Novantanove barche (quinta ed ultima puntata)
di Franco Harrauer
WINDCAT – ELIOCAT
Sempre spinti dalla morbosa curiosità che caratterizza i progettisti, sin dai tempi dell’Exocetus e degli armamenti velici sperimentali sul modello di questa imbarcazione, insieme a Renato Levi eravamo arrivati alla conclusione che la vela era una “pessima macchina energetica”. A tal proposito voglio ricordare un curioso episodio che può spiegare l’approccio ingegneristico e le perplessità che avevamo nei confronti della vela.
In una delle regate della Giraglia partecipava per la prima volta l’Hermitage , un Prima Classe Rorc di 20 mt, progettato da Levi. In partenza da Tolone, sull’allineamento di partenza, con vento da levante a regime di brezza, l’Hermitage era a pochi metri sottovento del mio Benbow e io, al timone, lo vedevo che, una mano alla caviglia della ruota, l’altra alla manovella del winch, un occhio al ripetitore dell’anemometro e allo speedometer, era assorto nei suoi calcoli mentre una decina di barche ci stringevano nella bagarre in attesa del colpo di cannone. Guardavo solo i due segnavento ed ero preoccupato che il Mait ci venisse addosso a buona ragione, essendoci sopravento.
Al colpo di cannone, bene o male riuscimmo a districarci da quel mare di alberi e scafi e arrivammo al traverso dell’isola di Porquerolles ancora in mucchio molto poco ordinato, ma tutti tesi a guadagnare mezzo nodo rispetto agli avversari. La differenza tra i nostri due modi di regatare stava nel nostro modo di valutare e sfruttare il vento. Renato aveva assoluta fede negli strumenti, io ne giudicavo l’intensità secondo il grazioso ondeggiamento di una calza da donna di seta fumée, appesa alla sartia sopravento.
Il giorno dopo arrivò per primo a San Remo il Mait, senza calze né anemometri. Hermitage e Benbow arrivarono alla pari in tempo compensato. Anche oggi una randa di un Dhow indiano non ha minor efficienza di un genoa o di una randa di un Twelve America’s Cup. Un ottimo sfruttamento del vento si ha con l’antica vela steccata delle giunche cinesi, con una geometria che ne controlla lo svirgolamento e l’incidenza, come viene realizzata sugli AC e ACC Class di ultima generazione.
Il mio amico e maestro John Illigworth, progettista del piano velico del vecchio Benbow che, come pilota della Royal Air Force, volava nel 1918 con un biplano Sopwith Camel, sosteneva a spada tratta la superiorità dell’armamento a yankee e Trinchettina al posto dei genoa, mentre, fresco del mio brevetto sul monoplano Avia FL 3, sostenevo l’efficacia dei grandi Genoa 1, 2, 3. L’epoca del biplano era tramontata! In effetti, le barche a vela progettate da Renato Levi e da me avevano pessimi piani velici tradizionali.
Nel 1948 avevo frequentato un corso di volo a vela presso l’Aereo Club di Rieti e da allora ho sempre fatto il paragone tra una randa, l’ala di un aliante e l’abisso d’efficienza tra le due superfici.
Ancora oggi le imbarcazioni, anche da regata, si muovono nel vento con una vela o ala simile a quella del Flyer dei fratelli Wright o del Canard di Santos Dumont: una tela tesa, una superficie senza spessore che ne racchiuda la struttura di supporto e generi il profilo portante. Credo che tutti i velisti si siano posti il problema dell’efficienza Ma qual è il vero problema? Un aereo in volo rovescio sta su per l’incidenza della sua ala e non per il suo profilo. La barca a vela non ha questo perché, mure a sinistra o a dritta, la sua incidenza automaticamente cambia con il bordeggio.
La vela è una pessima ala e se ne fosse dotata e potesse cambiare o invertire il suo profilo a ogni bordo, sarebbe un’ottima macchina energetica. Un’imbarcazione con un’ala di aliante a forte allungamento al posto dell’albero potrebbe navigare ottimamente solo su un bordo, fino a quando, con un semplice dispositivo, non si trovasse la maniera di variare il profilo da simmetrico ad asimmetrico e speculare sulle due superfici di entradosso e estradosso.
Elementare, Watson!!!
Possiamo pensare a un albero in posizione verticale o a un’ala a forte allungamento senza sartiame e di conseguenza senza windage. Le stecche o le centine sarebbero dei “coni ricurvi” o corni (horns) che possono ruotare sul loro asse di 90° a dritta o a sinistra, tendendo una calza o guaina realizzata con un tessuto elastico. Questa calza riveste tutta l’ala (albero e horns), dal bordo d’entrata anteriore a quello di uscita (all’interno dell’albero o longherone cilindrico di carbon fiber scorrono i cavi di comando della rotazione dei corni): in porto o comunque all’ormeggio le quattro ali, abbattute orizzontalmente, costituirebbero un grande “tendale”. L’abbattimento e l’orientamento delle ali potrebbe essere realizzato con attuatori idraulici.
La particolare forma degli scafi speculari renderebbe superflue le superfici di deriva, come nel cat Arawa, mentre i timoni potrebbero essere retrattili o a superficie riducibile. La piattaforma ideale è dunque un catamarano di circa 20 mt di lunghezza per 10 mt di baglio o scafi tipo slender con rapporto L/l=10/1 dotati di bulbo anteriore piatto a sezione elissoidale per minimizzare i moti di beccheggio ai quali il catamarano è più sensibile. Il ponte utile è di circa 170 mq tra aree coperte e scoperte. Quindi, con una volumetria equivalente a quella di un motoryacht momocarena di circa 25 mt di lunghezza, considerando che i locali motori, i serbatoi dei carichi liquidi, i servizi (cucine ecc.) e i locali equipaggio possono essere sistemati nei due scafi.
