Un aviatore molto marinaio: Comandante Francesco De Pinedo
di Vittorio di Sambuy
Comandante Francesco De Pinedo
Quella del Comandante Francesco De Pinedo fu a quel tempo un’impresa eccezionale non solo dal punto di vista aeronautico ma anche per i suoi risvolti marinareschi.
Il 20 aprile del 1925 decollava da Sesto Calende, sul Lago Maggiore, un piccolo idrovolante, che De Pinedo, da buon napoletano, aveva battezzato Gennariello, lungo solo 10 metri, con un’apertura alare di 15,5 metri, tutto di legno con le ali rivestite di tela (per le caratteristiche del velivolo si veda il box) . La sua destinazione era Sydney, in Australia, poi Tokio, in Giappone, e ritorno in Italia: in totale 55.000 Km in 370 ore di volo. Erano trascorsi solo 22 anni dal primo breve volo dei fratelli Wright e in pratica l’aviazione commerciale non esisteva ancora.
Francesco de Pinedo, ufficiale di Marina prestato all’Aviazione, che ricopriva in quel momento la carica di Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, aveva un’idea precisa. Da buon marinaio egli così la riassume nel suo libro “Un volo di 55000 chilometri. Edito da Mondadori nel 1927.
Arrivo a Sydney: il saluto del Console. A destra il Comandante De Pinedo
ITINERARIO: Il percorso del raid sull’idrovolante S 16 ter nel 1925 55000 Km di cui 40000 lungo costa, 8000 su mare aperto, 7000 su terraferma
Mi proponevo di dimostrare la tesi di poter volare per il mondo con un idrovolante meglio che con un bastimento, potendo navigare anche su terra, ….omissis…. Gli idrovolanti sono le sole macchine da volo che possono andare ovunque dato che il 90% o più dei maggiori centri abitati del mondo sono sul mare o sulle grandi arterie fluviali. Io affermo che le attuali linee aeree europee potrebbero essere percorse da idrovolanti con maggiore economia di esercizio e di impianti, con maggiore sicurezza e praticità.
Melbourne Partenza a pieno carico
Il lungo volo non era stato tranquillo, e De Pinedo aveva incontrato molte difficoltà. Alcune strettamente aeronautiche, altre relative alla navigazione. Privo di radio e di sestante, egli doveva raggiungere ogni giorno una località mai vista prima. Alla fine di una tappa il problema era l’individuazione del luogo previsto per l’ammaraggio, deciso sulla carta, in base a informazioni incontrollate e talvolta imprecise anche quando fornite dall’aviazione britannica i cui piloti, tutti abituati ad aerei dotati solo di ruote non avevano però dimestichezza con gli idrovolanti.
Townsville (Australia) L’ammaraggio – Marauke in mezzo agli indigeni della Nuova Guinea
Talvolta, al limite dell’autonomia, con pochi litri di benzina rimasta nel serbatoio, il pilota aveva poco tempo per decidere dove posarsi per un atterraggio di fortuna, scegliendo ovviamente uno specchio d’acqua non lontano da qualche sperduto villaggio dove racimolare un po’ di benzina dalle scarse autovetture. Spesso era l’olio a mancare, da un serbatoio che continuava a perdere, e provvedeva il farmacista locale a fornire, con suo grande stupore, olio di ricino in sostituzione del Castrol.
Benares (India). Alla fonda sul fiume Gange – Rifornimento di benzina a Benares (oggi Varanasi)
Fortunosi gli ammaraggi notturni all’interno dei porti, in mezzo al traffico delle navi e delle chiatte: poiché non c’era impianto elettrico a bordo, gli strumenti del cruscotto venivano illuminati con una lampadina tascabile.
Divertente l’aneddoto dell’orologiaio nelle Molucche, costretto a saldare un rubinetto della benzina che, dopo questa riparazione, scrisse sulla sua vetrina “si riparano aeroplani”…
Il volo diventava avventuroso quando le nuvole erano talmente basse da doversi infilare dentro con i pochi strumenti di bordo: altimetro, inclinometro, sbandometro, clinoaccelerometro. L’incertezza dei dati meteorologici lo costrinse spesso ad attraversare violentissimi piovaschi tropicali o a fare lo slalom in mezzo ai tifoni delle Filippine.
Nel suo libro De Pinedo descrive non solo l’evolversi del volo con tutti i relativi problemi ma pure le situazioni definibili come marinaresche, talvolta critiche, che si verificavano agli scali, dove erano stati predisposti solo i rifornimenti di carburante ma non strutture adeguate né assistenza all’ormeggio come gavitelli, motobarche per il rimorchio, scivoli eccetera.
Sul Gennariello c’era solo un motorista e dovevano fare tutto in due, come su una piccola imbarcazione.
