E’ tempo di inventare la bio-barca
di Antonio Soccol
La parolina magica è “bio”. Un lemme che deriva dal greco “ bios” e significa “vita”. Lo applicano a tutto: da bio-agricoltura a bio-vetro, passando per bio-pizza. E’ entrata persino in Borsa la “bio” e sembra funzionare piuttosto bene pur essendo appena nata. Ormai non si lancia nulla sul mercato che non sia “bio”.
Negli Usa -riferisce Clifford Krauss- la “Home Depot”, cioè quella catena di ipermercati di articoli per casa e il bricolage che mette a disposizione nei suoi punti vendita ben 176mila prodotti, qualche mese fa ha inviato una nota ai fornitori, invitandoli a consegnare i documenti necessari per far includere la loro merce nella nuova campagna di marketing dell’azienda, la “Eco Options”. Sapete quanti sono stati i prodotti che si sono auto definiti “bio”? Ben 60mila. Dal manico di scopa in plastica (che non utilizza il legno delle foreste) al manico di scopa in legno che non utilizza la plastica non biodegradabile… Una americanata.
Prendiamo allora come esempio la nuova “Cinquecento” presentata in luglio dalla nostra Fiat: “Produce appena 119 g/km di CO2 ed è già in regola con le più severe leggi che entreranno in vigore in Europa nel 2009”, hanno detto subito Marchionne & C. E la reazione del mercato è stata trionfale: “Che brutto giorno per le altre” titolava un suo dossier il quotidiano “la Repubblica” dove si riportavano i giudizi espressi dalla stampa internazionale sulla nuova creatura ideata a Torino e prodotta in Polonia e sugli effetti che avrebbe avuto nelle vendite delle dirette concorrenti tipo Mini, Smart, Yaris eccetera.
Nella nautica la parolina magica non è ancora entrata. Nessuno parla di “bio-nautica” o di “bio-barche”. Gli snob della vela diranno: “Noi, non ci riguarda” come se il loro motore ausiliario, il loro generatore e la loro cucina funzionassero tutti a energia eolica. Certo, di danno ne fanno molto meno ma questo non li pone del tutto fra gli assolti: CO2 ne producono anche loro.
Ma poi, come ben sappiamo, la vela in Italia è poca cosa: a stare ai dati dichiarati, per il 2005, dall’Ucina il fatturato di questo settore incide su quello globale nazionale per appena l’8,11 per cento. E il rimanente 90 per cento? Sono cavoli acidi, diciamocelo.
Avevo pensato di calcolare quanto CO2 liberano tutti i motori delle barche in circolazione in Mediterraneo ma mi son perso nei conteggi che sono, è inevitabile, del tutto approssimativi perché è impossibile sapere quante sono le ore di utilizzo che ciascun utente riesce a mettere assieme in una stagione e anche perché le emanazioni variano da modello a modello di motore. Una irrisolvibile equazione a troppe incognite, insomma.
Avevo allora pensato di trasformare questo articolo in una sorta di lettera aperta al Presidente dell’Ucina (Unione Nazionale Cantieri e Industrie Nautiche ed Affini) per suggerirgli di occuparsi del problema e, dato che c’ero, ricordargli anche il fatto che noi, quelli del settore barche a motore, la soluzione per ridurre del 40 per cento l’emissione di questa maledetta CO2 ce l’abbiamo. Eccome, se ce l’abbiamo: basta far mente locale a quanto ho già avuto modo di riportare su questa rivista alcuni mesi or sono: “…ci vogliono almeno vent’anni perché un’idea sia recepita, trenta perché venga realizzata”.
L’ha detto Charles-Edouard Jeanneret, detto “Le Corbusier”, un ragazzo piuttosto in gamba nel suo settore.
Però quel brav’uomo del Presidente dell’Ucina, di problemi ne ha già tanti che non mi andava di tirargliene addosso uno di più. Lascio perciò al suo buon cuore e alla sua disponibilità il prenderlo in esame o meno. Tanto se non ci pensa lui, ci pensa prima l’UE (intesa come Unione Europea, quella con la bandiera blu e tante stelline) e poi anche il mercato.
Mi rivolgo, invece, direttamente ai costruttori di barche. E ai loro clienti (che poi sono in buona parte anche la maggioranza dei lettori di questa rivista).
