La barca non e’ un auto (XVII puntata) – E adesso, povera barca?
C’è, ma purtroppo è difficile trovarla in edicola, una rivista che si chiama “Surf News”. Edita a Ravenna (via Pellegrino Matteucci, 34) e diretta da Nicola Zanella (che si firma “Nik”) è già arrivata al numero 67, in 14 anni di vita.
Come dice il titolo, si occupa di surf e io la ricevo in abbonamento omaggio per antichi meriti che risalgono agli anni in cui ero direttore del mensile “No Limits world” e mi occupavo anche di questo fantastico sport e dei suoi campioni.
Nel suo ultimo numero (gennaio-febbraio 2008) “Surf News” ha pubblicato un articolo che mi ha fortemente impressionato: firmato da David Strahan si intitola “Fino all’ultimo barile”.
Racconta come nel Golfo del Messico, in una certa zona che si chiama “le secche di Galveston”, non vi siano onde valide per praticare il surf ma spiega anche di come le difficoltà aguzzino gli ingegni… In quella zona passano, infatti, moltissime petroliere in rotta verso Huston, la zona “con maggior concentrazione di raffinerie del mondo”.
Ma ecco testualmente l’azione:
Una nave cisterna carichissima ha appena virato attorno alla cima della baia e si dirige veloce verso di noi. I miei amici iniziano una preparazione per loro di routine: John si mette al timone del Boston Whaler mentre gli altri due (Peter e James) lanciano le tavole in mare e si tuffano. Quando il tanker “Isabella” si avvicina alle secche, la massa d’acqua spostata dalle sue 105.000 tonnellate si alza ed inizia a frangere formando una parete alta oltre un metro.
Pochi secondi dopo Peter e James sono già in piedi e ci rimangono per oltre dieci minuti visto che la strana onda generata dalla nave continua a seguirla frangendo per chilometri. <<Ti fa venire i crampi alle gambe, è un’esperienza che toglie le energie, mentali e fisiche!>> commenta James dopo la lunga cavalcata. Il loro personalissimo record è di 22 minuti sulla stessa onda, una surfata lunga 4 miglia nautiche!” Poi il Boston Whaler recupera i “surfusti” e, appena passa un’altra petroliera, si ricomincia.
Fin qui è solo un bel episodio di passione e di capacità d’arrangiarsi con quello che passa… il mare. (Personalmente mi ha ricordato di quando, nei primi anni Sessanta, si faceva sci nautico a Milano, trainati da una “Bianchina” che correva lungo la sponda del Naviglio!)
Quello che però mi ha impressionato viene dopo. Così infatti scrive David Strahan:
L’immagine di surfisti a caccia di onde sulla scia delle petroliere è rappresentativa della dipendenza del nostro sport dall’oro nero. I surfisti di Galveston però non sono gli unici a dipendere strettamente da questa sostanza oleosa ed inquinante. La “Isabella”, come molte petroliere, rifornisce di materia prima l’’industria petrolchimica da cui anche il nostro sport dipende. Poliuretano e polistirolo per le tavole, plastica per pinne e leash, il neoprene per le mute e molti altri materiali che comunemente usiamo noi surfisti, sono interamente costituiti da molecole reperibili solo in giacimenti sotterranei.
Questo solleva non pochi interrogativi riguardo il futuro del nostro sport visto che i depositi stanno iniziando ad asciugarsi. Ironicamente la nave che inseguiamo sta anche dirigendosi verso il luogo di nascita della teoria scientifica che può aiutarci a capire come si sta evolvendo la situazione. Cinquant’anni fa, nei laboratori della Shell, a Huston, M. King Hubbert, un brillante ed irascibile geologo texano, fondava una corrente di pensiero conosciuta come “Peak Oil”. Nel 1956 Hubbert scosse l’industria pronosticando che la produzione annuale di petrolio in America avrebbe raggiunto il suo apice tra il ‘65 ed il ‘70 per poi iniziare a calare. Al momento della sua previsione, l’estrazione di petrolio era ancora in forte crescita negli USA.
