Il motoryacht che vorrei – pensieri e considerazioni di un tester
Lo staff di AltoMareBlu e dei suoi appassionati lettori porgono a Corradino Corbò sincere congratulazioni per l’importante e meritato piazzamento ottenuto alla Prima edizione del “Premio Marincovich”:
“Sezione articoli navigazione a motore”
1° classificato: Corradino Corbò “Il motoryacht che vorrei” pubblicato su “Nautica”.
Premio: Arcidiavolo – l’elica del primo scafo da corsa offshore a stabilire un record mondiale U.I.M. di velocità con trasmissione ad elica di superficie (20 agosto 1976; classe OP2; 67,69 nodi; pilota Giorgio Tognelli), offerta da Marco, Michele e Riccardo Tognelli.
Testo e foto di Corradino Corbò
Centinaia di cruiser provati in ogni parte del mondo. Navigazioni di tutti i generi, con gli equipaggi più disparati. Se ne ricava un ritratto ideale di barca dal quale, forse, è possibile trarre qualche idea interessante.
Una doverosa premessa. E’ questa una delle rarissime volte nelle quali scrivendo, uso la prima persona singolare. Si tratta di una scelta che mi mette un po’ a disagio, ma opportuna, anzi obbligata, poiché mi appresto ad affrontare un tema in chiave assolutamente personale. Basandomi esclusivamente sul mio carattere, sulle mie abitudini, sulla mia esperienza di navigazione e di tester di questa rivista, cercherò di descrivere gli elementi salienti del motoryacht che considero ideale.
Per definire questo impegnativo termine – ideale – scomodo nientedimeno che Socrate, il quale, per bocca di Platone, ci insegna che ciò che abbiamo in testa, come modello assoluto, nella realtà non esiste. Piuttosto è un concetto: il frutto della sommatoria di tante osservazioni metabolizzate quasi automaticamente dal pensiero e dall’esperienza che lo condiziona.
Dunque, ai fini di offrire una buona chiave di lettura per quel che seguirà, è bene che premetta alcune cose: svolgo un lavoro assolutamente non impiegatizio che mi permette di gestire il mio tempo nell’arco dell’anno con una certa libertà. Per contro, tuttavia, tutti i giorni, anche nel corso di una vacanza, devo trovare il modo di lavorare, altrimenti mi annoio.
Amo navigare di giorno e di notte e non soffro il mal di mare ma preferisco evitare le burrasche. Quando desidero sostare, cerco per prima cosa una rada ridossata. A terra ci vado soprattutto utilizzando il tender. Morale: se non per esclusive esigenze di ordine tecnico, evito i porti, soprattutto quelli super-attrezzati, dotati di discoteche, di negozi, di circoli nautici, di supermercati eccetera.
Finché rientra nelle mie capacità, amo fare in prima persona i lavori di manutenzione e di riparazione e, perciò, non concepisco una barca che non abbia uno spazio dedicato a questo genere di attività.
Non mi servono né il marinaio né il cuoco ma apprezzo (e pratico) la buona cucina e il buon bere. Ovviamente, mi piace circondarmi di persone che condividano con me questo piacere.
Non amo – se non occasionalmente e per poche ore – le compagnie numerose. I miei numeri perfetti per le lunghe crociere sono l’uno e il due. In quattro mi trovo bene. In sei ci sto, ma solo se si tratta di persone dal piede marino (in tutti i sensi, compresi quelli di ordine psicologico). Confesso: trovo che i problemi di gestione degli ospiti a bordo (“gestione” è una brutta parola, lo so, ma è quella che meglio rappresenta il ruolo del comandante di una barca piena di gente) crescono in modo esponenziale in rapporto alla loro quantità.
