Dino Vian: un eroe sconosciuto
di Antonio Soccol
No. Il 31 maggio scorso a Venezia, in occasione della trentacinquesima edizione della Vogalonga, un redivivo Mario Ferretti, indimenticabile radiocronista della Rai, non avrebbe potuto ripetere quella frase che disse il 10 giugno del 1949, raccontando la tappa Cuneo-Pinerolo del Giro ciclistico d’Italia e che sarebbe diventata famosa al punto da diventare titolo di libri, saggi e articoli.
Non c’era al traguardo della grande manifestazione remiera veneziana (milleseicentocinquanta imbarcazioni, seimila vogatori) “un uomo solo al comando”. Quell’uomo, di oltre settanta anni che strappava al suo corpo uno sforzo disumano, che a fatica riusciva a spingere avanti la sua barca dopo quasi sette ore di lotta contro il vento e le onde, che avanzava esclusivamente in nome di un ideale, di una determinazione di altri tempi, era sì solo. Ma era altresì l’ultimo ad arrivare. E il suo nome è Dino Vian.
Spesso i non addetti ai lavori fanno confusione fra Regata Storica e Vogalonga, pensando che sostanzialmente siano la stessa cosa. Non è così. La prima è una manifestazione che ricorda l’arrivo a Venezia e l’accoglienza trionfale che fu riservata alla regina di Cipro, Caterina Cornaro, nel 1489, dopo l’abdicazione del suo trono in favore della Serenissima. Nel corso di questa manifestazione vi sono “regate” di alto sapore agonistico per differenti tipi di imbarcazioni (gondolini da regata per uomini, per donne, caorline eccetera) che premiano i “re del remo” della città lagunare.
La seconda è invece una manifestazione non competitiva inventata nel 1975 da Toni Rosa Salva e da uno sparuto gruppo di bravi amanti di Venezia, che raccoglie tutti gli appassionati della voga (veneziana e non) per una forma di protesta (purtroppo inutile) contro il moto ondoso che sta devastando la città e la sua laguna. La Vogalonga si sviluppa su un percorso di circa 32 chilometri che, partendo dal Bacino San Marco, si snoda attraverso i canali che portano alle isole della laguna nord: Certosa, Sant’Erasmo, Burano, Mazorbo, Madonna del Monte, San Giacomo in palude, Murano e che, alla fine, riporta i partecipanti al centro storico attraverso il popolare canale di Cannaregio e il trionfale Canal Grande sino al traguardo finale che è alla Punta della Salute.
Quest’anno, come sempre più spesso ormai, il numero delle imbarcazioni tipicamente veneziane è stato inferiore a quello degli scafi provenienti da altre località e da altre culture marinare (gozzi, kaiak, dragoni, voga all’inglese eccetera). Molti (troppi) veneziani hanno capito che la lotta contro il moto ondoso creato dalle imbarcazioni a motore è senza speranza e disertano la faticosa protesta.
Personalmente ho partecipato alla Vogalonga per tutte le sue prime ventisei edizioni e sempre con la stessa barca, gli stessi remi, le stesse forcole e lo stesso equipaggio: mia sorella Silvana (classe 1931). Poi un incidente sulle scale di casa ha reso troppo difficoltoso per Silvana lo stare in piedi in modo quanto meno precario per oltre cinque ore e vogare con impegno. Così è stato giocoforza interrompere questa partecipazione ma a mia sorella rimane il titolo e l’onore di essere l’unica donna ad aver partecipato e concluso tutte le prime 26 Vogalonga della storia. Da quando ci siamo “ritirati” non abbiamo però smesso di andare ad applaudire chi vi partecipa e a incitare gli amici. Fra questi, uno ci è particolarmente caro.