Ragazzi, bando alle ciance: qui bisogna darsi una regolata. Non esiste che, per divertirci, noi ci si senta autorizzati a inquinare il pianeta in cui viviamo. E’ già difficile dover accettare che ciò accada perché si deve produrre, perché ci si deve riscaldare, perché vogliamo avere l’aria condizionata… Perché dobbiamo vivere e sopravvivere, insomma. Ma farlo anche per seguire un hobby, sia pure il più bello del mondo, no, non esiste. Non può essere. Non passa. Prima o poi, se continuiamo così, qualcuno ci dà, a ragione, una randellata in testa.
Secondo un articolo di Alex Williams, pubblicato sul “The New York Times”, l’ondata di verde-mania che sta investendo tutto il mondo (vedi anche alla voce “mister Gore” e relativo mega concerto mondiale di luglio) ha prodotto una frattura all’interno delle stesse forze ecologiste. Per importanti organizzazioni come Greenpeace, Sierra Club e il Rainforest Action Network, che per anni si sono viste ignorate dai potenti della terra, dagli industriali, dai media e quindi anche dalla stragrande maggioranza della popolazione mondiale, quanto sta accadendo è pur sempre meglio che niente. Lo considerano, insomma, il primo dei gradini di una lunghissima scala da percorrere. Secondo altri, più radicali, invece, espressioni come “shopping eco-solidale” sono assolutamente grottesche. Paul Hawken, scrittore e attivista ambientalista, dice che il fiorire di prodotti ecosostenibili è una falsa promessa. Per lui: “il consumismo verde è una contraddizioni di termini”. Secondo Hawken, l’unica strada è produrre meno, comprare meno, consumare meno. (Se però fosse davvero del tutto onesto dovrebbe anche aggiungere: fare meno figli. Ma questa campana gli ecologisti non vogliono sentirla…)
Non so. Forse, magari, questo Hawken ha anche ragione. Ma “che mondo sarebbe senza barche”? (con tante scuse alla Nutella per averle rubato il suo famosissimo pay off. nda)
E comunque la teoria del “bon sauvage” è pur sempre una teoria. Quindi opinabile per principio.
Nel 1988, Giovanni Spadolini, ex direttore del “Corriere della Sera” e allora presidente del Consiglio dei Ministri, per il mensile “Aqua” che a quel tempo dirigevo scrisse, sotto al titolo “Ambiente e industria: una coesistenza indispensabile”, quanto segue:
Ricordo un libro suggestivo giunto in Italia nella primavera ’86, proprio nei giorni del “dopo-Chernobyl”, quando l’opinione pubblica si interrogava sul ruolo della scienza e sui possibili danni ambientali. Era il filosofo dell’Australian National University, John Passmore, in una opera già apparsa quindici anni prima in Gran Bretagna, a ricordare che una risposta efficace al degrado ambientale non poteva essere trovata al di fuori della civiltà e della cultura dell’Occidente: senza quella fuga nel misticismo orientaleggiante che lo studioso chiamava tout court “primitivismo”.
Una citazione. “La contemplazione mistica – scriveva il filosofo in quelle pagine su La nostra responsabilità per la natura – non rivelerà al chimico le origini dello smog di Los Angeles né aiuterà l’ingegnere a progettare un espediente efficace per diminuire la sua intensità”.
E’ un motivo in più per restare “all’interno della tradizione nazionale occidentale”.
Non c’è solo l’idea dell’ “uomo padrone assoluto della natura” nella cultura occidentale. C’è anche l’idea dell’uomo “cooperatore” con la natura rivendicata, all’interno della stessa tradizione cristiana, da Teilhard de Chardin, una concezione che si unisce all’umanesimo laico nell’attribuire all’individuo un compito tale da investire direttamente l’avvenire dell’umanità.
La via d’uscita dalla crisi ambientale non passa attraverso il mito di una “crescita zero” da imporre a paesi del Terzo e del Quarto mondo che per di più non hanno ancora conosciuto il benessere e lo sviluppo. Così, al di là della incompatibilità fra sviluppo economico e tutela dell’ambiente, possiamo pensare ad un mondo della produzione capace di accogliere fra i propri “costi” quelli ecologici attraverso misure che evitino i danni ambientali.
Dunque, la strada giusta è: coesistenza.
Sappiamo le direzioni che l’industria automobilistica sta faticosamente cercando di scegliere e prendere: macchine ibride, biocombustibili, motori a idrogeno, motori elettrici, motori a pannelli fotovoltaici.