Dovrebbe essere noto che il catamarano non è una barca larga… è semplicemente corta!
Dal punto di vista teorico o ingegneristico, il sistema Eliocat sarebbe la soluzione perfetta per la navigazione a vela, ma la tentazione dell’energia solare è troppo forte per non approfittare delle grandi superfici alari che opportunamente orientate, oltre alla funzione propulsiva, possono ospitare circa 220 mq di pannelli fotovoltaici del tipo flessibile sufficienti per tutti i servizi di bordo oltre che, in misura significativa, per la propulsione e le manovre. La propulsione può essere realizzata con un banco di batterie “tampone” azionanti una coppia di elettromotori reversibili brushless a basso numero di giri, collegati a eliche intubate di forte diametro.
Ma è mia opinione che così potremmo ricadere nella complicazione e nella “dipendenza” dai bottoni. Ci siamo dimenticati che per il vino bianco è sufficiente la bassa temperatura di un modesto frigorifero a gas? Che lo scarico dei wc di bordo funziona sempre e bene con una semplice pompa a mano? Così come il rubinetto a pedale del lavandino o della doccia, che tra le altre cose ci fa risparmiare tanta acqua?
Certo è che se premendo un bottone possiamo avere l’aria condizionata, con un altro bottone possiamo sentire musica e notizie talvolta buone, con altri bottoni tentatori possiamo azionare il GPS o il telefonino? L’incubo dei messaggi e-mail anche in mare?
Io credo che alla fine con un bottone azioneremo i winch e gli attuatori per ammainare le ali e con un ultimo bottone inseriremo l’elettromotore che ci riporterà in banchina, prima del nostro vicino d’ormeggio.
“Allora, bottoni per bottoni…” dice il progettista, accarezzando il suo mouse e con il pensiero rivolto al sottomarino supercavitante americano da 300 Km orari, “è più bello e interessante e tecnologico il mio 100 nodi tipo Uccello Padulo con la potenza e l’energia non rinnovabile, tanto chi se ne frega di 5 o 10.000 KW!” Idraulico nazista! “Il legno non serve solamente per fare gli stuzzicadenti (riciclabili?).”
Il mastro d’ascia fenicio
In fondo alla profonda sacca del porto di Trapani dominata dal Monte Erice, esisteva e mi auguro esista ancora, un cantiere che costruiva barche da pesca di legno e usava fare le ruote di prua, i braccioli, i dritti e i madieri con lo “stortame” che i vecchi carpentieri andavano a cercare nelle foreste dell’Aspromonte o in qualche superstite quercia all’interno della Sicilia. Il prezioso legno veniva individuato, segnato, tagliato e poi stagionato in uno stagno di acqua salmastra presso le vecchie saline prima di essere sagomato a colpi d’ascia ed essere marcato per il suo destino strutturale. Questa marcatura è fatta con incisioni simili ai numeri romani. Scoprii poi che erano di origine orientale o araba, e corrispondevano alla posizione che io avevo disegnato sul piano di costruzione che giustamente definivo “piano dei legni” di una singolare imbarcazione che il cantiere Martinez & Cintura stava costruendo su mio progetto. Non era un peschereccio ma un Dhow, una tipica e antica imbarcazione a vela dell’Oceano Indiano.
Raramente, avevo fatto progetti di barche tipiche di altre civiltà e quando mi fu commissionato il progetto di Mangrovia, cercai di documentarmi sui materiali, i metodi di costruzione, l’armamento e l’architettura di questa straordinaria barca.
Fu a Trapani, in cantiere, che conobbi Helen Frost, una piccola indomabile donna inglese che davanti a una coppia di braccioli, con il mio piano dei legni sotto i suoi spessi occhiali da miope, ne confrontava la marcatura con quello che si vedeva in una foto che aveva scattato a Mozia davanti agli indecifrabili resti di un’antica nave fenicia che tentava pazientemente di ricomporre.
Le spiegai che nei secoli la tecnica delle costruzioni navali aveva fatto pochi progressi e che i segni sul suo prezioso reperto corrispondevano proprio a un pezzo che avevo disegnato per il dhow in costruzione e che aveva la stessa funzione per il carpentiere fenicio di molti anni fa… Si chiama “bracciolo” o fazzoletto, in inglese knee… In fenicio, non lo sappiamo…
Ma il nome in arabo (lo seppi anni dopo in Egitto), era mandil, come il mandillo con il quale i genovesi si soffiano il naso.
Orsa Maggiore, Shatan, Trifoglio, Victoria, G.Cinquanta, Barbarina, Migs, Surfury: sono progetti che hanno dimostrato la necessità, l’opportunità e la superiorità delle costruzioni navali di legno lamellare nelle imbarcazioni veloci o comunque quando il rapporto tonn/Kw è importante.
In questo tipo di filosofia progettuale è chiaro che il legno va utilizzato non secondo schemi tradizionali, cioè il fasciame tenuto in forma da strutture longitudinali secondarie e trasversali primarie, ma come rivestimento lavorante nel quale la forma geometrica è determinante per la resistenza alla flessione e alla torsione come nell’uovo, come nella cupola o nella fusoliera di un aereo.