Il solo pensiero che la curva potesse invertirsi venne considerato ridicolo dalla iperottimista industria petrolchimica. Le teorie di Hubber vennero schernite ma il tempo diede ragione al ricercatore texano. La produzione di greggio in America raggiunse il suo apice nel 1970 esattamente come previsto, indipendentemente dal fatto che solo il 50% delle riserve fosse stato sfruttato. Da allora la produzione iniziò a calare, scendendo da 11 milioni di barili al giorno fino a meno di 7 milioni nel 2006. La geniale intuizione di Hubbert fu quella di capire che la produzione di petrolio in una certa area raggiunge il suo massimo molto prima che la zona in questione sia stata totalmente sfruttata. Questo dipende da due caratteristiche innate dell’industria estrattiva. Per prima cosa il petrolio è comunemente reperibile in giacimenti sotterranei in cui il liquido si trova sottoposto ad alte pressioni.
È la sua stessa pressione a spingerlo verso l’alto attraverso i pozzi. Viene da sé che più olio viene estratto, più si abbassa la pressione del giacimento e di conseguenza la velocità a cui la sostanza viene portata in superficie. Il secondo fattore è relativo alla tendenza delle compagnie estrattive a sfruttare i giacimenti più grandi prima di quelli di dimensioni minori. Solo quando la produzione comincia a calare nei giacimenti principali si iniziano a trivellare quelli più piccoli. Come notato da Hubbert, la produzione in una data zona non si interrompe bruscamente ma raggiunge un picco massimo quando le riserve sono sfruttate al 50% e poi inizia drasticamente a calare. Una domanda sorge spontanea: “Se la teoria di Hubber si è dimostrata affidabile sul modello americano, cosa prevede a livello planetario per il futuro immediato? In che periodo la produzione mondiale raggiungerà il suo picco massimo?”.
Le evidenze suggeriscono che questo momento è molto vicino. Ci sono solo 98 nazioni nel mondo con accesso diretto alle risorse di greggio e la produzione sta già calando in 60 di loro. Paesi come Inghilterra (i cui giacimenti nel Mare del Nord raggiunsero il picco nel ’99), Messico, Norvegia, Indonesia, Colombia, Argentina, un tempo solidissimi produttori, ora stanno assistendo ad un calo di oltre il 40%. La produzione tra gli stati della Organization of Economie Cooperation and Development (in pratica il club delle nazioni ricche) è in calo dal 1997. La produzione mondiale, ad esclusione delle nazioni dell’OPEC (Organization ot Petroleum Exporting Countnes) raggiungerà l’apice tra il 2010 ed il 2020 ma molti esperti sostengono che il picco potrebbe essere già stato raggiunto.
Agli occhi di un surfista la caduta verso il basso della curva di Hubbert non sembra per nulla ripida. Lo stesso, il veloce passaggio dalla crescita alla contrazione potrebbe portare alle stelle i prezzi del greggio innescando una profonda recessione economica. Per l’industria del surf, così strettamente dipendente da idrocarburi e prodotti petrolchimici, la crisi sarebbe devastante.”
Tenendo conto dei tempi di lavorazione che hanno i periodici (Surf News, fra l’altro, è bimestrale), questo articolo deve esser stato scritto verso ottobre/novembre del 2007. Oggi la “crisi devastante” è già arrivata: la vediamo e la viviamo tutti. I surfisti si preoccupano, giustamente per le loro tavole, per le loro mute. E noi, noi nautici, cosa facciamo?
Il direttore di “Barche” mi dice che i cantieri più importanti stanno studiando soluzioni. Studiando soluzioni? Ma qui si chiude la stalla dopo che tutti, ma proprio tutti, i buoi sono scappati, ragazzi.
Nel 1992 un litro di nafta costava 600 lire al litro. Oggi ha un prezzo sei volte tanto… Il pieno (facciamo mille litri) per un cabinato da 12 metri spinto da una coppia di diesel da 270 cv ciascuno, costa (al momento in cui scrivo) 1.350 euro che è qualcosa di più di quanto guadagna in un mese un cittadino medio italiano. E con quel pieno, quella barca copre una distanza di 160 miglia (circa 200, se ha trasmissioni con eliche di superficie)…
Ma il vero dramma è che fra un po’ di nafta non ce ne sarà più. Tutti a vela o a remi? Forse. Non è poi così male.