E’ una gamma piuttosto vasta che però prevede comunque e sempre la sostituzione del motore a scoppio. Per le vetture ibride va riconosciuto lo sforzo fatto, già a partire dal 1997, dalla Toyota con la sua Prius. Oggi Katsuaki Watanabe, che del colosso giapponese ne è il presidente, dichiara che entro il 2010 la sua azienda venderà circa un milione di “ibride” all’anno. Il dato sembra impressionante ma diventa molto relativo se si ricorda che oggi ci sono in circolazione ben 640 milioni di automobili sulla faccia della Terra.
La Ford, dal canto suo, ha investito un miliardo e mezzo di euro su un sistema ideato e brevettato dalla Fiat: il flexifuel che utilizza un carburante misto bio e benzina. Mentre la General Motors, scrive su “la Repubblica” Antonio Cianciullo: “ha puntato un miliardo di dollari sulle auto basate sul sistema fuel cells- idrogeno e assicura che le metterà in circolazione subito dopo il 2010 a prezzi competitivi”. Insomma, tutti si muovono. E fanno grandi investimenti. Nella grande industria.
Ma torniamo fra le nostre amate barchette dove il problema manco si prospetta.
Alla fine della seconda Guerra Mondiale, parliamo quindi di oltre 60 anni or sono, giravano per i canali e la laguna di Venezia delle imbarcazioni spinte da motori elettrici alimentati dalle batterie Ensemberg. Non erano veloci ma in compenso non facevano alcun rumore e non producevano moto ondoso…
Negli anni Sessanta, quindi in un periodo altrettanto non sospetto, a Toscolano Maderno, quel piccolo genio della nostra cantieristica che risponde al nome di GB Frare già provava, con la collaborazione della Lancia, una imbarcazione (dei Cantieri del Garda che allora dirigeva) spinta da un motore a idrogeno. Siccome funzionava, la cosa finì subito subito: il regime delle “sette sorelle” era tale da far passare in fretta la voglia di cambiare il classico motore a scoppio con qualcosa che non utilizzasse la benzina. Non per niente il caso Mattei è ancora un mistero, no?
Vabeh. Diciamo però che finché non avremo lumi e soprattutto via libera dalla grande industria per disporre di motori meno inquinanti dobbiamo cercare di fare comunque qualcosa.
Allora, allo stato attuale dell’arte, in campo nautico, se vogliamo inventare la “bio-barca” possiamo lavorare su due elementi: le carene e le trasmissioni.
Se riusciamo a dare alle nostre barchette un’opera viva più efficiente abbiamo bisogno di meno potenza per raggiungere la stessa velocità e quindi produciamo meno CO2.
Se riusciamo a dare alle nostre barchette un tipo di trasmissione più efficiente abbiamo bisogno di meno potenza per raggiungere la stessa velocità e quindi produciamo meno CO2.
Elementare.
Quale è la carena più efficiente? Le gare motonautiche lo hanno ampiamente dimostrato: quella dei catamarani perché, in sintesi, sfrutta la preziosa “collaborazione” dell’effetto di sostentamento aerodinamico dato dall’ala. Ma un catamarano, se non di grandi dimensioni, è scomodo come barca da crociera perché manca di spazi vivibili.
C’è però una soluzione intermedia che risulta intelligentissima. Quella che in gergo si chiama “geometria a triciclo rovesciato”. In pratica quanto già collaudato negli anni settanta dallo scafo offshore “Arcidiavolo”: due scarponi laterali a prua e una gondola centrale, dalla quarta ordinata di calcolo (all’incirca) a poppa.
Arcidiavolo Concept – Cantieri di Sarnico
Questa configurazione garantisce ottima navigazione anche con mare formato. Chi l’ha ideata ha scritto testualmente: “è una piattaforma alare rettangolare: il sostentamento aerodinamico viene assicurato dal tunnel a Y e l’area di alto sforzo a poppa viene eliminata dalla gondola centrale”. Rispetto ad un monocarena il triciclo rovesciato assicura un bel 20/30 per cento (dipende dalle dimensioni dell’ala) di maggior efficienza (perciò si legge: un risparmio energetico di altrettanto, a parità di prestazioni).
Rispetto ad un catamarano puro, il triciclo consente spazi molto più ampi e abitabili nella sua “gondola” centrale. Si tratterà poi di utilizzare anche gli spazi ricavabili dagli scarponi per quelle cose che oggi si trovano altrove: serbatoi, gavoni eccetera. Un lavoro facile e banale per qualsiasi ufficio tecnico.