Ringrazio il coraggio e l’intelligenza di Fazioli e di Sciallino: il primo per il concetto di struttura anulare sul Cronos, il secondo per l’impiego del legno in modo anticonvenzionale sul catamarano. Questi amici mi hanno dato fiducia per realizzare quello che Levi chiama unic selling point.
Negli anni Sessanta l’amico Colin Mudie disegnò e fece costruire da Souther qualcosa di strutturalmente simile: il monocarena News of the World.
Le uniche strutture longitudinali sono: l’intradosso e l’estradosso della piattaforma di collegamento tra i due corpi, oltre ai basamenti scatolati dei motori e i pattini di spigolo e di fondo; il fasciame è costituito da uno spessore variabile di lamellare in essenze di diversa consistenza su un core di balsa. In sostanza, una struttura geodetica costituita dalla fibra del lamellare!
Voglio arrivare alla conclusione che sarebbe possibile costruire e far volare un Airbus o un Boeing completamente di legno, se esistessero ancora maestri d’ascia e progettisti di yacht con una apertura mentale diversa. Purtroppo, l’industrializzazione del prodotto “barca“ ha accelerato la scomparsa di questa stirpe di scultori del legno.
Per la loro abilità e pazienza, il pensiero riconoscente di noi progettisti va a:
- Cesare Sangermani
- Fratelli Canale
- Guido Tujach
- Gino D’Este
- Zelindo Cozzani
- Luigi Mostes
- Mario Sciallino
- Fratelli Piccolo
- Mariano Craglietto
- Ezio Marchi
- Vincenzo Catarsi
- Allo sconosciuto carpentiere navale
- fenicio della nave di Mozia
Il legno non serve solamente per fare gli stuzzicadenti
Le carene Delta ed in genere tutte le altre sono state pensate e realizzate con i più disparati materiali come:
- leghe leggere
- ferro
- acciaio inox
- ABS
- resine e filati di vetro
- fibre di carbonio aramidiche
- tessuti gommati
tutti materiali che, direttamente ed indirettamente per la loro estrazione, composizione, utilizzazione e trasformazione chimica o termica hanno comportato grandi dispendi di energia. Inoltre, per il loro impiego è necessario taglio, fusione, saldatura o sagomatura, utilizzando altrettanta energia oltre a consumare ossigeno, generando gas nocivi e residui industriali ingombranti e indistruttibili.
Allo stato attuale dell’arte noi progettisti navali non abbiamo le conoscenze per analizzare questi fenomeni negativi e siamo suggestionati e manipolati dai media, più che dalle ricerche o dalle opinioni di chi professionalmente può dare giudizi ed indicazioni in merito.
Purtroppo ci dicono:
- fate le barche in plastica, così quando affonderanno costituiranno habitat per i pesci
- fate le barche in lega leggera, così poi ci faremo delle belle pentole
- fate le barche in ferro, così poi le mandiamo in fonderia per fare nuove automobili
- fate le barche di carta, così poi gli editori saranno contenti
- fate le barche elettriche, così tra l’elica ed il motore Diesel ci mettiamo anche un paio di tonnellate di batterie al piombo, un generatore di corrente ed un motore elettrico
- Non fate le barche… andate in montagna
Le nostre esperienze progettuali e di cantiere ci hanno insegnato che, per disegnare e realizzare carene leggere, elastiche e resistenti alle sollecitazioni delle grandi potenze e spinte richieste per le altissime velocità, nulla è meglio del legno essendo un nobile materiale al quale potrebbero essere applicati tutti gli aggettivi più belli che i media si inventerebbero a tale scopo.
La gradualità ed il dosaggio della resistenza, che ne gli altri materiali si ottiene con un reticolo di strutture primarie e secondarie o con l’inserimento sull’asse neutro di distanziatori in schiume o espansi, a cellula più o meno chiusa, può essere ottenuta con essenze vegetali di diverso genere, disposte diagonalmente in forma lamellare incrociata e con incollaggi a base di colle viniliche o meglio a base di caseina, così come si è sempre usato nell’industria aeronautica.
Realizzata la forma “maschio“ di supporto in legno comune, essa può essere impiegata per più esemplari realizzati in legno lamellare e ciò rende economica e semplice la produzione di un “one off” o di una piccola serie.
Nell’ordine che tiene conto del peso specifico e della resistenza vengono applicate a scelta e diagonalmente, lamelle di mogano, pioppo evaporato, cedro e balsa e poi in ordine inverso, sino al mogano che essendo lo strato esterno, può essere disposto anche orizzontalmente.
Uno dei vantaggi della balsa rispetto agli espansi a cellula chiusa è che queste cellule non sono mai completamente chiuse, quindi la loro elasticità, per effetto delle flessioni della carena, favorisce il fenomeno del pompaggio dell’acqua dall’esterno o dall’interno con conseguente aumento graduale del peso strutturale. Questo fenomeno non avviene con la balsa che, avendo la fibra ed i condotti capillari disposti in senso normale rispetto allo spessore, quando sono penetrati dai collanti, favoriscono l’ancoraggio tra i vari strati adiacenti impedendo la de laminazione.
Vorrei ricordare che nel 1940, in Inghilterra, la De Havilland progettò e costruì ben “seimilaquattrocentotrentanove caccia bombardieri bimotori Mosquito“. Questo famoso aereo fu costruito interamente in legno lamellare e balsa.