Si chiama, appunto, Dino Vian, detto “il Moro”, un uomo che vive e lavora (sul mare) a Santa Margherita di Caorle e che abbiamo imparato a conoscere sin dalla prima edizione della manifestazione quando di barche iscritte ce n’erano solo cinquecento. Lo abbiamo identificato per la sua stupenda eleganza nella vogata, per la sua costanza e talvolta ci è capitato di coprire parte del percorso vicini scambiando poche parole. Ma tanto è bastato per creare un rapporto mentale intenso e complice. Era (è), per noi amanti della voga veneziana, uno spettacolo straordinario osservare l’indicibile assonanza che c’era (c’è) fra quest’uomo, la sua barca e l’acqua che naviga(va). Inoltre, fare da solo oltre 30 chilometri di voga, comporta uno sforzo che pochi possono comprendere ma che noi, già fortunati ad essere in due, capivamo benissimo.
In una barca vogata da più remi, se uno ha un momento di stanchezza può spingere meno, può riposarsi: ci penseranno i suoi compagni a far avanzare lo scafo anche se la corrente o, peggio, il vento sono contrari e spingono indietro. Ma quando uno è solo non può permettersi mai di staccare, di smetterla di vogare. Infine, vogare alla “vallesana” cioè con i due remi incrociati, è arte consentita a pochi. La forcola, su cui il remo lavora, è aperta, al contrario dei classici scalmi dei gozzi o della voga praticata su altre barche.
Ci vogliono, sì una grande dimestichezza, una forte abitudine, un buon allenamento ma soprattutto necessita un assoluto coordinamento nei movimenti di tutto il corpo difficilmente disponibile al supermercato del dna. Con amarezza chi scrive deve confessare di non esser mai riuscito a vogare alla “vallesana” e di essersene sempre rammaricato. Ma non è affatto facile riuscire a dare la stessa potenza alla vogata se non si è praticamente “ambidestri” e la mia mamma questa dote non me l’ha trasmessa (vorrei sapere perché l’abbia, invece, trasmessa a Silvana, mia sorella, pur avendo sempre sostenuto che per lei i figli erano come le dita di una mano: potevano essere più grandi o più grossi uno dell’altro ma avevano tutti lo stesso valore…Com’è difficile esser genitori. Com’è difficile esser figli).
Quest’anno, abbiamo incrociato Dino Vian pochi minuti prima della partenza, in Bacino San Marco. Il tempo minacciava una “caligada” di quelle tremende: un forte vento di bora rendeva la laguna un mare in tempesta, la marea cresceva e quindi era contraria alla prima metà del tragitto, la più faticosa. Molti, moltissimi partecipanti avevano già preso a vogare senza attendere il via che viene dato alle 9 in punto con un colpo di cannone che sovrasta il suono della “marangona”, la più grande delle campane del campanile di San Marco.
Partire prima, pur essendo assolutamente disonorevole, è pratica diffusa perché consente molti vantaggi: evita gli assembramenti che inesorabilmente migliaia di barche comportano, consente di vogare in acque libere e, infine, di esser certi di arrivare alla fine con il gruppo dei più bravi. Non si vince nulla perché la Vogalonga non è competitiva ma prendere gli applausi, anche se sono immeritati, fa piacere a tanti.
Alle otto e cinquanta di quella domenica 31 maggio, Dino Vian aspettava tranquillo il colpo di cannone e osservava, con quel suo sguardo profondo e intenso, la massa di barche che era già oltre la linea di partenza, molte delle quali già ben lontane. Le guardava con il disinteresse di chi vede una cosa sconcia, che non capisce. Chi partecipa alla Vogalonga con purezza d’intenti non si sogna di partire prima del via o di seguire itinerari più brevi, più comodi, meno faticosi, non pensa di “tagliare” sul percorso per abbreviare la strada. La Vogalonga è un tributo, un atto d’amore e si rispetta in ogni suo dettaglio. La Vogalonga ha una sua sacralità. Ma i furbi ci sono ovunque e sarebbe ben strano non esistessero in questa particolare occasione. Diciamo che su milleseicentocinquanta imbarcazioni iscritte almeno la metà era composta da furbi.