Arcidiavolo GT Concept
Dunque per la carena, la soluzione c’è. E garantisce un risparmio di emissione ben consistente. E passiamo alle trasmissioni. Come tutti sanno quelle tradizionali bruciano il 20 per cento di potenza nello sforzo di far procedere dentro all’acqua tutte le loro appendici sommerse: asse porta elica, cavallotti, timoni. Drag, si chiama, cioè “attrito”.
Le trasmissioni con eliche di superficie (o semisommerse che si voglian dire) consentono una diminuzione della spinta motrice appunto di circa il 20 per cento rispetto a tutte le altre trasmissioni, eccezion fatta per gli idrogetti che però pesano di più e hanno geneticamente il loro top di funzionamento solo agli alti regimi e quindi sono un “non senso” dal punto di vista “bio”.
Il vantaggio delle trasmissioni che impiegano le eliche di superficie è che possono funzionare bene ad ogni regime dei motori e che sono efficienti indifferentemente su scafi velocissimi (da gara, da pattugliamento), veloci (da diporto corsaiolo), normali (da diporto) e, sapendo studiare le giuste eliche, anche lentissimi (gozzi). Garantito.
E allora? Allora ci troviamo ad un salone Nautico di transizione: quasi tutto quello che verrà presentato quest’anno sarà destinato a uscire di produzione quanto prima perché obsoleto. E sostituito da una idea che, vedi Le Corbusier, ha per l’appunto trenta anni.
Ho saputo che i Cantieri di Sarnico hanno già deciso di costruire uno scafo sugli 11 metri ft con le caratteristiche sopradescritte: un bel 40 per cento di potenza risparmiata, fra carena e trasmissioni, è un gran bel passo avanti rispetto alla tradizione ”: complimenti per tanta lungimiranza, ha messo in cantiere la prima “bio-barca”.
So anche che questo costruttore chiamerà questo suo scafo “Arcidiavolo” e, come ex pilota proprio di quella barca offshore, grazie davvero per l’implicito riconoscimento dato al suo progettista (Renato “Sonny” Levi) e al suo armatore (Giorgio Tognelli).
Agli altri, ai progettisti, ai responsabili dei cantieri e ai loro clienti, ricordo il vecchio adagio: chi ha orecchie per intendere, intenda. La bio-moda non è una moda: è una esigenza esistenziale.
Buon ultimo Salone (del Mobile?) a tutti.
Articolo pubblicato nel fascicolo di ottobre 2007 del mensile di nautica “Barche” e riprodotto per g.c. dell’autore
Tutti i diritti riservati. Note Legali
Era ora di venire con qualcosa del genere, ha un bel design.
e dopo qualche anno quale è stato lo sviluppo della ‘biobarca’?
Scarso, molto scarso…
Ho scritto l’articolo sopra riportato in luglio per rispettare i tempi di tipografia del mensile che lo ha poi pubblicato.
Da quel giorno a oggi alcune cose sono cambiate: la barca dei Cantieri di Sarnico non ha trovato posto al Salone Nautico (a causa dei molti lavori in corso nei padiglioni fieristici genovesi) ed è stata così presentata a Rapallo, al porto Carlo Riva, la sera del 9 ottobre 2007. Durante la manifestazione, Luigi Foresti, presidente dei Cantieri costruttori, ha deciso di aggiungere al nome “Arcidiavolo” la sigla GT che ricorda le iniziali di Giorgio Tognelli, armatore del primo “Arcidiavolo” da corsa offshore, progettato da Renato “Sonny” Levi nel 1972.
Alla cerimonia erano presenti tre dei quattro figli di Tognelli (Marco, Michele e Riccardo), Giorgio Acquaviva che, a Bellaria, aveva costruito quel prototipo, Giuliano Zannoni che lo aveva “accudito” e Martin Levi, figlio di quel “Sonny” che lo aveva disegnato. C’ero anch’io come testimone e “seconda guida” di quella storica imbarcazione.
Il nuovo “Arcidiavolo GT”, disegnato da Victory (Brunello Accampora) sulla lunghezza di 40′ (larghezza max 11′), monta due diesel Yanmar da 480 cv ciascuno su trasmissioni Flexi con eliche di superficie per una velocità di progetto superiore ai 60 nodi.
Se ne farà, probabilmente, anche un versione corsa per una nuova classe offshore monomarca richiesta dalla Iota.
Per altre informazioni: http://www.cantieridisarnico.it
E-mail: info@cantieridisarnico.it