La mancanza di un “ginocchio” o spigolo molto accentuato, caratteristica delle carene Delta, cosi come la convessità di tutte le sue superfici, permette la laminazione in continuità dalla parte interna della battuta della chiglia, sino alla linea di cinta e volendo, fino alla coperta inclusa, riducendo cosi le strutture longitudinali primarie ai soli longheroni dei motori, al bottazzo di cinta, alla chiglia ed ai pattini.
Mogano, cedro, balsa, frassino, pino, cipresso, abete, spruce e pioppo fanno parte della vegetazione nativa delle foreste pluviali e delle zone temperate e pur essendo sicuro che qualche irriducibile ecologista storcerà il naso a queste mie osservazioni e convinzioni, questi nobili prodotti della natura, prima della loro utilizzazione, per anni ed anni hanno prodotto ossigeno ed assorbito anidride carbonica e seguitano a farlo nei loro inarrestabili cicli di riproduzione beneficiandoci di questa loro gratuita attività.
Vivo e lavoro in Brasile e conosco la realtà dell’Amazzonia ove da anni si tenta di collegare gli stati del centro con questa grande regione del Nord. Una grande superstrada si apre il cammino attraverso la selva, che si richiude inesorabilmente dietro di essa nell’intrico rigoglioso di una grande varietà di essenze. L’ utilizzazione del legno non consuma o sottrae significative quantità di energia e non produce esalazioni nocive. La sua eliminazione finale, come prodotto residuo di lavorazione, può produrre calore ed energia con la sua combustione pulita.
In questo tipo di filosofia progettuale è chiaro che il legno va utilizzato “non secondo schemi tradizionali”, cioè fasciame tenuto in forma da strutture longitudinali secondarie e trasversali primarie, bensì come rivestimento lavorante nel quale la forma geometrica è determinante per la resistenza ai carichi radiali, alla flessione e alla torsione come nell’uovo, come nelle cupole o come nella fusoliera di un aereo.
Renato Levi definisce “unic selling point” quei progetti innovativi che possono stimolare il mercato, indipendentemente dal momento emotivo – ecologico ed è mia opinione che si possono coniugare con un nuovo ed attuale schema propositivo; una grande piattaforma leggera e veloce che può essere prodotta con materiali ecologici, anche senza dover ricorrere al tipo di produzione industriale di serie. Insomma un “One off “ di serie, ma di nuova generazione.
Capisco bene le obiezioni dei cantieri e dei commerciali, il cui credo è “proponiamo ciò che il pubblico vuole”, ma in questo caso chiedo l’alleanza dei designer nella proposta di forme necessariamente diverse e anticonvenzionali, purché estremamente funzionali, che abbiano fondate giustificazioni e non ad imitazione delle nuove carrozzerie delle auto che assomigliano sempre di più ai mostri “transformer” dei cartoni animati.
Il concetto della piattaforma è un doppio o mono corpo (cat o monocarena), semi fusiforme di aereodinamica ed idrodinamica, molto efficiente in legno lamellare, nei cui assi convergono puntelli ed anelli scatolati e di forte spessore, corrispondenti nella zona centrale poppiera, alle ordinate di calcolo, in questo caso non meno di 200 mm, progressivamente distanziate verso prora.
Il fasciame è formato da uno spessore variabile di essenze di diversa consistenza su un “core“ di balsa. Semplificando, una struttura “geodetica“ costituita dalla fibra del lamellare di legno. Ho voluto sintetizzare e visualizzare questa nuova proposta in due progetti preliminari denominati: Xilocat e Xilocruiser.
Nel primo caso si tratta di un catamarano di circa 21 metri per 10 metri, con propulsione ad eliche semisommerse in grado di raggiungere una velocità di 30/35 Kn, con dislocamento a PC di circa 50 Tonn, valore di peso facilmente ottenibile con questo metodo di costruzione ed architettura.
L’area coperta utilizzabile per le cabine è circa il 40% del ponte e l’equipaggio dispone di alloggi servizi, dinette e cucina, nei volumi dei due scafi, per due suites (socialy correct) e due cabine, tutte servite da bagni.
Il ponte libero è di 100 mq, con un “patio“ aperto alle murate, caratterizzato da travi / baglio che possono sostenere una copertura mobile in tela.
A prua un alettone, che abbassato a livello del mare diventa una piattaforma da bagno, che controlla il flusso aereodinamico nel tunnel tra i due scafi.
Il secondo disegno propone un cruiser di 14mt x 5 mt, larghezza che potrebbe sembrare eccessiva, se non si tiene conto che al galleggiamento questo valore in realtà è di 4,10 mt. L’architettura è sempre quella del solido inscritto in un elissoide, con la differenza che, per esigenze di utilizzazione interna, alcuni elementi delle sovrastrutture sono in posizione asimmetrica .
Voglio arrivare alla conclusione che, se esistessero ancora i mastri d’ascia e progettisti con maggior apertura mentale, sarebbe possibile costruire e far volare un Airbus o un Boeing completamente in legno. Purtroppo l’ industrializzazione del prodotto “ barca“ ha accelerato la scomparsa di questa generazione di scultori del legno, mentre i progettisti della vecchia generazione sono in rapida estinzione.
