La barca non è un auto – (XI puntata) Percezione e realtà
di Antonio Soccol
Cosa significa “percezione”?
Siamo abituati a sentirla spesso questa parola. E’ diventata comune quando il clima ha iniziato a dar fuori di matto: “Il termometro oggi segnava 38 gradi ma la percezione del calore, dovuta all’umidità, all’assenza di ventilazione, al bla bla bla, era di oltre 43°”, raccontavano, suadenti, i mezzibusti televisivi addetti al meteo. Lo stesso, ma forse con minor frequenza, vale(va) anche per il freddo.
Poi il concetto si è allargato e ha colpito “la percezione del valore dello stipendio, del caro vita, della bassa pensione, del mese di tre settimane.” Da quel momento si è esteso a tutto.
Oggi, ogni nostra realtà continua ad oscillare fra il suo valore tecnico e quello che “percepiamo”. Lungi dal crearci schizofrenia questa dicotomia ci è ormai congenita e famigliare: ci conviviamo ogni momento del nostro quotidiano: “Ti amo.” “Forse sì. Ma io non “percepisco” bene questo amore: ho bisogno di un periodo di riflessione”.
Mettiamoci, però, d’accordo sul significato delle parole: in realtà il soggetto è tutt’altro che nuovo e sembra che il primo a definirlo sia stato nientepopodimeno che Kant (1724 – 1804), il grande filosofo analista dei poteri e dei limiti della ragione umana, morto più di due secoli or sono.
Il “Dizionario di psicologia” di Umberto Galimberti, (Gruppo Editoriale L’Espresso, 2006) scrive testualmente:
Percezione: (ingl. Perception; ted. Wahrnehmung; fr. Perception). Insieme di funzioni psicologiche che permettono all’organismo di acquisire informazioni circa lo stato e i mutamenti del suo ambiente grazie all’azione di organi specializzati quali la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto. E’ inoltre possibile raccogliere informazioni sullo stato del proprio corpo tramite la sensibilità propriocettiva e interocettiva. La percezione, anche se secondo alcuni non è separabile, secondo altri si distingue dalla sensazione: mentre quest’ultima si riferisce ai dati elementari della conoscenza sensibile che non possono essere scomposti in elementi più semplici, la percezione è un processo più complesso che unifica una molteplicità di sensazioni, riferendole a un oggetto distinto dal soggetto e dagli altri oggetti. Questa forma di percezione, detta esterna, si distingue dalla percezione dei propri stati interiori che non rientrano negli studi della percezione.
In ambito filosofico, si hanno sostanzialmente due interpretazioni della conoscenza percettiva: quella empiristico-associazionista che, con D. Hume e J.S. Mill, considera la percezione come la somma di sensazioni elementari, e quella aprioristica che, con I. Kant, ritiene che la percezione sia un’elaborazione dei dati sensoriali operata dalla coscienza secondo forme e priori. Questa seconda tesi ha finito con il prevalere, sia pure con significative variazioni, nelle successive prese di posizione filosofiche.”
Usciamo dal difficile e parliamo del nostro eterno confronto fra automobili e barche. Mi dice uno che se ne intende: “Nelle auto accade che a parità di lunghezza e motore ci siano prezzi anche 4 volte superiori”. E poi aggiunge: “Accade anche nelle barche ma la percezione è notevolmente più complessa”.
Un altro, che di auto ne capisce, mi spiega: “E’ normale. Mica vorrai paragonare un’auto coreana o cinese con una italiana?” Io non so: non ho automobili ma, a parte questo dettaglio e partendo dall’errato presupposto che per me tutte le vetture sono solo scatole per sardine giganti dotate di ruote, comprendo che una Ferrari la quale ha solo due posti a sedere valga molto di più di un Suv che, pure, funziona perfettamente anche come carro funebre. Ma non basta.
La percezione del valore di una autovettura non è strettamente legata alle sue dimensioni, né alle sue comodità. E neppure alla potenza del suo propulsore. Quanto piuttosto al suo prestigio, alla sua rarità, e –talvolta- alle sue garanzie tecniche e quindi alle sue prestazioni (velocità, tempo di frenata, tenuta di strada, affidabilità eccetera). Ho messo per ultimi questi elementi perché è già allo studio una legge in Europa che mira a proibire la produzione di autovetture capaci di velocità superiori ai 150 chilometri orari. Pare la vogliano fare, questa legge, entro il 2020 ma penso che complessi come BMW, Ferrari, Maserati, Mercedes eccetera ce la metteranno tutta per farla slittare al glorioso giorno di San Mai.