Praticità, comodità, estetica
Desidero subito fissare tre concetti per i quali i fattori soggettivi giocano un ruolo particolarmente importante. Personalmente, li considero esattamente nell’ordine di importanza indicato dal sottotitolo. La mia barca ideale è innanzi tutto pratica, nel senso che, per tutta una serie di considerazioni legate alla sua maneggevolezza, in rapporto alla mia capacità di marinaio, deve invitarmi a utilizzarla il più possibile, senza riserve. Perciò, tanto per fare un esempio, una barca che necessiti imperativamente di almeno tre persone di equipaggio ben allenate (cioè me, più altri due aiutanti in gamba) non la prendo neppure in minima considerazione. Segue la caratteristica della comodità, che è strettamente legata al mio personale standard di vita di bordo. Per me, una barca è comoda se mi permette, all’occorrenza, di isolarmi dal gruppo per scrivere, leggere, collegarmi in Internet; se mi permette di dormire in pieno comfort, sia in navigazione (e qui entrano in gioco la stabilità e la silenziosità) sia durante le soste; se mi garantisce un ragionevole livello di privacy rispetto alle altre persone imbarcate; se mi consente di cucinare con la stessa libertà che ho nella mia casa di città; se mi permette di tenere a bordo tutte le cose che amo avere sempre con me. Infine l’estetica che, condizionata il meno possibile dalle precedenti caratteristiche, è comunque, per me, più una risultante (ben gestita da un bravo progettista) che una premessa (inventata da un fantasioso artista).
Carena e motorizzazione
La mia carena ideale è in grado di “copiare” l’andamento del moto ondoso in maniera alquanto pronta, fedele e morbida. Perciò il suo baricentro è non soltanto tendenzialmente basso, ma anche il risultato di un’accentuata concentrazione dei pesi (soprattutto motori e serbatoi) a centro-barca. Inoltre, essa deve mantenere un buon comportamento anche quando il carico è massimo, come capita nel corso di una lunga crociera d’altura. Dunque, per esclusione, elimino subito tutte le carene estreme, destinate alle alte velocità e dotate di un’autonomia ridotta. La mia opera viva deve altresì scorrere nell’acqua senza la necessità imprescindibile di una spinta poderosa, ciò che restringe ulteriormente la rosa di scelta intorno a una sezione bilanciata, né troppo profonda né troppo piatta. Diciamo pure una V tra i 14 e i 18 gradi, misurata allo specchio di poppa, per uno scafo planante.
Ma, per i motivi appena detti, prendo in seria considerazione anche una sezione semidislocante o dislocante, purché, tuttavia, la lunghezza al galleggiamento – e, conseguentemente, la complessione dello scafo – mi garantiscano prestazioni soddisfacenti. Considerando la mia netta preferenza per la regolarità di navigazione nell’arco delle 24 ore, rispetto a un andamento altalenante, pongo l’obiettivo della velocità media entro un arco alquanto ristretto: tra i 18 e i 20 nodi per uno scafo planante e tra i 9 e i 14 nodi per il semidislocante e il dislocante. Orbene, se per queste ultime due tipologie si tratta di un obiettivo facilmente raggiungibile, non altrettanto si può dire per la prima. Infatti, poiché l’equilibrio di una carena planante è ben più critico e complesso, i mutevoli fattori esterni – quali l’entità e la dislocazione dei pesi a bordo e lo stato del mare – possono metterlo in crisi, impedendogli addirittura di planare. Dunque, paradossalmente, quel che più mi colpisce favorevolmente di una carena planante non è affatto la sua elevata velocità di crociera (dato invero poco significante e del tutto opinabile a partire dalla sua stessa definizione) ma, al contrario, la sua capacità di mantenere l’assetto di planata a una velocità assai distante da quella massima.
Questo è un fatto di estrema importanza sul quale mi permetto di insistere ricorrendo a un’iperbole. Personalmente, non saprei proprio che farmene di uno scafo capace di raggiungere i 60 nodi che, però, in condizioni di carico massimo, perde la planata a 50. Quei 10 nodi scarsi che costituiscono l’arco di utilizzo teorico sono infatti risibili, dandomi la misura della criticità di quello specifico disegno. Al contrario, mi entusiasmo di fronte a uno scafo capace di raggiungere i 40 nodi ma che, sempre in condizioni di carico massimo, regge perfettamente la planata anche a 16.