Un pensiero riconoscente di noi tutti per la loro abilità e pazienza lo rivolgiamo a :
- Cesare Sangermani
- ai fratelli Canale
- Guido Tujach
- D’Este
- Cozzani
- Mostes
- Mario Sciallino
- ai fratelli Piccolo
- Mariano Craglietto
- Ezio Marchi
- Vincenzo Catarsi.
Gentilissimo Camillo,
con tutto il rispetto per i cugini americani in merito ai loro giudizi non li condivido affatto e le caravelle cui fanno riferimento, a mio modo di vedere, sono degli obbrobri e basta. Non voglio offendere chi se li compra, ma credo che poco capiscano di carene efficienti e di barche serie. Siamo nel tempo in cui i “furbacchioni” fanno delle cose orribili per metterle in evidenza pubblicizzandole come novità assolute, magari proprio perché sono dei veri cessi e creano così quella bolla di importanza nella quale cadono gli “ignoranti”, voce del verbo ignorare, che non conoscono ecc… ed il gioco è fatto.
Tuttavia, mi conforta sempre che esistono e sono vive e vegete barche come G50, Hidalgo, Speranzella, Delta 24, Delta 28, Delta 38, Mini Drago, Drago, Drago Commander, Settimo Velo, Speranza, Super Speranza, Synthesis ecc. tutte in lamellare d mogano e con carene ancora oggi innovative e rimaste imbattute per tutto quello che tecnicamente esprimono nelle loro prestazioni straordinarie. In questi giorni, girando per cantieri ho visto un gran numero di barche di dimensioni comprese tra i 40′ ed i 60′ e ti assicuro che le carene sono tutte orrende…
A circa 30-40 ed in alcuni casi 50 anni circa dalla progettazione e realizzazione delle barche sopra nominate, Renato “Sonny” Levi resta un pioniere straordinario per il suo intuito e genialità come progettista, a cui aggiungo Franco Harrauer e GB Frare… Gli altri dimostrassero, progetti alla mano e prove in vasca idrodinamica, se le loro creazioni sono in grado di reggere il confronto con le carene dei progettisti citati o addirittura essere migliori… ma ho molti, troppi dubbi in merito e sempre a mio modo do vedere, la realtà è veramente triste.
Grazie per averci scritto.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Carissimo Giacomo,
condivido completamente, il legno è superiore al carbonio per molti aspetti, sarebbe bello vedere più barche in legno, magari sportive… e sopratutto non c’è cultura nautica in Italia dove le barche vengo pensate solo come oggetti di lusso. La nautica italiana sarebbe una delle più grandi al mondo nel settore, mentre si parla solo di Fincantieri.
Credo sia questo il transformer di cui si parla nell’articolo. I dati della barca sono che ha una coperta in carbonio e 2x420hp, è dinamica, veloce, ma sempre in totale controllo e con un occhio di riguardo all’ambiente, introvabili il dislocamento, la velocità e anche il prezzo, oltretutto pare che le vendite vadano benino.
Ecco a cosa pensa il famoso Designer in questione quando progetta:
“Of course, all yachts are phallic symbols and each one’s worth depends on its stamina, strength and the ability to ‘go on’ for as long as possible”
Le altre barche premiate dalla rivista americana solo il Wally Power e il Frausher, entrambi sembrano usciti dal film in bianco e nero “A qualcuno piace caldo”.
Meno male che vedo sempre nuove barche dalla linea aggressiva, qui su questo sito!
Un cordiale saluto.
Camillo
Grazie per il gradito apprezzamento e siete sempre voi lettori il nostro ago della bilancia, severi, attenti ed in larga parte competenti ed informatissimi.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Gentile Camillo,
hai assolutamente ragione, visto che sono un acerrimo difensore delle costruzioni di scafi e perché no, di aerei in lamellare di mogano. Non a caso Renato “Sonny” Levi è un ingegnere aeronautico e fu lui a progettare e far costruire la “A’ Speranziella” e tutte le barche famose a seguire, realizzandole con questa tecnica aeronautica che è molto contenuta nel peso, ma meccanicamente straordinaria poiché ha una resistenza alle varie sollecitazioni tremende a cui è sottoposta una barca, specialmente quando naviga con mari formati ed insidiosi.
Ovviamente, una funzione di rinforzo in tali costruzioni è costituita anche dai longitudinali che l’ing. Levi ha sempre progettato in due parti: profilato massello di mogano a sezione quadra e compensato di mogano da 12 mm forato ed incollato con resina epossidica, contenuta nel peso, per conferire a tutta la struttura della barca una resistenza formidabile. I nuovi materiali come fibre di carbonio, abbinate alle resine epossidiche superano meccanicamente i valori del lamellare di mogano da 6 mm di spessore, incollato ed incrociato a 45° in quattro strati, ma hanno altri limiti..
Il guaio è che oggi artigiani capaci di realizzare costruzioni di scafi in lamellare di mogano o altre essenze, sono quasi inesistenti e dati i costi assurdi, solo italiani, del lavoro e tutto i balzelli che questi nostri nefasti governanti mettono sull’industria e sulle imprese artigiane, rendono tale realizzazione non competitiva economicamente, quindi non seguita dai cantieri attuali che costruiscono solo in VTR e che critico comunque ferocemente per le immani porcherie di barche e carene da surf che realizzano per una utenza purtroppo “ignorante” e spesso dotata del quattrino facile.