Quando il cannone sparò e la “marangona” iniziò la sua canzone dall’alto dei suoi 100 metri di altezza, Dino Vian iniziò a vogare. Contro vento e contro corrente di marea. Per arrivare alla curva di Sant’Elena al solito ci mette venti, venticinque minuti. Dopo trequarti d’ora non era ancora arrivato. Lo aspettavamo in quel punto cruciale dove il vento era più rabbioso e le onde gigantesche per la sua piccola barca. E non lo vedevamo arrivare. Ed eravamo in ansia. Nell’attesa, lo spettacolo era preoccupante: barche che si rovesciavano, altre che venivano sballottate come nocelle, gente che cadeva in acqua. Perdevano la testa persino quelli delle CP della Capitaneria di porto che correvano all’impazzata avanti e indietro, aumentando il moto ondoso con quelle loro patetiche caravelle (ma Tangentopoli finirà mai? E i nostre guardiacoste avranno mai “barche barche” a disposizione?) e creando più disagi che aiuto.
Finalmente, lontanissimo Dino Vian è apparso. Era fra gli ultimi, circondato da una mezza dozzina di kaiak. Avanzava a gran fatica. Ogni colpo di remi lo portava in avanti di pochi centimetri ma la barca sotto la sua spinta non sembrava mai in balia degli elementi. Chi ha occhio, queste cose le sente, le vive sulla sua pelle. E Silvana ed io (beh, c’era anche nostro nipote Sandro) lo aiutavamo con il pensiero: “Dai Dino, dai “Moro”, forza, forza”. E la barca guadagnava mezzo metro, e poi un altro mezzo metro. E poi un altro ancora. Di quanti “mezzo metro” sono composti trentadue chilometri di acqua?
Il drammatico passaggio durò quasi mezzora finché finalmente il Forte di Sant’Andrea non diede un po’ di ridosso al vento e alla corrente. In novantacinque minuti, Vian aveva coperto sì e no cinque chilometri. Gliene mancavano ancora ventisette. L’ho fotografato da ogni lato. Sempre elegantissimo, coordinato, duro e testardo, deciso e determinato, uomo di mare totale. Non c’erano imprecazioni inutili nelle sue labbra serrate dalla fatica. Non c’erano domande inutili nella sua testa concentrata a vincere l’eterna, armonica quanto devastante lotta fra l’uomo e la natura avversa.
“Bravo”, gli ho urlato. “Bravo” gli hanno urlato Silvana e Sandro. E lui ha fatto un cenno con il capo ma non ha alzato gli occhi da quel breve tratto di mare che era davanti alla prua della sua barca, della sua nave, del suo ideale di uomo che voleva dare il suo personale contributo ad una idea, ad un grande amore.
Dino Vian è del 1935. Dino Vian ha fatto tutte le 35 edizioni della Vogalonga. Dino Vian non è veneziano. Dino Vian è nato in uno di quei paesi che la Serenissima dominava quando il leone di San Marco non era stato rubato per esser grottesca immagine di sprovveduti. Dino ama Venezia come ogni emigrante ama la madre patria e si sente “onorato di esser cittadino veneziano”, dice. Lo so, sembra retorica, sembrano parole d’altri tempi: oggi vince il “mavalà”. Dino scrive poesie. Davvero. Solo perché è poeta nell’animo. Ne stampa con la fotocopiatrice qualche copia e le regala agli amici. Chissà se quando vogava appena dietro la curva carogna di Sant’Elena ha pensato a qualche straordinaria poesia. Chissà.
Siamo andati ad aspettarlo a Burano, al cantiere di Agostino Amadi, altro straordinario uomo con l’amore per Venezia nel sangue. Altro grandissimo della voga veneziana: come riesce a portare lui una barca a tanti remi pochi sanno farlo. Uomo che passa più di dieci ore al giorno a lavorare nel suo cantiere, sembra che il remo non lo possa affaticare, che la spinta sia solo un movimento, che- quasi- non comporti energia o sacrificio. La sua barca naviga sicura, forte e decisa. Quando è passato stavamo chiedendoci se per caso non si fosse ritirato da tanto che era in ritardo: le notizie erano preoccupanti. Si erano ritirate già quasi ottanta barche (mai capitato), molte non si sapeva dove fossero finite, alcune erano colate a fondo, Gianni Colombo, famosa sentina della “dodesona” ha avuto una costola rotta e ha dovuto sbarcare e ricoverarsi in ospedale dove è stato aperto un improvvisato centro di soccorso con infermieri, medici e generi di prima necessità. Chi dice che più di cinquanta persone siano finite nell’acqua. C’è chi dice che sono di più.