A questo punto, avrete senz’altro intuito che la velocità massima mi commuove assai poco: la considero esclusivamente come un dato tecnico di riferimento, più teorico – ai miei fini – che pratico. E’ per me invece molto importante che l’autonomia, alla velocità di crociera economica, sia decisamente alta: diciamo pure non meno di 500 miglia per uno scafo planante e dalle 1 .000 miglia in su per il semidislocante e il dislocante.
Per quanto riguarda le appendici, desidero che le eliche non costituiscano affatto il riferimento della massima immersione: in altri termini non voglio che siano le prime cose a toccare il fondo, se commetto un en-ore di manovra o se vado incontro a un ostacolo semisommerso. La stessa cosa vale per i timoni, per i quali preferisco un disegno e una struttura di supporto meno efficienti, sotto il profilo idrodinamico, ma decisamente più solidi e protettivi.
Lunghezze e materiali
Il fatto che, contrariamente alle comuni abitudini, non abbia messo la grandezza della barca al primo posto tra le specifiche di base non deve meravigliare. Già il leggendario Francis Chichester – perdonate l’accostamento, che non vuole affatto essere un paragone irriverente – giunse a stabilire la misura della barca con la quale avrebbe fatto il giro del mondo in solitario soltanto come risultato di un complesso calcolo basato su diversi fattori. Dunque, partendo dalle considerazioni appena fatte, immagino una barca di lunghezza tra i 15 e i 18 metri, misura ancora abbastanza maneggevole per una sola persona e, perciò, perfettamente alla portata di due. Al di sotto dei 15 metri incontrerei – in progressione negativa – una serie di problemi connessi al passaggio sull’onda, alla velocità (soprattutto pensando al dislocamento) e alla comodità. Al di sopra dei 18 metri, invece, crescerebbero in modo importante i problemi legati all’ingombro, all’immersione, alla necessità di equipaggio.
Nell’arco delle lunghezze che ho preso in considerazione, si pone una serena questione di scelta fra i tre moderni materiali di costruzione: vetroresina, acciaio, lega leggera di alluminio.
I relativi pregi e difetti sostanzialmente si compensano tra loro. Nel caso degli scafi plananti e semidislocanti, mi sento di privilegiare la vetroresina, possibilmente stratificata sottovuoto per limitarne il peso, e la poco diffusa – ma pregiata e di grande validità – lega leggera di alluminio. Nel caso dei dislocanti, invece, che non soffrono di particolari problemi di peso, preferisco affidarmi alla resilienza dell’acciaio, cioè alla sua capacità di assorbire gli urti, e alla sua resistenza al fuoco. A questo proposito, il confronto tra l’acciaio e la lega leggera mette in luce alcune differenze che, opportunamente sfruttate, consentono di realizzare costruzioni composite di grande interesse. Per esempio, l’acciaio offre una solidità che è pari a circa una volta e mezzo quella della lega leggera, ma a prezzo di un peso che è circa tre volte superiore.
Per contro, la lega leggera costa nettamente di più e, anche per questo motivo, ha una reperibilità sul mercato decisamente inferiore. Assai diverso è anche il comportamento dei due metalli quando vengono a contatto con agenti esterni: la lega leggera è meno soggetta all’ossidazione e persino alle tipiche concrezioni della carena; l’acciaio è meno sensibile alle correnti galvaniche prodotte dal contatto con altri metalli e sempre presenti nei porti che ospitano cantieri navali. Insomma, alla fin fine, nel caso di uno scafo dislocante, deciderei per una costruzione mista: acciaio per lo scafo e lega di alluminio per le sovrastrutture. Ma a una condizione: che venga installato l’avvisatore che entra in funzione (con anticipo di settimane rispetto alla possibile insorgenza di danni da corrosione galvanica) tutte le volte che la struttura è percorsa da una corrente elettrica proveniente da un’utenza non perfettamente isolata.
