pike comunica una posizione, un punto-nave, inverosimile: è l’indice che a bordo incomincia a mancare la lucidità. I contatti radio sono continui. Si cerca, parlando, di tenere svegli gli uomini. Sono tre giorni e tre notti che non si concedono un attimo di riposo. Viene chiesta la collaborazione ai francesi: al di là della Manica esiste infatti un centro computerizzato che decodifica tutti i rilevamenti in mare fatti dal satellite Argos. Si scopre così che il Virgin sta avanzando un po’ a zig zag.
La stanchezza mi impedisce di leggere gli strumenti di navigazione,
confessa Dag Pike.
Riusciamo a tenere un regime superiore ai millenovecento rpm, camminiamo insomma oltre i quarantacinque nodi, ma sembra che la distanza non diminuisca mai
sostiene Branson. Il vento soffia contro, la corrente di marea a favore e in più c’è una grossa risacca di fondo: un vero rebus.
Alle sedici e quattordici il Virgin Atlantic Challenger II si disfa del secondo fantasma. Passa, infatti, in piena efficienza il punto, a centotrentotto miglia dall’arrivo, dove l’anno scorso era naufragato il primo tentativo di record per l’affondamento del catamarano Cougar. E adesso manca poco davvero per vincere il Blue Riband.
Branson si mette con la testa fuori dalla cabina.
Non posso vedere molto perché c’è un forte vento. Però distinguo il faro di Bishop. E’ simpatico: oltre venti piccole vecchie pilot boats delle isole Scilly ci stanno venendo incontro. Sopra di me c’è l’elicottero Agusta di Michele di Kent. Manca meno di un quarto di miglio al faro e penso che ce la faremo…
Le parole arrivano al quartier generale smozzicate dal rumore dei motori, del vento e delle onde. Appaiono improvvisamente bottiglie di champagne dappertutto. Il modellino della barca viene posto al centro del tavolo da carteggio del quartier generale. La ragazza punk cava di tasca un nastro azzurro e lo porge a Tim Powell. Alla radio, Branson, riprende:
He have fifty more yards to go… forty more yards to go… thirty more… twenty more yards… ten more yards… I am glad to say that the Blue Riband returns to Britain.
Sono le diciannove, trentaquattro minuti e trentacinque secondi. Il fantasma della United States è ancora in oceano, a oltre settantasei miglia: gli mancano due ore, otto minuti e venticinque secondi per arrivare al faro di Bishop. Davide ha vinto.
Da New York arriva una dichiarazione di Frank Braynard, direttore del American Merchant Mari-time Museum, dove viene conservato il prestigioso trofeo:
II trofeo non si muove da qui. La barca di Branson è un veloce giocattolo da diporto: peserà al massimo cinque tonnellate. Non è confrontabile con un transatlantico da oltre cinquantatremila tonnellate e non avrà il trofeo che è riservato alle navi di linea.
Un jumbo della Virgin Atlantic (la compagnia aerea di Branson che ha voli quotidiani con New York, Miami e l’Europa) sorvola il faro di Bishop e porta il suo saluto al nuovo record.
Branson lo guarda e soffia sulla polemica: l’impresa gli è costata un milione e mezzo di sterline ma gliene ha già resi circa cinquanta milioni in pubblicità.
È logico che il guardiano del Museo di New York non abbia voglia di mollare il trofeo: è l’unica cosa che ha. Comunque ho già incaricato i miei legali di impostare la causa per avere ciò che abbiamo vinto.
E, tanto per confermare, estrae anche lui un grande nastro azzurro e lo attacca alla barca. Nel suo entourage si dice che voglia creare un Virgin Trophy a favore di chi batterà il suo record: un modo come un altro per continuare a farsi fare della pubblicità.
Antonio Soccol
Box:
Virgin Atlantic Challenger II è uno scafo costruito in lega leggera dal cantiere Brooke Yachts di Lowestoft (Suffolk) a nord di Londra, specializzato nella costruzione di motovedette militari. Il progetto è di Renato “Sonny” Levi, un ingegnere italo-inglese, che è stato coadiuvato nel seguire la costruzione da Peter Birkett, ex capo dell’ufficio progettazione del cantiere Cougar, costruttore nel 1985 del primo Virgin Atlantic Challenger.