Senza voler fare il Nostradamus da strapazzo, talvolta mi chiedo cosa se ne faccia uno di una autovettura che tocca i 300 chilometri orari di velocità quando il limite massimo in autostrada è a 130 km/h… Però sono in molti a guardarmi come se fossi un matto. Mi consolo pensando a quel signore di Mestre che s’è comprato una Ferrari Testa Rossa e se l’è messa nel salotto di casa come un mobile di assoluto prestigio. E che da là non la muove mai: dice che gli piace averla e guardarla. Come fosse un quadro di van Gogh o una scultura di Giacometti. Bravo.
Per mare, problemi di limiti di velocità, almeno quando siamo al largo, non ne abbiamo.
Ma una barca vale per la velocità di cui è capace? Mmm, mica tanto. E’ un fenomeno curioso questo. La velocità in acqua fa paura e non abbiamo quindi la stessa generale mania che si verifica e si riscontra a terra. Sì, sì, lo so che al bar del circolo nautico tutti sparano cifre impressionanti a proposito delle velocità delle proprie caravelle. Sergio Gozzini, un lettore, mi scrive:
Quando sono al porto, capita spesso di scambiare pareri con altri diportisti… Oh, a sentire loro hanno tutti barche da 40-45 nodi come niente! Anche se a vederle hanno carene che, secondo me, fanno schifo e motori ben più fiacchi del mio, o entrobordo di pari potenza. Allora io mi chiedo: o sono l’unico “sfigato” che ha la barca che non rende, oppure questi personaggi sono come i pescatori, che da un pesce di mezzo chilo, lo trasformano in uno da due chili… alla faccia di Gesù Cristo che li moltiplicava. Sono salito su un cabinato (…omissis) di un amico, il conta-nodi montato indicava 43! Secondo la mia impressione raggiungeva a stento i 30, al massimo!
Sarò noioso ma mi pare il caso di fare alcune precisazioni: un nodo è un miglio marino per ora, dunque parliamo di 1852 metri all’ora (per chi volesse saperne un po’ di più, ricorderò che questa misura corrisponde alla lunghezza media di un arco di meridiano terrestre, pari a 1’ di latitudine); un miglio terrestre (si usa negli USA e in UK) è, invece, pari a 1609,344 metri. Fra le due “voci di misurazione” c’è una differenza di ben 242,656 metri. Ora, si dà il caso che praticamente tutti i conta-miglia installati sulle barche siano fatti negli Usa e parlino quindi in miglia terrestri. Per questo, quando una barca che dispone di quel tipo di strumento, scrive che tocca le 40 mph (miglia terrestri per ora) in realtà sta navigando ad appena 34,759 nodi. Ma c’è anche un altro elemento.
Vi sono in circolazione una infinità di “conta-nodi” come li chiama Guzzini. Sono quelli ad elichetta che spesso sono anche accoppiati con l’ecoscandaglio e sono di una generosità esagerata, esageratissima. L’unico strumento di cui ci si può fidare davvero è il gps (ovviamente deve esser settato sui nodi e non sulle mph). Io, a bordo del mio “Exocetus volans”, ho di recente installato un nuovo scandaglio che, appunto, ha anche uno di questi pseudo conta miglia ad elichetta: beh, i numeri che mi “regala”, rispetto alla velocità vera che indica il gps, mi consentirebbero di vincere una gara offshore…andando a mezzo gas.