Fly
Benché non sia affatto un amante del sole a tutti i Costi, devo ammettere che il flying bridge è, soprattutto in determinate circostanze, un elemento utile. Penso, per esempio, a quanto mi ha aiutato alle Bahamas e ai Caraibi, durante le navigazioni a vista sui bassi fondali, laddove l’uso degli strumenti è del tutto inutile, se non addirittura ingannevole. Per non parlare del vantaggio della sua sostanziale silenziosità (semmai rotta dal fruscio del vento apparente). Tuttavia, poiché non penso necessariamente a una navigazione di tipo “cross-country” (perdonate il termine tipicamente motociclistico, riferito al fuoristrada), ritengo che, soprattutto se le dimensioni dello scafo si avvicinano al parametro superiore della fascia considerata (i 18 metri), posso anche farne a meno, a condizione però di poter disporre di una timoneria interna con un’eccellente visuale in tutte le direzioni (non sostituibile dal più raffinato dei sistemi video a circuito chiuso), di una piccola stazione di manovra a poppa, di un’ottima insonorizzazione e di ampie superfici in coperta, da attrezzare per il relax e per i pasti all’aperto.
Garage e tender
Lo confesso, tutte le volte che osservo il garage di un motoryacht, mi viene da pensare: come si potrebbe utilizzare diversamente tutto questo volume? Alcune volte mi rispondo che si potrebbe aumentare la cubatura di una cabina o, ad- dirittura, che se ne potrebbe ricavare una intera. Oppure ancora che si potrebbe dare respiro a una sala macchine che, per lasciar spazio al battellino, risulta angusta e poco accessibile. Intendiamoci, non sottovaluto affatto il problema della sistemazione a riposo del tender. Tutt’altro. E’ semplicemente che mi vengono in testa tante possibili alternative che, senza penalizzare la praticità (anzi, magari aumentandola), favoriscono la comodità e l’estetica. Trovo quindi – e so di essere in buona compagnia di tanti bravi progettisti – che, fino a tutta la fascia dimensionale che stiamo considerando, la presenza di questo ambiente è da considerarsi più o meno una forzatura.
Non mi piace la sistemazione del tender sul fly a motivo della complessa manovra di varo e alaggio a mezzo gru (spesso pericolosa con il mare mosso) e anche perché, in molte situazioni, proprio non è possibile eseguirla, poiché, lungo le fiancate della barca madre non c’è abbastanza spazio. Finisce così che, o vi si rinuncia, osi è costretti a mettere in acqua il tender preventivamente, al momento di entrare in porto, complicando le operazioni di ingresso.
In definitiva, la soluzione che preferisco, anche perché rende possibile un utilizzo rapido e semplice, è quella delle selle o, in alternativa, dei supporti mobili posti direttamente sulla plancetta di poppa, soprattutto se questa è del tipo idraulico.
Plancetta di poppa
Per un’amante della subacquea come me – e questo vale anche per chi predilige i più semplici bagni di mare – la presenza della plancetta poppiera è assolutamente irrinunciabile. Sul piano della necessaria resistenza meccanica, preferisco nettamente la tipologia integrata, poco sporgente. Per contro, guardo con sospetto la struttura applicata, soprattutto quella con forte aggetto, a meno che non si tratti di un sistema mobile. In tal caso, la possibilità di far scendere la piattaforma sotto il livello dell’acqua e poi di richiamarla, magari per facilitare la risalita di una persona non agilissima o, come già detto nel precedente paragrafo, per movimentare il tender, è da prendere in considerazione, anche perché si tratta di una costruzione molto solida. A questo proposito, chi pensa che una plancetta possa essere un accessorio posticcio dimentica le sollecitazioni che essa deve subire sia dall’alto, sotto forma di peso delle persone e delle cose (senza contare che, spesso, ci si salta sopra per salire a bordo dalla banchina), sia dal basso, per la spinta che può essere generata dal moto ondoso e, soprattutto, dall’onda di poppa che raggiunge lo scafo in fase di decelerazione. Non ultimo, c’è un fatto che sfugge all’attenzione di non pochi progettisti: quando si è alla fonda o ormeggiati in porto, lo sciabordio e lo sbattimento dell’acqua sulla superficie inferiore di una plancetta mal disegnata diventa – particolarmente di notte – un frastuono insopportabile, soprattutto per chi occupa la cabina di poppa. Ma poiché la base della mia plancetta è costituita dalla parte poppiera della carena, questo problema non si pone.