Oltre ai fanali di via come qualsiasi altro velivolo c’era in più un fanale di fonda nonché tutto un armamentario marinaresco, fra cui un’ancora (ammiragliato da 15 kg), grippiale, cavi d’ormeggio e da rimorchio e perfino un’attrezzatura velica che avrebbe dovuto permettere, in caso di ammaraggio in mare aperto, di raggiungere terra.
Ecco come ce lo descrive l’autore:
il velivolo… tende a disporsi con la prua al vento per effetto degli impennaggi di coda, bisognò correggere questa tendenza spostando verso prua il centro di pressione del vento… E la sistemazione velica si ridusse a un semplice fiocco ed un timone laterale, che doveva sempre trovarsi sul lato di sottovento e quindi da poterlo sistemare sia sulla dritta, sia sulla sinistra dello scafo. Il timone, per poter funzionare anche come deriva, era di rilevanti dimensioni e fu largamente compensato perché non ne risultasse uno sforzo troppo grande sulla barra.
… omissis… L’asta di fiocco era in due pezzi smontabili ed era pure controventata con cavetti d’acciaio. Le esperienze dimostrarono che l’apparecchio navigava benissimo col vento al traverso e con mare calmo poteva anche stringere ulteriormente… e manovrare in un settore di oltre 180°.
Durante le prove sul Lago Maggiore quella piccola vela dimostrò che si poteva virare anche in prua. Ma per fortuna non servì mai perché i due motori (quello utilizzato fino a Tokyo fu sostituito con uno uguale per il volo di ritorno) funzionarono sempre in modo perfetto. Le avarie meccaniche si verificavano soprattutto su certi componenti, come il serbatoio dell’olio che tendeva a dissaldarsi e richiese molte fatiche al motorista Campanelli; una volta, in mancanza di una lastra di rame adeguata, dovette utilizzare una pentola da cucina.
Nel suo libro De Pinedo racconta le sue semicomiche avventure, peraltro abbastanza frequenti, quando per esempio l’ancora si metteva ad arare a causa di una violenta corrente del fiume su cui aveva ammarato e costringeva a ripetere la manovra, oppure quando la predetta ancora non spedava perché incattivatasi in un’altra più pesante: avventure abituali per uno yacht da diporto ma alquanto eccezionali per un aeroplano.
Drammatiche certe descrizioni di quando, per una mancata assistenza all’ormeggio, o a causa del cavo di rimorchio che andava a incattivarsi nell’elica del motoscafo, il velivolo scarrocciava alla deriva rischiando d’investire un bastimento alla fonda, con situazioni salvate in extremis dal comandante che assieme al motorista riusciva ad attutite l’urto che avrebbe danneggiato seriamente le deboli strutture del Gennariello. In una di queste situazioni fu semidistrutto uno dei piccoli galleggianti laterali che, in mancanza di un falegname capace, fu riparato dal maresciallo motorista improvvisatosi maestro d’ascia.
Flottando sul Tevere – Il Gennariello ammara a Roma sul Tevere
Anche l’incomprensione linguistica, gli autoctoni raramente capivano l’inglese, provocò situazioni drammatiche come quando un gruppo di nativi che tratteneva il velivolo mentre si stava scaldando il motore (l’elica girava perché calettata direttamente sull’asse motore), mollarono in bando i cavi d’ormeggio per aver interpretato a rovescio un ordine. E il motore, ancora freddo, si spense appena dato gas. Da notare la criticità della situazione, giacché la messa in moto non avveniva meccanicamente (un sistema ad aria compressa fu sbarcato perché la bombola perdeva) e per avviare il motore il motorista doveva salire in piedi sull’ala e far girare a mano l’elica per mettere i cilindri in compressione. Il motore poi si doveva avviare appena il pilota dava corrente.
Interessanti le considerazioni dell’autore, di tipo idrodinamico, sul comportamento del velivolo relative alla fase di transizione tra l’assetto dislocante e quello in volo:
… la parte più delicata del decollaggio è quella di mettere l’apparecchio sul redan, perché prima di allora esso non sente l’effetto dei comandi e molto spesso, per l’impulso del vento, tende a mettersi in una direzione che non è quella desiderata …. Viceversa, di mano in mano che lo scafo esce fuori dall’acqua, esso non galleggia più, ma scivola appoggiandosi col suo redan sulla superficie liquida, quasi come un pattino. In questa seconda fase l’apparecchio ubbidisce ai comandi ma non si possono fare viraggi stretti perché manca sull’aria e sull’acqua una reazione sufficiente alla forza centrifuga. Si possono eseguire accostate sufficientemente strette facendo strisciare sull’acqua il galleggiantino dell’ala interna; pur essendo questa una manovra delicata , perché è facile imbardare e rompere un’ala, in molte occasioni ho dovuto egualmente ricorrere ad essa.