Chiacchiere da Bar Sport a parte, dicevo che la velocità in mare impressiona. E’ normale. Sapete qual è probabilmente il mezzo che assicura la più alta percezione di velocità fra quelli inventati dall’uomo? Il bob: l’unico che non ha neppure il motore. Provate a farvi la pista dei Ronchi a Cortina e poi me lo raccontate. Correre dentro a quel budello con le pareti di ghiaccio vivo a pochi centimetri dal naso è fantastico ma anche impressionante: sembra davvero di andare ad almeno 250/300 km/h. Poi, quando arrivate al traguardo e vi dicono il tempo impiegato, scoprite che avete superato di poco, pochissimo, i 100 all’ora! Io ho avuto modo di farlo due volte in vita mia: la prima avendo come driver il più bravo del mondo: il mio vecchio e indimenticabile amico Eugenio Monti (pluri campione mondiale e olimpico) e la seconda- parecchi anni dopo- con un “prima guida” della nazionale italiana di bob. Insomma gente tosta, davvero. E che filava al massimo. Eppure la velocità era quella: 110/115 km/h. Se non sbaglio il record della pista non tocca i 130 km/h.
E’, insomma, un fatto di pura percezione. Peraltro sapete a che velocità “giriamo” in ogni attimo della nostra vita, anche mentre dormiamo, assieme alla Terra? A ben 1.674 km/h se siamo sulla linea dell’equatore, un po’ meno man mano che ci avviciniamo ai poli. Ma nessuno di noi se ne accorge: la terra ruota in modo così uniforme che non abbiamo alcuna percezione di “questa” velocità.
In mare non è la stessa cosa, di certo. Ma la famosa percezione di velocità è largamente superiore a quella che si registra a terra, dentro un’auto. Per questo filare 50 nodi in mare è infinitamente più emozionante (se piace) che andare alla stessa velocità, cioè a 92,600 km/h, sull’asfalto autostradale. Da qui la “paura” di molti e il loro disinteresse per la velocità nelle barche. E, di conseguenza, quello dei cantieri a cercarla. Ma, come diceva il bravo Enzo Ferrari, la velocità è anche un elemento di sicurezza.
Io sono “fuggito” ad una tromba d’aria che, dalle parti di Panarea, mi voleva “vorticare” e sono arrivato prima di lei a Porto Rosa (Baia di Patti, Sicilia) riuscendo giusto in tempo a mettere alla mia barca quattro robuste cime, due a poppa e due prua… Strada facendo, quella tromba marina ha affondato un paio di barche e semidistrutto altrettante: la velocità del mio scafo mi ha salvato da un brutto pasticcio. Perciò, per me, la percezione della velocità di una barca corrisponde ad un importante valore aggiunto. Ma non posso pretendere che tutti gli utenti nautici fuggano alle trombe d’aria oppure abbiano dieci anni di gare offshore (quello di una volta, certo) sul proprio palmares come le ho io. Insomma è un fatto soggettivo.
Soggettivo, sì. Ma anche di sicurezza. E quanto vale la sicurezza? Per uno sciuscià del sud che, per non rovinarsi il gel sparso sui suoi capelli, gira in moto senza casco, niente… Per una persona saggia, molto. Questo è il punto: vogliamo esser saggi o sciocchi? Il problema non è mio. Né di mia competenza. Rimane un fatto ovvio: se una cosa ce l’ho (nel nostro caso, la velocità), quando mi serve la posso usare. Se, invece, quando mi servirebbe non ce l’ho, allora sono… cavoli acidi.
Ma, naturalmente, una barca non si valuta (e quindi non dà “percezioni”) solo in funzione della sua velocità. Vale molto il nome del suo costruttore, vale (per me molto di più, ma non faccio testo) quello del suo progettista, valgono il prestigio e l’affidabilità garantita dai fabbricanti dei propulsori, delle trasmissioni, delle eliche. E, inevitabilmente, vale anche il “gusto di mare” dato dal bravo mobiliere che ha fatto gli “interior designs”, quello, insomma, che ha sistemato qua e là letti, divani, tavoli e poltrone, piscine, elicotteri e prendisole.
La larga maggioranza degli utenti (lo dimostra il mercato) è più interessato a quest’ultima voce: una adorabile idiozia. Un “interior designer” dormirà sempre sonni tranquilli anche se ad uno dei suoi tavoli si spezza una gamba. Un po’ diversa la storia se la barca affonda per imperizia di chi ne ha progettato l’opera viva e la propulsione.
Così una tinozza con minipiscina a poppa darà la “percezione di maggior valore” che non un collaudato scafo marino con gli interni, giustamente, un po’ sobri e spartani. E’ il concetto del lusso che tale non è, il festival del “vorrei ma non posso”, il trionfo nell’inutile. E del pericoloso.