Sala macchine
Correttamente, con questo termine si intende uno spazio dedicato non soltanto ai motori e a parte della trasmissione, ma anche ai generatori, al dissalatore, ai compressori dell’aria condizionata e dei frigoriferi, al riscaldamento, all’impianto per la ricarica delle bombole da sub, alle parti di ricambio eccetera eccetera. Personalmente, aggiungo anche una congrua quantità di volume libero da destinare a ciò che in futuro potrei voler aggiungere. Non solo: poiché le cose, soprattutto in mare, si rompono e io pretendo di essere in grado di ripararle – o di farle riparare – senza dover smontare la barca, desidero che ci sia abbastanza spazio per agire con una certa libertà. Per lo stesso motivo, il normale accesso al vano deve essere garantito da un portellone esterno e non, come spesso capita di notare, esclusivamente dal pagliolato del salone.
Sempre al fine di rendere più rapidi e meno invasivi gli interventi, faccio in modo che ogni interruttore, relais, valvola, cavo elettrico o tubazione abbia un’etichetta che ne identifichi la funzione. Per quanto riguarda i serbatoi: ne preferisco cinque piccoli (quattro principali più uno di decantazione), collegati tra loro, piuttosto che due. In questo modo, in caso di necessità, il loro sbarco può essere eseguito con minori difficoltà. Una nota a parte riguarda il gruppo elettrogeno e, più in generale, l’impianto elettrico.
Con l’aiuto di uno specialista, voglio fare in modo che l’uso dei generatore, per quanto di fondamentale importanza, sia il più limitato possibile. Ciò è già ottenibile se, durante la navigazione, con i motori a regime, gli alternatori sono in grado di produrre abbastanza corrente per mantenere in carica le batterie e in funzione le utenze: non soltanto quelle che funzionano a corrente continua, ma anche quelle che necessitano della corrente alternata a 220 Volt prodotta da un buon inverter. Non dimenticando, infine, che la stragrande maggioranza degli incendi è innescata da problemi elettrici, desidero che il sistema di monitoraggio sia di qualità eccelsa.
Utenze accessorie
Premesso che, laddove si ponga la scelta, opto senz’altro per l’installazione di sistemi idraulici (verricelli salpancore e di tonneggio compresi), non rinuncio alle eliche di manovra (a prua e a poppa), utili per chiunque ma soprattutto per me che dispongo di equipaggio ridotto, né agli stabilizzatori zero-speed, che sono una vera manna dal cielo in tante situazioni. Ma a una condizione, assolutamente imperativa: per quanto possa trarre vantaggio dalla loro presenza, la mia barca deve poterne tranquillamente fare a meno. Guai se le caratteristiche di stabilità naturale dello scafo dovessero risultare insufficienti a garantire sicurezza in ogni condizione di mare o se le sue capacità evolutive sotto la spinta delle sole eliche propulsive e con l’aiuto del timone non permettessero qualsiasi manovra.
Isolamento acustico
Come forse avrete intuito, il problema dell’assorbimento dei rumori è per me fondamentale, quando si parla di comfort. Posso infatti disporre di una cabina principesca, con arazzi alle pareti, impianto di cromoterapia e toilette con i rubinetti d’oro massiccio (tranquilli, non sono i miei gusti) ma se la catena dell’ancora fa rumore, mentre cerco di dormire nella mia caletta preferita, divento pazzo.