Mancano di cultura marinaresca e finalizzati solo allo status-simbol in cui la barca deve avere inverter con impianto a 220 V, televisione con satellitare, impianto stereo HI-FI, quattro cessi, scaldabagno, arredamento di lusso da villetta sul mare e che poi non capiscono una mazza di navigazione, come si manovra, come si affronta il mare formato, cosa fare e cosa non fare in determinate situazioni, come ormeggiare, come gestire la sicurezza a bordo di una barca ecc. ecc…
La lista di tutto quello che non sanno fare questi “signori” è lunga.. D’altra parte gravi responsabilità in merito le hanno tutti quei cantieri che oggi sono in crisi e che hanno sempre ragionando secondo una logica commerciale bestiale: diamo ai clienti quello che ci chiedono, anche se poi quello che realizzano è un ferro da stiro o una porcheria simile e basta vedere certe carene ferme nei cantieri poste in rimessaggio per capire quanto ho appena descritto.
Scusa la mia ferocia in merito, ma questa è la situazione drammatica della nautica attuale che è stata gestita dai soliti furbetti arricchitisi al momento delle vacche grasse… lascio a te ed alle persone intelligenti ogni considerazione del caso.
Grazie per averci scritto!
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Articoli sempre interessanti! Anche i commenti!!
Questo tipo di costruzione non rispetta una regola della produzione industriale, e cioè che il prodotto si deve rompere per poterne vendere un’altro, mentre il processo di stagionatura del lamellare legno epossidica continua per anni migliorando addirittura le qualità strutturali.
Carissimo Comandante Pietro Passalacqua,
ricevo sempre con grande piacere notizie di mie vecchie barche e specialmente dei trawlers costruiti da Mostes, dei quali conosco solo l’esistenza di un esemplare che naviga dalle parti di Salerno o giù di lì, oltre a quello che negli anni ottanta faceva porto di armamento a Lavagna e che credo si chiamasse con il nome originale di “Milù”.
Vorrei scrivere un articolo sulla storia e lo sviluppo di questo tipo di imbarcazione che a mio giudizio è la maniera giusta e attuale di andar per mare. Credo che Lei abbia letto su AltoMareBlu un mio articolo in argomento. Adesso vorrei ampliare il tema con nuove fonti di informazione.
Le sarei grato se potessi avere una foto della sua barca e notizie sulle sue navigazioni tra le isole della Dalmazia che conosco molto bene e che può inviare a info@altomareblu.com alla mia attenzione.
Manteniamoci in contatto tramite Giacomo Vitale e AMB.
I miei più cordiali saluti,
Franco Harrauer
Sono il fortunato armatore di un trawler da Lei progettato e costruito dai cantieri Mostes di Ge-pra nel 1970, il Twentyone che ho acquistato nel 1988.
Sono un vecchio macchinista navale e anche marinaio. La barca è in perfette condizioni con impianti continuamente aggiornati. Mi vanto di avere un suo progetto e guai chi me la tocca fin che campo. Attualmente è al Nautec Mare di Monfalcone. Mi auguro che il governo si renda conto che barche in legno, costruite in maniera quasi irripetibile, oggi debbano essere premiate.
Complimenti Architetto
Cap. Pietro Passalacqua
Gentile Alessio De Luca,
abbiamo provveduto a girare all’arch. Franco Harrauer il su commento incluse tutte le foto che ci ha inviato e la sua risposta è la seguente:
La carena del Meltemi 54 è un mio progetto ma dall’esame delle foto mi pare proprio rimaneggiata. ,
La lunghezza di progetto era di 14 metri e credo che ne siano stati costruiti due esemplari con motori montati originariamente in V Drive.
Evidentemente la carena è stata allungata, ma non credo da Tormene e probabilmente i motori sono stati montati in linea per creare una cabina a poppa dei medesimi ( ? ) con tre oblo’ inesistenti all’origine e incompatibili con una sala motori. Le prese d’aria erano quadrangolari, così come gli oblò. Cio’ ha alterato negativamente l’assetto idrostatico della carena. I motori del prototipo, se ben ricordo, eano dei GMD Detroit V Drive.
Mi dispiace che questa dilettantistica trasformazione abbia pregiudicato un buon progetto.
Un cordiale saluto all’armatore e qualora richieda una mia eventuale collaborazione professionale per riportare il tutto a norma del mio progetto originale, sono a disposizione.
Cordiali saluti,
Franco Harrauer
Giacomo Vitale.
Gentile signor De Luca,
nel confermarle che abbiamo ricevuto il suo commento, la informiamo che abbiamo provveduto a girarlo personalmente all’architetto Franco Harrauer che le risponderà su Altomareblu. deve solo avere qualche giorno di pazienza.
Personalmente non ho mai visto da vicino la barca a cui lei si riferisce, ma se ci invia qualche foto della stessa all’ormeggio non farebbe male ( può inviare le foto a info@altomareblu.com) potremo darci un occhio… Circa il fatto che la barca sia appruata quando è all’ancora, potrebbe trattarsi di una cattiva disposizione degli interni oppure dei serbatoi… Qualche foto aiuterebbe a capire…
Cordiali saluti,
Giacomo
Buongiorno Architetto, ho comperato un imbarcazione costruita dal cantiere Tormene di Padova e tra non molto tempo comiceremo a restaurarla.
Da quanto ho appreso dal cantiere, sembrerebbe che questa barca, Meltemi 54 dell’83, in lega leggera (Peraluman)sia figlia della matita dell’archietto Harrauer.