A Burano- e siamo grossomodo a metà percorso-, passano i primi che tali non sono perché sono quelli partiti largamente prima del via, poi faticosamente passano gli altri e fra questi c’è la barca a 16 remi dei Vignotto di Sant’Erasmo. I Vignotto, in laguna, sono una stirpe. Tutti li chiamano “veleno”. Gente che in barca ci lavora tutto l’anno. Dura. Spesso antipatica. Isolani-isolani. E non occorre dir altro. Se loro, che sono nati con il remo in mano, con uno scafo a sedici remi passano adesso, quando passerà Agostino Amadi che è in una barca a otto remi? e quando passerà Valentina che è in una barca a soli sei remi?
E quando passerà Dino Vian che è addirittura solo? Dopo un bel po’ arriva Agostino: solleva a fatica un braccio per un cenno di saluto a sua moglie, a Silvana, a me. Lui che non ha mai mancato di fare un alzaremi in nostro onore. “Più di un’ora di ritardo sui suoi tempi abituali” commenta la moglie mentre Agostino lavora di remo per tener dritta la barca.
La “dodesona” (il termine significa “dodici remi”) presa d’infilata dal vento, ha sbattuto contro una “dama” che fra le bricole è la maggiore e ha subito danni in coperta. Il poppiere, De Gregori, è finito a mare. Si ricambierà con abiti di fortuna e porterà la barca al traguardo. E gli altri? Del gondolone di Valentina non c’è traccia, della barca di Albino Busatto (gran ristoratore, contitolare della famosa “Fiaschetteria toscana”) neppure. Passerà con oltre due ore di ritardo sui suoi tempi: “Mai stata così dura”, dichiarerà alla fine.
Il tempo stringe. E’ indispensabile rientrare a Venezia, andare a salutare questi “pazzi” in Canale di Cannaregio, là dove sempre l’entusiasmo è grandissimo, dove una folta schiera di pubblico applaude e incoraggia, dove Venezia è Venezia. E Dino Vian? “Vedremo, speriamo: di certo lui non molla”, ci diciamo.
Le rive del canale di Cannaregio sono praticamente deserte, il cattivo tempo benché senza pioggia ha scoraggiato il tifo. Ormeggiate alla solita pizzeria appena giù del ponte dei Tre Archi ci sono tre barche. “Già arrivate e ritornate sino a qui?” chiedo. “Mai partite” è la risposta. Il cielo è nero, cupo. Assurdo. La bora disturba anche in canale. Le barche sfilano lente, affaticate, stremate. Pochi sorridono, pochissimi hanno la forza di fare un alzaremi ai pochi applausi che li riguardano. Ma sembra più quel che in latino si dice tristezza “post coitum” quella che si legge sui volti di questi rematori. E qualcuno chiede: “Ma perché lo fanno?” Non c’è risposta ad una domanda così volgare.
Passano, passano, sfilano lenti sulle acque finalmente più ferme e riparate. Qualcuno va a zig zag come se fosse ubriaco. Di stanchezza o di gioia? Chissà? “Perché lo fanno? Perché lo hanno fatto?” Se lo chiedi è inutile che ti risponda. Passa anche Valentina e ordina un alzaremi che faccio fatica a registrare con la digitale. “E Bepi Trucolo?” domanda Silvana e aggiunge che era in una barca a tre o a quattro remi.. “Ritirato” dice una voce alle spalle.