Dunque non parlo esclusivamente dei motori, in navigazione, bensì di tutto l’insieme. Questo perché il rumore – soprattutto di notte, alla fonda – può essere generato da molti altri elementi che, come nel caso della catena dell’ancora e dello sciabordio dell’acqua sullo scafo e sulla plancetta, possono anche non avere origine nella sala macchine. Altrettanto importante è, quindi, l’isolamento acustico delle cabine. Senza ricorrere a troppe fantasie, mi basta ricordare una crociera di qualche anno fa, in Grecia, resa impossibile da un ospite che, tutte le notti, russava ininterrottamente in un modo talmente inumano da far sì che noi ospiti, ormai segnati sui volti per la mancanza di sonno, ci riferissimo a lui chiamandolo “l’essere”. Proprio come in un film horror. Poiché, in quelle circostanze, una qualsiasi soluzione tecnica era impraticabile, l’armatore – anzi, l’armatrice, per essere esatti – fu costretta a optare per l’imbarazzante sbarco del personaggio.
Dotazioni di sicurezza
Una delle più comuni dimenticanze – o leggerezze, a seconda dei casi – da parte di chi progetta badando solo all’estetica, riguarda le dotazioni di sicurezza. Assai difficilmente le trovo ben concentrate nel posto che mi sembra più adatto allo scopo, nella malaugurata necessità di un intervento pronto e preciso. Nella mia barca non voglio i giubbetti salvagente sparsi in un qualsiasi gavone, i razzi sistemati alla rinfusa in fondo a un armadio e, soprattutto, l’autogonfiabile (che pesa un accidente) infilato in un pozzo impraticabile. Tutto – e sottolineo tutto – deve avere una propria posizione chiara, funzionale e accessibile da parte di chiunque. Per quanto riguarda la zattera, che costituisce il problema più rilevante, penso a un vano esposto che non obblighi, in caso di necessità, a un improponibile sollevamento pesi. Avrei la tentazione di pensare allo specchio di poppa, se non fosse che esso risulta più esposto anche alle collisioni, che potrebbero essere la causa prima dell’emergenza. Per questo motivo preferisco un alloggiamento nel pozzetto, dal quale poter far scivolare l’autogonfiabile fuoribordo attraverso una delle aperture di passaggio alla piattaforma poppiera.
Cabina equipaggio
Vorrei ora dire la mia su alcuni temi relativi all’allestimento degli interni. li primo riguarda l’opportunità o meno di avere la cabina marinaio. Solitamente, gli elementi che distinguono questo ambiente dagli altri alloggi sono due: uno strutturale, l’altro estetico. Il primo è costituito dalla sua netta separazione fisica, che comporta l’esistenza di servizi privati e, spesso, anche di un ingresso separato dall’esterno. La seconda è data, più che altro, dalla sua marcata sobrietà. Insomma, ai miei occhi, essa è una vera e propria cabina che, proprio per la sua collocazione, può persino essere considerata particolarmente privilegiata e che, con qualche piccolo intervento di maquillage, può essere messa allo stesso livello estetico delle altre. Poiché – l’ho affermato all’inizio – non necessito di marinai professionali a bordo, penso dunque a questo spazio come a qualcosa di estremamente duttile, trasformabile, versatile. Devo, cioè, poterlo utilizzare come cabina ospiti, come mio studiolo personale, come pensatoio, come “sala hobby”, come ripostiglio, come officina eccetera.
Non ultimo, desidero offrire a chi potrebbe essere interessato a subentrarmi nella proprietà (prima o poi dovrò pur venderla questa barca, o no?) un buon motivo di preferenza. Magari si tratterà di una persona che, al contrario di me, considererà in-inunciabile la presenza di uno skipper e di un cordon bleu: ebbene, la mia barca sarà in grado di alloggiare entrambi nel miglior modo possibile. Oppure avrà una coppia di figli teenagers, annoiati dalla vita di bordo ma appassionati di discoteche e di vita notturna: la mia barca sarà in grado di lasciar loro la più ampia libertà di salire e scendere, senza disturbare gli altri ospiti.