Ho chiesto al cantiere documenti e progetti ma sembra non esserci nulla.
Come posso fare?
Sono interessato all’argomento per diverse ragioni: credo e sono fermaente convinto, dopo aver navigato nel Quarnaro infuriato, che l’imbarcazone sia eccezionale oltre che rassicurante e penso che la sua linea e comportamento in acqua non sia facile a trovarsi. Tutti aspetti che richiamano l’attenzione di chi ne entra in contatto. la barca ha una linea interessante e dominante. Non passa mai inosservata.
Tutti elementi che la rendono interessante non solo per me che la possiedo, ma anche per le persone che la guardano e all’occasione mi fermano per chiedermi se la barca era una ex motovetetta o se la stessa abbia a che fare con la marina militare, oltre al fatto che ogni persona con la quale entro in contatto, alludono, quasi intuendo per qualche ragione, magari legata alla all’esperienza o alla semplice sensazione, sulla sua tenuta in mare. Cosa che io naturalmente dopo averla testata posso certamente confermare.
Altro aspetto che ritengo una ragione valida per risalire alla paternità dell’imbarcazione, è il fatto che non capisco la motivazione per la quale una barca come questa, dotata di linea elegante e dominante, dalla tenuta in mare invidiabile, sia afflitta, per così dire, da un appruamento che penalizza la vivibilità degli spazi generosissimi che possiede, a barca ferma, ma che in un certo qual modo mi sembra ragione di penalizzazione nelle prestazioni in mare, comunque già eccellenti, ma che ritengo potrebbero essere molto migliori.
il motivo del refit/ammoderamento che inizieremo tra non molto, toccherà anche l’assetto della stessa, al fine di alzare la prua di qualche grado per guadagnare migliore vivibilità a barca ferma e stabilità maggiore in navigazione per l’equipaggio stesso, da non toglire il fatto che dovrebbe migliorare il tempo d’entrata in planata e una riduzione dei consumi.
Sperando in un suo contatto , al fine di chiarire il mio dubbio sulla paternità della stessa, indicatami dal cantiere costruttore e al fine di capire se l’appruamento della stessa è dovuto ad una volontà progettuale o ad una applicazione del progetto in modo approssimativo/personalizzato, volontario o meno per ragioni di coostomizzazione durante la costruzione, colgo l’occasione per augurare a tutti
buona navigazione.
De Luca
Arch. Harrauer
la conosco certo… se può considerarsi conoscenza il seguire la materia oggetto della sua attività professionale su libri di tecnica navale, come semplice appassionato ed il suo lavoro di anni mediante articoli apparsi su riviste specializzate. Insomma, tutto ciò che i mezzi di informazione e diffusione del sapere oggi consentono.
Avendo compreso la sua abilità che ho avuto modo di approfondire, la ammiro, come stimo e ammiro allo stesso modo l’ attività di Sonny Levi i cui progetti seguivo quando da bambino recandomi ad Anzio per trascorrere le vacanze con i genitori, spinto dalla forte passione passavo ore dietro la recinzione del Cantiere Canav dove prendevano forma le idee del geniale ingegnere, non immaginando neanche chi fosse: l’ho scoperto anni dopo…
Quindi Arch. Harrauer, non c è trucco e non c’è inganno, ma passione per il mare le barche e le idee che sul mare galleggiano e navigano bene. Sono coinvolto in qualità di armatore, si immagini il coraggio con questa congiuntura economica, come lei fu in qualità di co-progettista ai tempi di Giada con il cantiere Catarsi. Vincenzo, con la mia barca sta cercando di completare l’ evoluzione della sua carena anche in termini di pura velocità di punta, senza penalizzare le prestazioni in termini di seekeping.
Il lavoro è importante ed ha coinvolto il cantiere insieme all’armatore ed in qualche momento di difficoltà Vincenzo ha parlato con ammirazione di lei. Sarebbe un orgoglio per me ed uno stimolo per il cantiere con il quale lei ha collaborato, sentire il suo pensiero su alcuni aspetti tecnici sul comportamento della carena del Calafuria divenuta dai tempi del Giada più sofisticata e con maggiori prestazioni in termini velocistici. E’ stato Vincenzo a dire: “qui ci vorrebbe Franco!” La conoscevo di fama e leggo ed apprezzando i suoi articoli da sempre le ho scritto.
Non so come contattarla privatamente, così come Vincenzo e mi piacerebbe farlo; le fornisco i miei riferimenti per ogni tipo di collaborazione anche a titolo oneroso, ovviamente a mio carico, che lei fosse disposto a fornire a me e a Vincenzo Catarsi, oltre ai lettori di Altomareblu. Posso inviarle le fotografie di ciò di cui le ho descritto della la barca, con maggiori riferimenti miei personali che preferisco scambiare con lei in privato.
Con stima per la sua professione e un pizzico di simpatia che il suo scrivere mi suscita sempre.
Massimo Callegarini
Eg. Sig. Massimo,
per una un principio di etica professionale non commento le scelte tecniche dei cantieri con i quali ho lavorato, con chi si nasconde dietro l’anonimato. Evidentemente Lei conosce il mio nome ed il mio lavoro, abbia quindi la cortesia di presentarsi e qualificarsi ed avrà esaurienti risposte ai suoi dubbi!
Cordialità,
Franco Harrauer
Arch Harrauer,
nel ringraziarla della sua risposta le riformulo, precisandone il contenuto, il mio quesito che alla mia stessa attenta rilettura è risultato equivoco: i guai della comunicazione online.