Passano i minuti e diventano ore. Oramai non passa quasi più nessuno. Poi, alle quindici e rotti un puntino lontanissimo, confuso da un paio di kaiak. Eccolo, l’uomo solo. Eccolo, l’uomo solo al comando che più comando non c’è anche se è ultimo. Ecco Dino Vian. Voga da oltre sei ore. Con la sua “vallesana” stanca ma elegante. Con la sua fede di veneziano-veneziano anche se veneziano non è. Con la sua feroce determinazione di uomo di mare. “Non mi fermo – dice, rispondendo all’applauso di noi pochi – Ci vediamo l’anno prossimo.” E prosegue per i suoi ultimi cinque chilometri di Vogalonga. “Non scrivere che sono del ’35 e che quindi ho 74 anni…mi rovini la piazza”, mi dirà poi al telefono, qualche giorno dopo. E non dovrei neppure scrivere che ci ha messo sette giorni a riprendersi dalla fatica: si sa, la “piazza” è la “piazza”.
L’indomani i quotidiani locali sono pieni di feriti, di barche rotte, affondate, di cronisti che hanno vogato sulla “dodesona”, di ringraziamenti ai servizi di assistenza. Il sito ufficiale della manifestazione ringrazia tutti.
E di Dino Vian, autentico eroe di questa Vogalonga? Non una parola. “Les héros ne sentent pas bon” (gli eroi non hanno buon odore) diceva nel suo “Educazione sentimentale” Gustave Flaubert. E Romain Rolland, in “Jean-Christophe”, aggiungeva: “Un eroe è chi fa quello che può”.
Grazie, Dino. Grazie per aver fatto quello che hai potuto fare.
Altomareblu – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Quando si parla di Dino si parla di mare, vento e di vogare allo stato puro.
Vederlo in azione ricorda Fausto Coppi in bici : un airone.
Un patrimonio tutto da scoprire e da raccontare.
Per chi volesse incontrarlo o comunicare con lui può contattarmi via e-mail.
Anche quest’anno, a 87 anni, Dino è a vogare in occasione della Vogalonga. Grande amico di mio padre, lo vedo spesso e per me è un esempio di vita. Dovrò chiedergli delle poesie, son curiosa di leggerle. Grazie per questo bell’articolo, ovviamente non è profeta in patria, ma leggere queste parole scritte da un veneziano (e ve conosso bastansa avendoci vissuto per 15 anni!) è tanta roba.
Gentilissimo Loris Scalco,
ci dispiace comunicarle che non abbiamo purtroppo contatti diretti con Dino Vian “il MORO”.
Infatti l’articolo a cui Lei fa riferimento fu scritto da Antonio Soccol che purtroppo oggi non è più tra noi e non ci ha lasciato alcun contatto con la persona di cui Lei chiede.
La rinngraziamo comunque per averci contattato.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Buongiorno a tutti,
solamente ora ho avuto modo di leggere questo commovente articolo.
Io ho avuto modo di conoscere Dino Vian “il MORO” quando lavorava in darsena a Porto Santa Margherita.
Un uomo che si faceva distinguere per la sua personalità e per gentilezza d’animo specie con le donne…
Spero un giorno di incontrarlo magari mentre si allena o controlla le sue barche.
Io sono un trevigiano ma la passione che ho per l’acqua e per le barche mi fa sentire Veneziano.
Un caro saluto a Dino e a tutti gli amanti del remo e di Venezia.
Caro Antonio, siamo stati compagni di vogalonga su barche diverse per lungo tempo, qualcuna è stata fatta con Paolo Giuriato che ci ha presentato,
Ti sono venuto a trovare nel tuo studio a Milano, e su una delle prime vogalonghe mi avevi chiesto un commento per la tua rivista. E’ un secolo che ci muoviamo paralleli almeno con la Vogalonga.
Quest’anno sono riuscito ad inserire il sito dei Cavalieri, non è stato facile e non è ancora completo. Per il grande Vian ho inserito un tuo commento. Se puoi fatti sentire ne avrei grande piacere. Saluti Franco Tonello
Sono gli eroi che preferisco. Solo un veneziano può scrivere un articolo come questo e anche capirlo. Naturalmente a tutto cè un limite. La mia venezianità di adozione e di scelta finale si appanna di fronte alla tua. Onore al remo e a chi lo canta. Bravo.