Dart, l’impossibile realtà
di Antonio Soccol
Erano anni focosi e fertili, quelli. Non facevi in tempo a sederti al tavolo di un ristorante con due o tre amici (di quelli “giusti”, naturalmente) e, prima di arrivare al caffè, era già nata una barca.
Ma non una “barca qualsiasi”. Una barca unica al mondo.
Era stato così per “Barolodelta”. E’ stato così per “Dart” e per “Arcidiavolo”. Sarebbe stato così, qualche anno dopo, per “Exocetus volans”.
L’alcova dove si producevano questi entusiasmanti “amplessi nautici” era, nella maggioranza dei casi, il ristorante “da Lino” di Guido Buriassi a Milano. Questa vecchia trattoria toscana (sarzanese per la precisione) era già stata importante negli anni Cinquanta quando fungeva da “campo base” per i giornalisti de “La Gazzetta dello Sport” che aveva la sua sede a poca distanza. Quando partiva il “Giro” ciclistico d’Italia ci trovavi a cena Giuseppe Ambrosini, Gianni Brera (in fatto di cucina e di vino, una garanzia), Rino Negri, Bruno Raschi eccetera. Insomma tutti i cantori delle straordinarie imprese di Gino Bartali, Fausto Coppi e Fiorenzo Magni.
Negli anni Sessanta, Guido, figlio di Lino, era rientrato dalla Francia dove aveva perfezionato le sue qualità di “figlio d’arte” della cucina operando persino nel famosissimo “Chez Maxim” di Parigi, e aveva sostituito il padre (e la madre) nella gestione del locale ottenendo in fretta uno strepitoso successo dovuto sia alla qualità del cibo (e della cantina) che alla cordialità del titolare, amante delle macchine (veloci), delle barche (veloci) e degli aeroplani (da turismo).
Negli anni Sessanta la sede del ristorante era in via Felice Casati e qui sono nate le barche di cui parlavo prima. Poi il successo e l’amicizia con il grandissimo designer Achille “Cicci” Castiglioni (che gli studiò e disegnò tutti gli interni stoviglie comprese), aveva stimolato Guido a trasferirsi in un nuovissimo locale nella vicina via Lecco. Oggi, ahinoi, al quel civico c’è un ristorante coreano. Va beh: nulla è eterno.
Quella sera, era la fine del 1971, eravamo a tavola in cinque: l’ingegner Carlo Chiti della Autodelta, Renato “Sonny” Levi, Giorgio Adreani (titolare del cantiere Vega di Vimodrone, Milano), Sergio Scuderi (direttore della rivista “Mondo sommerso”) e il sottoscritto che per “Mondo sommerso” scriveva ed era amico di tutti.
Per Carlo Chiti (Pistoia 1924 – Milano 1994), ingegnere d’estrazione aeronautica, sul web oggi si trovano queste informazioni che copia e incollo.
Le prime esperienze lavorative e progettuali avvengono in Alfa Romeo, dove nel 1952 è assegnato al reparto corse ed esperienze speciali. Nel 1957 giunge la chiamata di Ferrari che lo vede sostituto dello sfortunato Ing.Fraschetti, perito all’Aerautodromo di Modena durante un collaudo di una vettura. Fraschetti era un discreto pilota oltre che ingegnere e tra gli altri compiti in Ferrari, aveva la responsabilità dei progetti del V12 4 valvole per Sport Cars, incluso il progetto F1 e F2 V6 4 valvole. Con Chiti e la “sua” 156 F1, Ferrari inverte il suo pensiero riguardo alla disposizione del motore: ora sono i buoi che “spingono il carro”.
Nel 1961 Chiti progetta una piccola pinna montata su una 246 SP, collaudata a Monza da Ginther, sostituita poi da uno spoiler inserito nella parte finale della vettura per aumentarne la stabilità in funzione del rialzo troppo accentuato della parte anteriore e posteriore della vettura sport.
Un anèddoto raccontato circa lo spoiler posteriore è che i meccanici per tenere nascosta l’origine dell’invenzione, avevano l’ordine categorico di rispondere nel caso qualche curioso avesse chiesto informazioni: “serve per evitare che gli spruzzi di carburante durante il rifornimento, finiscano sui tubi di scarico della vettura, innescando un incendio”.