Salone
Con il passare del tempo, ho quasi del tutto perso l’abitudine di usare il termine marinaresco “quadrato”. Questo perché, il più delle volte, quando salgo su una barca per eseguirne il test, ho la sensazione di entrare in una sala da ballo o nel foyer di un albergo a cinque stelle. Mi rendo conto, cioè, che lo sforzo di molti disegnatori è teso a colpire più la mia immaginazione (che è fatta di fantasia) che non la mia razionalità (che è fatta di esperienza di navigazione). Ho coscienza del fatto, quindi, che nell’arco dell’anno avrò ben poche occasioni di organizzare feste danzanti in abito da sera, mentre, al contrario, mi troverò molto spesso a cercare un buon divano per leggere senza correre il rischio di ruzzolare giù alla prima rollata o di apparecchiare la tavola per un gustoso spuntino a poca distanza dalla cucina, dove la pasta non deve correre il rischio di scuocere, né la pentola con l’acqua bollente di scivolar via dal fornello. Inoltre, più che volteggiare in improbabili giri di walzer, mi troverò a sbandare un po’ di qua e di là ringraziando la presenza dei provvidenziali tientibene che mi permetteranno di percorrere l’ambiente in piena sicurezza. I libri resteranno al loro posto perché le spondine dei ripiani impediranno loro di cadere, così come tutte le suppellettili della vita di ogni giorno resteranno al sicuro nei tanti armadietti e ripostigli che il cantiere avrà la bontà di costruire.
Armatoriale, vjp e ospiti
La distribuzione delle cabine sottocoperta deve seguire una logica basata su alcune variabili che possono essere ricavate dai vari disegni di questo articolo. Per quanto riguarda il mio alloggio di armatore, preferisco la collocazione centrale, prossima all’asse di beccheggio e perciò meno soggetta alle accelerazioni imposte dal moto ondoso. Si tratta anche di una posizione valida sotto il profilo del rumore, poiché l’adiacenza alla sala macchine è mitigata dall’eccellente sistema di insonorizzazione, mentre lo sbattimento dell’acqua interessa altre parti dello scafo. Non ultimo, la posizione centrale corrisponde al baglio massimo e al settore che consente di tracciare linee dritte, a tutto favore di una pianta ampia e regolare. Un’alternativa – tutta da discutere con il progettista – è rappresentata dalla posizione a poppa, che presenta pro e contro. A suo vantaggio c’è la netta separazione dalle altre cabine; a suo svantaggio c’è la stretta vicinanza degli assi- elica, persino più rumorosi degli stessi motori. Tale difetto (in parte mitigabile mediante l’applicazione di spessi pannelli fonoassorbenti sotto il pagliolato) è reso meno pesante dalla circostanza per la quale, in navigazione e soprattutto di notte, difficilmente mi ritiro nella mia cabina per riposare, preferendo – anche quando il mio secondo è al suo turno di timone – un divano del quadrato.
La seconda cabina in ordine di importanza è la “Vip”, così chiamata a motivo della notevole cubatura e della presenza del letto matrimoniale. Spesso, per risolvere i problemi progettuali, la si colloca all’estrema prua. Ma è una posizione tutt’altro che privilegiata: in navigazione, risulta rumorosa per lo sbatti- mento dell’acqua sui masconi, nonché particolarmente“ballerina” per la sua notevole distanza dall’asse di beccheggio; alla ruota, invece, soprattutto se c’è vento, è facile che vi giunga prepotentemente il rumore della catena dell’ancora. Dunque, francamente, fermi restando tutti gli sforzi tecnico-progettuali per mitigare questi problemi, preferisco assegnare questa posizione alla cabina dei più giovani, allestendola con le classiche cuccette a dotate di spondine antirollio ed eventualmente trasformabili in un unico cuccettone trapezoidale. Per la Vip, invece, preferisco una posizione più arretrata, forse un po’ meno appariscente, ma sicuramente più confortevole.