Ho “fatto” una strage di Saloni nautici di Genova: non ho mai sentito un potenziale cliente chiedere a un cantiere: “Chi ha progettato queste eliche? Chi le ha costruite?”. Mai. Si dà per scontato che siano giuste, ben fatte, perfette. Ma non è affatto vero. Ci sono in giro barche di serie che hanno eliche che se fossero ruote di auto sarebbero quadrate da tanto sono poco efficienti…
E le carene? Ha fatto scalpore il mio articolo “Splash moulding” pubblicato su “Barche” di agosto. Il solito Giorgio Guzzini (che ormai scrive più a me che a una morosa) mi ha subito mandato un messaggio: “Le chiedo ancora, per quanto possa essere limitata la mia conoscenza, di aiutarmi a capire a grandissime linee, la differenza tra una carena bidone o una tosta.
So che non è facile, altrimenti tutti sarebbero dei veri progettisti. Visto che andrò a Genova , mi consigli almeno i cantieri che lei ritiene competenti per farmi un opinione (ci sono ?) e quelli scadenti, credo sicuramente più facili da trovare. Intendo solo carene: le fioriere e le camere da
letto, le lascio alla moglie!”.
Non esiste che io mi metta a fare il libro dei buoni e quello dei cattivi. Bisogna saper valutare personalmente facendo indagini, domandando, insistendo sino alla petulanza: “Chi ha fatto questo e chi quello? Chi ha disegnato questa opera viva? Perché ha un diedro così modesto? E perché e com’è che l’ha fatto? E quando lo avete provato? In vasca? Al mare? E per quanti giorni? E il mare era calmo o agitato? E se io vengo in cantiere e il mare è agitato mi fate provare la vostra barca?” e avanti così sino all’esasperazione, esaminando- da prua a poppa- ogni dettaglio dello scafo: dal salpa-ancore alle bitte. Meglio prendersi un “vaffa” (ormai sdoganato per legge) che comprare un bidone.
Dicevo che la “percezione del valore di uno scafo” nasce anche dal prestigio del suo costruttore. Un po’ come per il “made in Italy”. Lo stesso abito “prêt à porter” che si trova in un mercatino rionale copre il corpo quanto uno firmato da un grande stilista. Il costo del materiale è grossomodo simile. Una qualche differenza vi può essere nelle finiture e nel costo della manodopera (sappiamo tutti quanto sia inferiore in Cina e in India) ma, alla fine, il prezzo è profondamente diverso, spesso c’è addirittura uno zero in più: cento euro al mercato, mille in boutique. A fare la differenza è il prestigio dello stilista (quindi, in estrema sintesi, l’etichetta dell’abito). La percezione di disporre di un qualcosa di pregiato e che ha uno specifico valore viene dalla fama del produttore.
In campo nautico chi ha fama e prestigio? Si torna un po’ alla domanda del bravo Guzzini…
Per cercare una risposta agnostica ho investito 45 euro e ho comprato il libro “Luxury Toys” (editor and texts di Anja Clorella Oriol, pubblicato da “teNeues Publishing Group” di New York). E’ un libro, formato 26 x 33 cm, di 220 pagine riccamente illustrate a colori, che raccoglie i “giocattoli del lusso” divisi per settori: barche a vela, barche a motore, automobili classiche, automobili moderne, aeroplani. Per farvi capire di che tipo di giocattoli stiamo parlando citerò che fra le auto moderne figurano la Lamborghini Mucièlago Roadster e la Ferrari “Enzo” (quella di cui, volutamente, sono state costruite solo 349 esemplari).
Le barche a motore presenti sono appena sei e cioè: Wally Wallypower 118’, Lurssen Capri, Sunseeker 105, Cantieri di Pisa Akhir 140 Element, Ferretti 880, Benetti Amnesia. Quelle a vela sono solo quattro: Wally B, Nautor’s Swann 112, Holland Yachtbbouw Whisper e Royal Huisman Maria Cattiva. Non chiedetemi se sono d’accordo sulle scelte: sarò diffidente e maligno ma ho la “percezione” che per esser presenti in queste rassegne sia sufficiente pagare. Né mi aiutano i testi. Prendete, per esempio, questa frase che si riferisce al famoso Wallypower: “Questo superlativo marittimo ha anche un prezzo: da 14 a 21 milioni di euro- a seconda della potenza del motore. E anche i costi di funzionamento non sono alla portata di tutti: fare il pieno costa infatti 20mila euro.”