Levi ha disegnato un monocarena, cioè uno scafo di linea “tradizionale” con carena a V: il diedro allo specchio di poppa è di 20°, molto simile cioè a quello di un normale motor yacht da diporto. La spinta viene garantita da una coppia di motori diesel tedeschi della MTU che sviluppano ciascuno una potenza di duemila cavalli a 2100 giri al minuto. Si tratta del modello V12 396TB93 turbo-compresso che, secondo la ditta di Friedrichshafen, consuma 143,7 grammi di nafta per cavallo all’ora.
A bordo vi sono quattro serbatoi da 3,13 tonnellate e uno da 1,2 tonnellate: complessivamente la barca può dunque imbarcare 13,72 tonnellate di nafta, cioè oltre 16.300 litri per una autonomia di quasi mille miglia marine (1852 chilometri). La stessa quantità di nafta farebbe percorrere ad una automobile più di 200 mila chilometri. I motori azionano due eliche di superficie incorporate nei gruppi LDU (Levi Drive Units) che raccolgono anche i tubi di scarico e la timoneria e che sono stati costruiti in Italia dalla MTS di Milano.
Le eliche di superficie si differenziano da quelle tradizionali perché si trovano sullo specchio di poppa e il loro mozzo collima con la linea di galleggiamento dello scafo. Spingono, pertanto, solo per la metà immersa nell’acqua mentre l’altra metà ruota nell’aria e non produce alcuna propulsione.
Questa perdita teorica viene però ampiamente recuperata dall’assenza di superfici d’attrito immerse, in particolare dai grossi assi-porta eliche che, nelle trasmissioni tradizionali, escono sul fondo della carena e “rubano” oltre il venti per cento di potenza con la loro resistenza all’avanzamento. I timoni sono del tipo semi intubante: si possono definire due tubi tagliati a metà e privi della parte inferiore. Comandati dall’alto, consentono di guidare il getto delle eliche nella direzione voluta e di governare pertanto con molta semplicità lo scafo.
Le eliche sono state fuse in bronzo dalla ditta SBM di Monza su disegno di Renato Levi : sono a cinque pale, hanno un diametro di quasi un metro e pesano centoquaranta chili l’una. Virgin Atlantic Challenger II è lungo 22,02 metri e largo 5,82. Durante il tentativo di record la sua grande cabina (quattro metri di larghezza per cinque di lunghezza) è stata utilizzata come magazzino per pezzi di ricambio, vitto eccetera.
Il costo di costruzione della barca (motori compresi) si aggira sul milione di sterline: quasi due miliardi e mezzo di lire. Un altro mezzo milione di sterline è costata l’organizzazione del record. Un investimento complessivo di circa tre miliardi e seicento milioni di lire che, secondo gli esperti, ha reso in pubblicità almeno trenta volte tanto.
Articolo e box apparsi sulla rivista Mondadori “Panorama Mese” diretta da Claudio Sabelli Fioretti nel mese di ottobre 1986. Sono qui riportati per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Gentile Massimo,
anche se non lo abbiamo scritto nell’articolo di riferimento, stiamo cercando di avere notizie più precise in merito alla sorte di questa straordinaria barca, oltre a sapere della nuova proprietà, visto che il precedente armatore è venuto meno.
Appena avremo novità in merito, lo comunicheremo, possibilmente con immagini.
Grazie per averci scritto.
Cordiali saluti
Giacomo Vitale
fino agli inizi degli anni 2000, Virgin Atlantic II era nel cantiere di Beaulieu S/M, poi è stata portata via.
piacerebbe anche a me sapere che fine ha fatto.
se qualcuno avesse notizie, sarebbe bello se le pubblicasse
Bellissimo articolo,
ora però ho delle domande che spero possano avere una risposta, la prima: dove è finita questa bellissima imbarcazione Levi?
La seconda è più una provocazione: ma Richard Branson è a conoscenza dell’ultima e geniale idea di Renato “Sonny” Levi del Ram Wing 100 Levi? (Superyacht del futuro: 100 metri, 100 nodi – Levi Ram Wing)
Non sarebbe male immaginare una nuova avventura Virgin e proprio con gli stessi attori di allora e portare il famoso Trofeo Nastro Azzurro dell’Atlantico in Inghilterra!!!
Richard Branson… mi raccomando, Altomareblu deve avere l’esclusiva :)
Alex