Chiti dal 1958 al 1961 “vince” il Campionato del Mondo 1958 di F1 con Mike Hawthorn e quello del 1961 con Phil Hill, oltre a tre Campionati del Mondo Sport nel 1958, 1960 e 1961. Lascia la Ferrari nel 1961 con altri sette tecnici e dirigenti per i famosi conflitti interni con la moglie di Enzo Ferrari e passa all’ATS gestendone gli esordi, rimanendovi poi fino al 1964, anno in cui passa all’Autodelta, società addetta alla preparazione di vetture Alfa Romeo. Nel 1966 l’Alfa Romeo lo nomina Direttore Generale e Consigliere d’Amministrazione della società consociata.
Nel 1985 è tra i fondatori della Motori Moderni, azienda nata con lo scopo di progettare e costruire motori da corsa, fornendo principalmente la Scuderia Minardi.
Tra le sue macchine ricordiamo la Ferrari 156 F1 e l’Alfa 33 Sport.
Quello che il web sfiora appena è in realtà il più grande successo psicologico che Chiti abbia avuto quando lavorava con Enzo Ferrari: esser riuscito a far cambiare idea al “Drake” sulla posizione del motore nella macchina da corsa.
Per Ferrari era inconcepibile, infatti, che un’auto avesse il motore dietro il posto guida: “Si è mai vista una carrozza con i cavalli dietro al calesse? O una coppia di buoi dietro all’aratro?” amava dire, tagliando corto su ogni proposta, il “feroce e dispotico” proprietario della scuderia del cavallino rampante.
Ma Chiti, con la sua sferzante dialettica toscana, riuscì a convincerlo e alla fine degli anni Cinquanta le Ferrari montarono il motore… a poppa via.
Nei primi anni Settanta le gare offshore erano dominate (in classe 1, cioè sino a 16 litri di cilindrata per i motori a benzina, doppio per i diesel) dalle barche americane di Don Aronow (Cigarette soprattutto) che poteva godere della spinta dei motori Mercruiser e Aeromarine Kiekhaefer capaci di sviluppare già 500 cv e che venivano accoppiati con dei piedi poppieri corsa piuttosto fragili come affidabilità ma altresì efficienti nella spinta.
Levi, chiamato negli Usa da Karl Kiekhaefer per valutare una proposta di “progettare in esclusiva scafi con quei forti propulsori”, invece che firmare, trovò opportuno litigare aspramente con il boss americano e mandarlo proprio là, dove potete facilmente immaginare.
Ma, nel 1971, era anche appena nato (e aveva dato straordinari risultati) “Drago” della Italcraft, scafo da diporto veloce (50 nodi con due motorini diesel da 370 cv cad.) che Levi aveva progettato per la prima volta con una trasmissione assolutamente nuova e ben più efficiente dei piedi poppieri “made in Usa”: la “Levi Step Drive” che utilizzava eliche di superficie. Insomma, la trasmissione non era più un problema. Anzi. Le carene neppure (figuriamoci). Quello che mancavano era in propulsori, i motori. Il panorama europeo nel settore dei motori marinizzati e da 8 litri di cilindrata, era modestissimo: offriva solo i Super Vulcano della italiana BPM che sviluppavano un numero piuttosto misterioso ma non esaltante di cavalli e… non “duravano” molto.
Chiti, invece, all’Autodelta aveva progettato e costruito un piccolo gioiello: l’Alfa Romeo corsa “Montreal”, da 4 litri, 8 cilindri, 500 cv a 8200 rpm e del peso di 200 chili appena. Usandone due si poteva immaginare una barca da corsa della classe 2 (sino a 8 litri di cilindrata max) con la potenza della classe 1. Un sogno. Il sogno da “Davide contro Golia”: il genio nostrano contro la super potenza mondiale, un classe 2 capace di competere con chi aveva il doppio di spinta… Per non dire che, montandone quattro, si poteva immaginare un classe 1 da 2mila cavalli: roba da matti.
Come ho detto a quel tavolo c’era anche Giorgio Adreani. Figlio di un noto imprenditore milanese, Giorgio aveva, da alcuni anni, aperto a Cinisello Balsamo, alla periferia di Milano, il cantiere Vega per costruire in vtr piccole imbarcazioni per motori fuoribordo e pilotine e se le era fatte progettare tutte da Levi.
Tra un piatto e l’altro (il ristorante di Guido, in quegli anni, di stordiva con una serie infinita di “assaggini”, uno più buono dell’altro) il discorso era finito inesorabilmente sulle gare offshore, sullo strapotere yankee, sulla frustrazione italiana, quando Chiti disse: “Se volete, io un paio di quei miei motori ve li do, in prestito. Poi vediamo come vanno le cose.” E “Sonny” Levi presa la palla al volo: “Certo sarebbe stupendo poterne montare un paio in una barca speciale”.