A parte l’infinita modestia della traduzione dall’inglese originale, se questo è il top… ho proprio sprecato i miei 45 euro. Per carità, non vorrei esser frainteso: non ho nulla contro la produzione di cantieri come Pisa, Ferretti o Benetti e penso che possano onorevolmente far parte di questa hit parade ma sono le qualità del prodotto editoriale che mi lasciano fortemente perplesso. Eppure questo volume non si trova nelle librerie ma solo nei negozi più costosi di fashion del famoso “quadrilatero della moda” di Milano… Capite a mia?, direbbero in Sicilia. Si crea artificialmente una “percezione” di valore mettendo qualche bella foto in un volume che ha come titolo “Luxury toys”, si inseriscono alcuni elementi indiscutibili (una Ferrari per esempio) e il gioco è fatto. Insomma: puro marketing, disgiunto da qualunque elemento tecnico.
E qui si ferma la mia professione di giornalista nautico. Se volete saperne di più rivolgetevi a uno psicoanalista.
Articolo apparso sulla rivista “Barche”, novembre 2007 e riprodotto per g.c. dell’autore. Altomareblu – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Gen.le William,
la tua percezione è corretta, vera, basta pagare e quello che si vuole che sia pubblicato, va pubblicato.
Il dubbio resta a noi lettori che mettiamo in discussione l’autorevolezza di chi pubblica questi dati “forzati” e non provati. In AltoMareBlu a firma di Corradino Corbò c’è un articolo che si chiama “Il motoryacht che vorrei” e tra qualche giorno un nuovo articolo di Vittorio di Sambuy che parlano proprio dei “tester” di riviste ecc..
Il dubbio dovrebbe essere anche regolamentato giuridicamente, se pubblico dei dati, acquisto la barca e riscontro che i dati forniti differiscono da quelli reali… sia il produttore che l’editore, la testata che ha pubblicato quei dati, dovrebbero in qualche modo “risponderne” ma non è sempre così.
Ultimamente, su riviste specializzate del settore nautico, ho letto degli articoli su brevetti di carene, storia dell’evoluzione della progettazione di carene, l’utilizzo dei dati CFD… insomma, opinabile il tutto ed è chiaro che chi ha scritto ha pagato e chi ha pubblicato ha incassato, nulla di quanto scritto ha convinto ne me che sono un comune lettore che “esperti progettisti”, i dati sono sommari (difesa del brevetto) le foto delle prove in vasca sono “uguali” nel confronto di due carene dichiarate “diverse”, le immagini CFD risultano non essere coerenti con il tipo di carena descritta nell’articolo.
Questo è solo un esempio ma ci deve essere stata in qualche maniera una verifica dei dati e dell’articolo; si può comprendere che si tratta di un brevetto e che mettere in chiaro tutti i dati potrebbe costituire modo di copia ma se un angolo di carena non mi viene specificato se a prua o al diedro di poppa e la si vuole chiamare “carena a V” profonda… con i disegni forniti a corredo dell’articolo, scappa da ridere.
Non credo che sia un mondo “virtuale”, è la realtà editoriale attuale che lascia molto a desiderare, il virtuale dei leasing, dei proprietari di barche, di brevetti fasulli, di enti certificatori nulli… che sono più reali che mai ma su i quali, nessuno dice nulla, comprese la legge italiana che, al contrario, tende a “imbavagliare” i blog e i blogger nell’estremo tentativo di poter “controllare” anche questa fascia di mercato “libera”.
Virtuale? Si… noi italiani che facciamo tanto i moralisti ma che leggiamo “marchette” e siamo contenti.
Grazie Wiliam,
Alex (admin AltoMareBlu)
Ma ho la “percezione” che per esser presenti in queste rassegne sia sufficiente pagare.
Altro che percezione questa e pura realtà di un mondo virtuale, che e meno reale di un gioco da PC…
William Cassar