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La Barca non e’ un auto (30a puntata)

07/08/2009/0 Commenti/in Antonio Soccol, Antonio Soccol - Articoli, La barca non è un auto/da Antonio Soccol

PER LA NAUTICA: CERCASI UN MARCHIONNE (meglio se cinese e con  fondotinta)

di Antonio Soccol

Lo avete letto? L’Accademia della Cucina Italiana ha dichiarato guerra a tutti quelli che fanno la carbonara con la pancetta affumicata invece che con il guanciale. Sono naturalmente considerati eretici anche tutti coloro che utilizzano la panna, il latte, la crema, il formaggio parmigiano e l’albume delle uova. Una crociata assolutamente doverosa, non vi pare?

In tempi non sospetti ho fatto una approfondita ricerca in merito e ho raccolto fra libri, riviste e siti web oltre cento ricette di questo famoso “primo” dalle origini storiche molto nebulose. C’è, infatti, chi lo vuole “piatto unico serale” dei pastori di Lazio e Abruzzo durante la transumanza e chi invece lo garantisce inventato, nell’immediato dopoguerra, dalla italica fame per sfruttare la notevole disponibilità di bacon messa a disposizione dagli “alleati”.

Decisamente siamo un popolo incredibile: affondiamo nel “fertilizzante” e riusciamo ad inquietarci per un piatto di pasta. Mica che uno possa farselo come vuole. No. Ci deve essere la regola. Forse per poterla ignorare e godere del conseguente “peccato”. O, magari, per sentirsi rivoluzionari e provocatori. O “giustizieri”, chissà?

Io credo che a noi italiani le regole ci piaccia farle per poi poterle trasgredire. Abbiamo limiti di velocità su strada che ci impediscono di correre oltre i 130 km/h e costruiamo macchine capaci di filare oltre i 300 all’ora. Per dirne una. Ma troppe ce ne sarebbero.

Stiamo vivendo tempi difficili. No, non parlo della crisi. Ci mancherebbe che vi annoiassi anche su queste pagine con quello che quotidianamente ci rovesciano addosso giornali e tv. Parlo di atmosfera.

Al momento in cui scrivo Marchionne, Amministratore Delegato di Fiat, dovrebbe essere il salvatore di Chrysler. In altri tempi qualcuno ci avrebbe scritto un romanzo tipo “Dagli Appennini alle Ande” (tanto, per noi amanti del mare, un monte vale l’altro e quindi che siano Ande o Montagne Rocciose poco cambia).

Nel frattempo, fra la più totale indifferenza dei nostri politici (tutti), le agenzie battono la notizia che il maggior Gruppo nautico italiano forse si salva: interviene Mediobanca e blocca (si spera) il fallimento con scorno di chi stava solo aspettando l’annunciato “patampufete” per comprare per quattro soldi una mezza dozzina di marchi altosonanti e super storici. Tanto per parlare un po’ meno cripatato: 900 operai in cassa integrazione ha il cantiere (Gruppo) che doveva fallire e 500 quello che voleva fare un boccone del suo competitor. In Sicilia direbbero: “pe(r) dire, ahh….”.

Però è giusto: se vuoi uscire dal “guano”, organizzati. E poi, in fin dei conti, Giuda è più famoso di San Pietro (sondaggi, di “Famiglia Cristiana”, alla mano) e quindi…quel che conta è apparire. Oltre al resto, ça va sans dire si direbbe in Francia. Ma molto meglio direbbero a Napoli con quella loro lingua straordinaria e ultra veloce: “T’ n’ ia i’ ”, (te ne devi andare) come ricorda in suo uno strepitoso articolo Erri De Luca. Dice, il grande scrittore, che il napoletano è così perché “strilla nelle voci dei vicini, negli insulti e negli sfottò…”. Non so: “Mi son venexian, pusa pian” e cerco di ragionare più che strillare.

Dai giornali arriva un’altra notizia. Il titolo è: “Auto elettriche, nella produzione la Cina vuole la leadership”. Il testo è un piccolo capolavoro: leggetene le prime righe: “Il ragionamento è abbastanza chiaro: essendo la Cina indietro rispetto al Giappone, Europa e agli stessi Stati Uniti nella tecnologia di produzione di auto a benzina, tanto vale fare il salto nella prossima generazione di vetture ibride ed elettriche. Tanto più che il problema cinese non è solo quello di trovare una posizione nella competizione mondiale ma anche di evitare un eccessivo inquinamento.”

E aggiunge: “Rischio di non poco conto quando il mercato viaggia a colpi di 11 milioni di veicoli venduti in un solo mese come accaduto in marzo.” Per gli amanti dei confronti: Fiat e Chrysler, messe assieme, arrivano a stento a produrre la metà di quegli 11 milioni di auto, ma in un anno).

Però la notizia più allegra viene dalla cosmesi femminile: “Il fondotinta batte il rossetto: è il nuovo “indice” della crisi”, annunciano i quotidiani italiani riprendendo un articolo del “Finacial Times”.

Spiega: “Quando le cose si fanno difficili, le donne si spalmano qualche dito di crema colorata in più (o intingono con più convinzione il pennello della cipria).” Sintesi pratica? “Fondotinta batte rossetto 30 a 8”, scrive Daniela Monti su “la Repubblica”. Sembra un punteggio da match di rugby. Ma significa che l’industria della cosmesi analizza il mercato e sa prendere le decisioni sulla sua produzione in tempi rapidi, con grande efficienza.