“Quanto speciale?” chiese Adreani.
“Molto speciale”, disse “Sonny”.
Sergio Scuderi mi guardò e sorrise. Era stato direttore de “L’unità” nel dopoguerra, aveva scritto i discorsi per Palmiro Togliatti, aveva tre lauree e, essendo figlio di un siciliano e di una principessa etiope, aveva quella che i leghisti chiamano “pelle abbronzata”. Uomo di straordinaria intelligenza e capacità professionale, era finito direttore di “Mondo sommerso” dopo la primavera di Praga e la conseguente delusione “politica”. Di barche sapeva poco o niente ma era giornalista al 100 per cento. Proprio qualche mese prima aveva “stimolato” sia Levi che Franco Harrauer (che spesso lavoravano assieme e che scrivevano entrambi per quella rivista) a parlare del futuro delle imbarcazioni veloci.
I due erano usciti con delle teorie da pugno sullo stomaco. In sintesi: oltre che la normale navigazione, avevano ipotizzato quella “sopra” alle onde e quella “attraverso” le onde.
“Over or trough?”, chiesi a “Sonny”.
“Trough”, mi rispose l’amico e io feci fatica a deglutire mentre Chiti e Adreani ci guardavano sorpresi.
Spiegai con poche parole che l’idea “impossibile” era quella di progettare una barca che si infilasse dentro le onde, le perforasse, le sfondasse e ne uscisse dall’altra parte con lo stesso assetto invece di subirne quei voli che inesorabilmente quella serie di trampolini bagnati impongono ad ogni natante, appena che la velocità superi i 30/35 nodi: “Quando la barca è in aria, le eliche non spingono e, allora, la barca perde velocità. Per una “barca da corsa” è un non senso”, aveva chiosato “Sonny”. Difficile da smentire.
A tavola cadde un lungo momento di silenzio. Poi Adreani sbottò: “ E io la costruisco, questa barca impossibile”. Nacque così una drammatica join-venture: Levi metteva il progetto, Adreani lo scafo, Chiti i motori. Bingo!
Bingo, un cavolo. Là sbagliai io, clamorosamente perché, travolto dall’entusiasmo, non mormorai due fatidiche parole “Chi gestisce?”. In quel trionfante momento solo un assassino avrebbe potuto esser così crudele da pensare a questo mediocre dettaglio. Già. Ma me ne pento ancora oggi, purtroppo.
Il 9 dicembre del 1971 i preliminari della barca “trough” erano pronti e poco dopo al cantiere Vega iniziarono i lavori. Altrove su questo blog, Renato “Sonny” Levi racconta tutte le caratteristiche di questo straordinario scafo. Quello che non dice è che durante la sua costruzione, Giorgio Adreani ebbe dei problemi personali che lo trattennero a lungo all’estero (in Grecia) e che in questo lasso di tempo in cantiere fecero qualche pasticcio.
La barca risultò più pesante di quanto era previsto (e sperato) nonostante l’uso (per la prima volta) di resine ad alto impatto e il ponte in sandwich. Ma, ciò nonostante, sin dalle prime prove (fatte sul lago di Sarnico e si sa che, per quanto concerne la velocità, l’acqua dolce “paga” meno di quella del mare) “Dart” filò più di 75 nodi (87 mph o, se preferite, 140 km/h). Ce n’era abbastanza per mettersi in poppa tutti i Cigarette del mondo: solo nel 1977, quindi ben 5 anni dopo, Tom Gentry con il suo nuovissimo Cigarette 35’ “American Eagle” stabilì, infatti, il record mondiale UIM di queste barche con la velocità di 88,7 mph (pari a 141 km/h).
Come ho detto, io avevo però fatto un errore clamoroso che si rivelò in tutta la sua “katastrofica” evidenza quando la barca venne messa per la prima volta su un camion per andare alle prove.
“Chi paga il pieno di benzina della barca?” domandò l’autista del trucker. Era un problema che non riguardava nessuno dei tre componenti la “folle iniziativa” visto che ciascuno aveva assolutamente dato quello che aveva promesso: chi il progetto, chi lo scafo e chi i motori.
Recuperammo il vecchio infaticabile amico Alfredo Micheletti che, in cambio delle economie necessarie, divenne il primo pilota di “Dart”. Dietro di lui prese posto quel Guido Buriassi, titolare del ristorante dove il tutto era stato “concepito”.