Altri problemi … nautici erano le carte, spesso errate con declinazioni fantasiose, che costringevano il pilota a controllare la rotta su allineamenti a terra prima di affrontare una traversata in mare aperto. Per non parlare degli ammaraggi in specchi d’acqua completamente sconosciuti, alla ricerca di olio di ricino nella farmacia locale per ripristinare il livello nel serbatoio difettoso.
Ammaraggi che talvolta si concludevano con l’andata in secca del velivolo, che riusciva a decollare solo al sopraggiungere dell’alta marea.
Un aspetto che ricorre spesso è la stanchezza, provocata anche dalle impreviste fatiche durante queste parentesi marinaresche. La giornata tipo consisteva nella sveglia antelucana per preparare il velivolo al decollo e sfruttare al massimo le ore di luce per raggiungere la tappa prevista.
Mentre il motorista poteva riposarsi durante il volo e, se tutto era tranquillo, anche appisolarsi, il pilota doveva fare attenzione all’ambiente esterno e lavorare con la cloche per opporsi ai violenti sobbalzi specie nel volo a bassa quota.
Dopo le lunghe ore di volo incominciavano le fatiche all’arrivo, i festeggiamenti, i discorsi, i ricevimenti ufficiali con le autorità locali, anche le laute cene durante le quali talvolta De Pinedo confessò di essersi addormentato, sconvolto dalla fatica.
Il 7 novembre dello stesso anno il raid, che aveva destato interesse ed emozione in tutto il mondo, si concluse trionfalmente con l’ammarraggio sul Tevere, fra i ponti Margherita e del Risorgimento.
De Pinedo insistette nelle sue convinzioni e nel 1927 compì un nuovo splendido raid sull’idrovolante catamarano Savoia Marchetti S 55 con due motori Isotta Fraschini da 520 cavalli, attraversando l’Oceano Atlantico meridionale per raggiungere Brasile e Argentina volando poi da Buenos Aires all’interno del continente lungo i grandi fiumi (Rio della Plata, Paranà, Guaporè, Rio delle Amazzoni) fino alle piccole Antille.
Attraversato il mar dei Caraibi il Santa Maria, cosi era stato battezzato l’idrovolante, riprese le rotte sulla terra ferma. Su un lago artificiale sopra a Phoenix (Arizona) mentre stava rifornendosi, il velivolo fu distrutto dall’incendio scoppiato per la disattenzione di uno spettatore che buttò una cicca accesa sull’acqua dove si era formato un velo di benzina che prese subito fuoco.
Nel rogo l’S55 costruito in compensato e tela andò distrutto. Ricevuto dall’Italia un nuovo esemplare, De Pinedo riuscì a continuare il suo raid attraverso gli Usa e il Canada e sorvolare l’Atlantico Settentrionale. Ritardato però da venti contrari, rimase a corto di benzina al largo delle isole Azzorre e dovette ammarare vicino a un peschereccio per farsi rimorchiare a Horta.
Il raid si concluse poi a Ostia. In seguito, De Pinedo cadde in disgrazia per essersi innamorato – pare ricambiato – dalla principessa Giovanna di Savoia. Costretto all’esilio, De Pinedo perì al decollo da New York nel tentativo di battere il record assoluto di distanza senza scalo.
L’idea di De Pinedo ebbe una sperimentazione pilota sulla linea aerea Torino- Pavia- Venezia che operò dal 1926 al 1934 con scarso successo. (si vedano le foto dell’idroscalo con hangar tuttora esistente a Pavia).
L’evolversi della navigazione aerea gli ha poi dato torto e l’aumento dei voli civili e delle dimensioni dei velivoli rese indispensabile la costruzione di aeroporti sempre più grandi con piste più lunghe e con conseguente forte ridimensionamento negli impieghi degli idrovolanti. Ciò nulla toglie al valore delle sue imprese.
DISEGNO: L’idrovolante Savoia Marchetti S 16 ter. Pilota: Comandante di stormo Francesco de Pinedo Motorista: Maresciallo Ernesto Campanelli.
CARATTERISTICHE DELL’IDROVOLANTE S16 TER
Apertura ali | m. 15,5 |
Lunghezza | m. 10,06 |
Potenza del motore Lorraine | cv 450 |
Peso a vuoto | kg 1800 |
Carico utile | kg 1121 |
Quota di tangenza | m. 4000 |
Velocità massima | km/h 190 |
Autonomia | km 1450 |
PERCORSO DEL VOLO
Da | A | Km | Ore di volo | Giorni |
Sesto Calende | Melbourne | 23500 | 161 | 32 |
Melbourne | Tokyo | 13500 | 90h30m | 20 |
Tokyo | Roma | 11850 | 118h30m | 17 |
VdS
veramente splendido, merita di essere diffuso. Complimenti !
Ho letto recentemente il libro di Francesco De Pinedo ed ho quindi apprezzato la sua sintesi utilizzando alcuni spunti di ricerca sull’argomento. Grazie.