Le carene di Catarsi, che lei stesso definisce “ispirate” da imbarcazioni della U.S. coast guard degli anni 50, in realtà sono oggi completamente diverse e frutto della continua evoluzione che Catarsi ha elaborato negli anni. Le barche di Catarsi non sono dotate soltanto di “alette”: il Calafuria è un compromesso e, come lei penso possa convenire, una imbarcazione marina risulta soprattutto un buon compromesso valido per tutte le andature con ogni condizione di mare.
Nella sua evoluzione, il Calafuria, con l’aggiunta di appendici verticali alle estremità dei sovradimensionati pattini di sostentamento laterali, realizza una sorta di semitubo nel quale le due eliche sono racchiuse consentendo, nelle migliori realizzazioni, legate anche al bilanciamento dei pesi a bordo, un basso regresso.
Quando l’ imbarcazione è in planata e, come si dice in gergo, “sale sullo scalino” essa oggi esce dall’ acqua forse più delle altre imbarcazioni plananti restando in equilibrio trasversalmente in ragione delle famigerate alette che se non fossero adeguatamente dimensionate porterebbero la imbarcazione a coricarsi o su un fianco o sull’ altro, risultando le dette alette sormontate dall’ onda laterale, a seconda dell’ equilibrio dei pesi ma comunque a procedere diritta in forza delle due due chiglie delle quali di fatto la imbarcazione è dotata. Certo il Giada è si “un gozzo con le ali” ma non certo gli ultimi costosi prototipi Calafuria.
Concordo sul redan e sulle sue prestazioni, ma non è certo soluzione da applicare su carene per “ogni tempo”. Sono d’accordo con lei sul fatto che semiplanante, come semidislocante, siano parole che non esprimono alcun contenuto ed infatti il Calafuria oggi, plana, produce il baffo a prua e, “sale sullo scalino”. Ma vi è di più; dal punto di vista idrodinamico condivido pienamente che una poppa appuntita “che racchiude lo strato limite senza creare turbolenze” sia più efficiente come del resto è presente nelle fusoliere degli idrovolanti: oggi il Calafuria ha la poppa all’ opera viva appuntita.
La barca, inoltre, mantiene la poppa tonda soltanto nell’ opera morta come i rimorchiatori;ciò impedisce all’ onda di poppa di sospingere a lento moto l’ imbarcazione che comunque per sua natura tende ad avere una prua piuttosto alta e cioè piuttosto “marina”. Queste sono, io credo, sommariamente, le caratteristiche del Calafuria, compromesso per eccellenza, barca marina ogni tempo, progetto che Catarsi, da quel che ho potuto apprezzare, ha sempre continuamente migliorato lavorando più sull’ esperienza che sui modelli teorici.
Il compromesso di Catarsi secondo me è quasi al livello degli intercettori di Frank Kowalsky. Non quindi su Giada mi permettevo di attirare la sua attenzione ma, bensì, le chiedo un giudizio tecnico e dettagliato con disegni, se possibile, visto che è la cosa che apprezzo di più, sulle carene di Catarsi l’ unico a parer mio che negli ultimi anni ha continuato in Italia a sperimentare. Ai saloni nautici in Italia ho smesso di andarci. La ringrazio anticipatamente della attenzione che vorrà dedicarmi.
Massimo
Gentile Massimo,
sulla carena Calafuria riconfermo quanto scritto su “99 barche”. La carena e stata disegnata dall’americano G.Calkins negli anni ’50 per l’US Coast Guard, per permettere ad una carena dislocante di entrare in planata. Ovviamente è una soluzione di compromesso che richiede sempre un rapporto Peso/Potenza elevato. Vincenzo ha applicaro a poppa due alette che essendo sommerse non compensano l’incremento della superfice bagnata (coefficiente di attrito).
Vincenzo si incazzava quando gli dicevo che la carena semiplanante “NON ESISTE” e dal punto di vista idrodinamico era più efficente una poppa appuntita (che richiude lo strato limite senza creare turbolenze) e un redan trasversale con una altezza di pochi centimetri, come avevamo sperimentato sull’Exocetus.
I disegni di idrodinamica, idrostatica e di struttura sono proprietà del Cantiere e del sottoscritto, ma Vincenzo può inviare al nostro lettore dei disegni pubblicitari di compartimentazione.
Franco Harrauer
Arch. Harrauer,
condividendo con lei la stima per uno dei pionieri della nautica, Vincenzo Catarsi (oltre che di Cesare Sangermani). Gradirei avere la sua opinione sulla carena del Calafuria, anche e soprattutto nelle ultime più recenti versioni prodotte. Ritengo la carena Calafuria il miglior compromesso “made in Italy” tuttora esistente che consente di navigare con ogni condizione di mare.
Malgrado l’ età del progettista, Catarsi è ormai ottantenne, egli ancora continua pur con qualche difficoltà economica, come del resto tutta la cantieristica italiana, a cercare di “inventare qualcosa”, attività ormai da anni esauritasi nell’ ambito nautica moderna.
Avendo ella collaborato in passato con Catarsi, se non erro nell’ allestimento del motor yacht “Giada”, Le chiedo la decrizione particolareggiata e se possibile, deliziata con l’ illustrazione dei suoi disegni tecnici, che noi soli veri appassionati del settore sappiamo gradire come nulla altro.
La stima per la genialità delle sue idee.