Tranne un paio di sessioni di prove cui partecipai nella funzione di fotografo, non ebbi modo di seguire molto “Dart” perché ero travolto su un altro fronte: proprio in quei giorni stava, infatti, nascendo l’ “Arcidiavolo” di Giorgio Tognelli dove io ero secondo pilota da…prima che Levi tracciasse un solo tratto di matita di quel progetto.
Che era un progetto per andare “over”, cioè sopra alle onde. E dove di problemi pratici da risolvere se ne presentava uno al minuto: eliche che si piegavano, motore (BPM) che non dava potenza eccetera…
Le due barche avevano solo due cose in comune: entrambe godevano della trasmissione “Levi Step Drive” con eliche di superficie ed erano caratterizzate dalla identica “posizione in tandem” (uno dietro all’altro) dei piloti per offrire il minimo attrito all’avanzamento aerodinamico. Tutte cose mai viste nell’offshore di allora.
Come siano andate le cose allo straordinario, impossibile “Dart” lo raccontano le tristi cronache delle poche gare cui si iscrisse nel 1973: alla “Bellaria-Opatja” lo scafo si ritirò perché a Micheletti si spezzò il volante, nel Trofeo Napoli un pannello che reggeva le pompe di benzina si spezzò e la sala macchine si allagò…di benzina ad alto numero di ottani mentre alla successiva Viareggio- Bastia- Viareggio, un banale ingavonamento ruppe, nelle prove del sabato precedente la gara, quattro pezzi della coperta in sandwich.
La delusione prevalse. La barca venne smontata. Chiti si riprese i suoi motori e quella che in assoluto era (ed è ancora) la più incredibile barca del mondo venne abbandonata in un campo, alla periferia di Milano.
Mancò in quella occasione un uomo come Giorgio Tognelli, la cui tenacia avrebbe garantito (come fece, infatti, con “Arcidiavolo”) il superamento delle difficoltà e il raggiungimento dei traguardi previsti.
Ma di uomini come Tognelli non è che ce ne siano tanti in giro. Magari, il contrario.
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….avevo 7 anni quando seguì la brutta avventura del Dart, la barca progettata da Renato Sonny Levi realizzata dai cantieri Adreani.
Un’ onda più alta delle altre e la barca infilò il muso dentro, l’acqua entrò violentemente dentro le prese anteriori in dinamica ponendo il vano motore, che era anteriore, in pressione.
Quando ci avvicinammo con il motoscafo del Chiti, che forniva i motori, lo spettacolo fu sconfortante, la coperta del Dart era completamente saltata i motori erano quasi annegati in un misto di acqua e benzina, Micheletti, il pilota, sotto chock, aveva un vistoso segno sul casco ,arancione se ricordo bene, causato dal boccaporto motori.
Facemmo salire Micheletti sulla barca del Chiti gli fu fatto fare un bagno per riprendersi e mi sembra che ebbe una piccola crisi.
Trainammo quel che restava del Dart al porto di Viareggio, il giorno dopo non sarebbe stato alla partenza della Viareggio Bastia.
L’Alfa Romeo venne comunque parzialmente ripagata dal buon risultato in classe 3 del Tibidabo della scuderia UFO (2 motori Alfetta).
Si disse che le cause fossero forse l’errata posizione delle prese d’aria e il fatto che Guidi il secondo pilota, a causa di un atterraggio del Dart su un fianco, si era incrinato una costola e non poteva continuare le prove, allora fu proposto a mio padre di salire solo per terminare il test ma fu deciso che si poteva continuare anche con un solo pilota.
Il Dart ,sbilanciato infilò la prua nell’onda.
Ora è difficile credere che il peso di un uomo possa avere tale effetto su una barca d’altura ma il Dart era caratterizzato da una architettura davvero strana.
Comunque sono solo ipotesi tratte da i ricordi di un bambino di circa 7 anni, ricordo il catamarano progettato da Renato Sonny levi Arcidiavolo e il Black Tornado, De Angelis, Bonomi tutti Cigarette nelle varie versioni e lunghezze se non sbaglio.
Ringrazio e saluto
Enrico Surace
This is history about Sr. Chiti that was not published in his biography Chiti Gran Prix.
This adds history to the story of Alfa Romeo that few people know about. I would be interested in contact with people who know more about this racing boats history. Also anyone who knows about any Alfa Romeo in marine racing, for a writing project I am working on.
Christopher Boles