Uno dice: che c’entra? Aspetta: mica ho finito. Perché, sullo stesso giornale appena citato, trovo una intera pagina che mi riempie di gioia: “Lego, il ritorno del mattoncino. Così rinasce un’azienda.” è il titolo. “Cinque anni dopo”, spiega il servizio di Cinzia Sasso, “il suo anno più nero, quando ormai i giornali finanziari l’avevano data per morta, uccisa dai videogame, da Internet, dai mille canali tivù che pareva rubassero tutto il tempo ai bambini, dopo l’ondata di mille licenziamenti e persino l’annuncio che avrebbe lasciato la Danimarca, la Lego è risorta e ha incominciato a riempire con le sue costruzioni le case di mezzo mondo: per ogni persona sulla Terra ci sono 62 mattoncini. Come si spiega questo miracolo che ci riconduce ai gioiosi giochi dell’infanzia? Banale, spiega Mads Nipper, direttore della mitica azienda:

“Quello che conta, tutto quello che conta, è che il tuo prodotto sia in cima alla lista dei desideri dei bambini. Ed è quello il posto che noi, ora, siamo tornati ad occupare”.

Facile, no? Basta, solo sapere cosa vogliono i bambini. Va bene. Basta citazioni. Passiamo alla cronaca.

Domanda: ci sono ancora uomini (bambini?) che vogliono andar per mare? Risposta: sì.

Questa rivista, nel fascicolo del mese scorso, ha riportato la notizia di una iniziativa di Aspronadi (Associazione Progettisti Nautica da Diporto): un concorso giornalistico dedicato alla memoria del collega (e amico) Carlo Marincovich, scomparso nel novembre scorso, grande firma della nautica e co-ideatore, assieme a me, dell’Associazione stessa, nel lontano 1972. Bene. Un normale comunicato stampa inviato a giornalisti, agenzie e siti web ha portato ad un risultato incredibile: oltre 500 segnalazioni su Google, in appena due settimane. Da un lato, è evidente, questo dà lo spessore e la dimensione dell’affetto che il mondo dei media aveva (ha) nei confronti di Carlo Marincovich, ma altresì è il chiaro indice di quanti siano i bambini (uomini?) che vogliono che la gioia di andar per mare non muoia. Il concorso Aspronadi prevede, infatti, di premiare i migliori articoli dedicati alla navigazione a vela, a quella motore e a quella strana cosa che è la “cultura del mare”.

E ora passiamo ad un’altra notiziola. Il consolato della Nuova Zelanda ha invitato la nautica italiana ad un gemellaggio. In sintesi ha detto: “Venite che parliamo di barche e vediamo assieme come possiamo collaborare”. Il “venite” (a Auckland) è stato rivolto a personalità del governo (che hanno accettato), alla Aspronadi (che ha accettato) e ai responsabili della nostra cantieristica (che ha “schienato” l’invito).

La Nuova Zelanda, in campo nautico, ha una certa valenza e non solo per i grandi marinaretti di America’s Cup che ha prodotto ma anche e perché da quelle parti per mare (sia a vela che a motore) ci vanno davvero. La usano, la barca, persino per andare al lavoro. Certo, sono pochi (se non sbaglio, poco più di 4 milioni di abitanti) e gli scafi hanno una lunghezza media intorno ai 10 metri, non di più. Però di passione ne hanno da vendere. Ci sono stato da quelle parti ed è pazzesco: ogni casa ha davanti una barca (il resto del quadretto è dato da: una coppia “marito-moglie” atletica, un paio di marmocchi, un cane- quasi sempre un pastore tedesco- e una Land Rover che traina il carrello con lo scafo). Le barche (parlo di quelle da diporto) non sono malvagie ma in fatto di styling fanno pena. Insomma: di cose da raccontare i nostri ne avrebbero avute e mica poche. E invece, nisba.

Cercasi un Marchionne, meglio se cinese con fondotinta, per la nostra povera nautica che avrebbe tanto bisogno di una buona carbonara. Oppure di barchette fatte con i mattoncini della Lego…

Ma, ormai lo sappiamo benissimo: la barca non è un’automobile.

Per consolarvi, e a proposito di “cultura del mare”, vi regalo una splendida poesia (naturalmente di mare): l’ha scritta il mio amico Piero Gaffuri ed è inserita nel suo libro “La nave impazzita” (Edizioni Il Foglio, febbraio 2009). Si intitola:

“Guscio di conchiglia”

L’onda muore sulla spiaggia,
tonde schegge di vetro,
sassi lucidi e bucati
rotolano e suonano.

E’ l’energia del tempo,
moto eterno,
ricerca interiore,
così nasce anche il guscio di conchiglia.

Ho visto il tramonto dietro le pietre,
i pezzi di corallo erano padri,
l’acqua una madre umida
e io, in mezzo,
galleggiavo felice.

Articolo apparso nel fascicolo di giugno 2009 del mensile Barche e qui riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali

Tags: Antonio Soccol, Concorsi e premi, Premio Giornalistico Marincovich
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