Toilette
Intendo ora affermare un mio personalissimo principio – qualcuno la leggerà come una debolezza – che nasce soprattutto dall’esperienza di ospite “ospitato”: preferisco di gran lunga disporre di una mia toilette personale, per piccola che sia, piuttosto che condividerne una grande e spaziosa con altre persone. Dunque la mia barca ideale ha, per ciascuna delle cabine, servizi privati dotati di armadietti capienti, box doccia, wc elettrico/manuale e bidet. Colgo l’occasione per aprire una parentesi dedicata proprio a quest’ultimo sanitario, considerato irrinunciabile in qualsiasi stanza da bagno facente parte di una casa italiana ma, stranamente, ritenuto opzionale, se non addirittura superfluo, in barca. Tranne pochissime eccezioni, per le quali è d’obbligo ricorrere alle soluzioni alternative che tra poco dirò, non esiste, a bordo di una barca delle dimensioni che stiamo considerando, alcun motivo per rinunciarvi. Il coro dei contrari si basa spesso su una curiosa obiezione: che bisogno c’è del bidet, quando si può fare direttamente il bagno nell’acqua di mare?
A questi signori rivolgo, a mia volta, alcune domande indiscrete circa le loro abitudini igieniche: si fanno il bagno in mare effettivamente tutte le volte che utilizzano il wc? E ancora: come risolvono il problema durante la navigazione? E durante il cattivo tempo? E nei mesi invernali? La doccia, sebbene risulti assai più praticabile del tuffo in acqua, può risultare comunque scomoda per via della necessità di spogliarsi e rivestirsi completamente ogni volta. Le alternative cui accennavo qualche riga addietro sono rappresentate dalla doccia a telefono, che può essere diretta dove necessario, restando seduti sul wc, e/o (ma a me piacciono un po’ meno) da quei modelli di vaso che integrano, nel loro stesso coperchio, una bacinella adatta allo scopo.
Dal concetto alla realtà
Com’è facile comprendere, il mio ideale di barca è realizzabile esclusivamente presso un cantiere specializzato nella costruzione custom. Il che significa instaurare un rapporto molto diretto con l’ufficio progetti, con il direttore dei lavori e con l’ufficio commerciale, come pure prevedere visite alquanto frequenti nel corso dei lavori. Devo dire, tuttavia, che tra le tante barche “di serie” che mi capita di provare, ogni tanto ne trovo qualcuna che si avvicina parecchio ai concetti fin qui esposti, così come, sempre più spesso, mi capita di visitare aziende che, pur senza potersi spingere fino ai massimi livelli di personalizzazione, sono comunque pronte a realizzare modifiche di una certa entità rispetto ai progetti di base.
In ogni caso, a chi fosse venuta la curiosità di sapere quale direzione ho seguito, confesso: la mia barca ideale è talmente ideale che… non ce l’ho.
Articolo pubblicato nel fascicolo n.569 – sett. 2009 di “Nautica” e qui riprodotto per g.c. dell’autore
Da profana dell’argomento ho gradito moltissimo la lettura!! Ciao zietto :)
“Negli anni Sessanta sono stato anch’io un tester e avrei molti gustosi aneddoti da raccontare su questa non sempre gratificante attività.
Sono d’accordo con l’amico Corradino su molti dei punti da lui proposti e aggiungo una postilla a favore del bidet.
Indispensabile a quel tester francese che titolava le sue prove “Ho provato per voi….”.
Mi confessò che le avrebbe volentieri titolate “J’ai couché pour vous….” giocando sul doppio significato del verbo e pensando alla ragazza che lo aveva accompagnato in mare
Vittorio.