Ma che ne sarà della nostra “industria nautica” che è stata così poco previdente e che sa benissimo come gli italiani a vela e a remi non ci vogliono proprio andare… Negli Usa, mi dice sempre il nostro direttore che da quelle parti ci va spesso, ci sono licenziamenti nei cantieri sull’ordine delle migliaia di operai. “Ci salveremo perché costruiamo i più bei motoryacht del mondo e chi è ricco non ha problemi a pagare un pieno”, mi è stato detto. Sì, no, non so. Forse. Ma che soluzione è? E i “non ricchi”? Nemmeno il surf potranno fare…
Al recente salone nautico di Dusserdolf la Steyr ha presentato un vero motore ibrido marino. Per info cliccate qui: http://www.steyr-motors.com/products/products.htm
Ha una gamma che sviluppa potenze fra i 150 e i 250 cv, mentre quella del motore elettrico è di 7 Kw. Il fabbricante comunica che
“La soluzione ibrida, che salvaguarda l’ambiente, segna l’inizio di un nuovo capitolo nella storia della propulsione delle imbarcazioni da diporto.
Non solo garantisce zero emissioni di CO2 e la possibilità di eseguire manovre nei porti e di attracco a bassa velocità, e inoltre di navigare in modo assolutamente silenzioso nelle acque interne e nelle riserve naturali, ma elimina anche la necessità di avere a bordo un gruppo elettrogeno separato per l’alimentazione delle apparecchiature di bordo.
La propulsione elettrica a “zero emissioni” consente di raggiungere la velocità di 5 nodi usando solo la propulsione elettrica; è sufficiente girare la chiave di accensione per passare alla propulsione con motore a combustione interna.
L’ingegnoso sistema propulsivo viene quindi accelerato dal propulsore elettrico per far planare l’imbarcazione garantendo così una riduzione del consumo di carburante e migliorando risposta e dinamica.”
E questo è tutto quello che abbiamo, per il momento: circa 250 cv con poca emissione di CO2 e 7 Kw per le manovre in porto. Già. Ma la nafta chi ce la dà?
Che dite, ci facciamo la barca? Oppure l’auto? (Mmm, mi dicono che un solo pneumatico di macchina da Formula 1, costa 1.200 euro… e, d’abitudine, ne servono almeno quattro).
(segue)
Articolo apparso sul fascicolo di maggio 2008 della rivista “Barche” e riprodotto per g.c. dell’autore.
Tutti i diritti riservati. Note Legali
La proposta è simpatica. Ma, a monte, ho una curiosità.
Ad Anzio fate il pecorino con il gasolio? Perché, va bene per le alici, i pescherecci, la follia del greggio e delle sue accise, ma tu mi dici che in trattoria non c’era nemmeno il pecorino…:-)
Scherzi a parte, hai ragione di porti sempre la domanda “Cui prodest?”: fa parte della tua professione e anche di una sana regola di sopravvivenza in un mondo sempre più difficile e pieno di “balordi”.
Io però ho scelto, come Epicuro: “Dolce frutto del bastare a se stessi è la libertà.” E quindi scrivo solo quello che penso e nessuno mi “stimola” a farlo… Capisci a mia? Tranne i compensi professionali del mio scrivere, io, dal mondo nautico, non ho preso/voluto/accettato neppure un chiodo arrugginito… (e pensa che ci sono stati cantieri che mi hanno offerto in omaggio barche nuove da 9 mt ft purché smettessi di scrivere che …andavano a fondo).
Figurati se mi vendo per un litro di gasolio o per un pannello fotovoltaico. Quando mi leggi, non guardare oltre lo specchio…
Ciao, alla prossima.
Antonio
carissimo Antonio,
è vero: lo scopo di un giornalista è informare sui fatti. E tu Antonio lo fai con grande efficacia. E’ che ormai sono un po’ disabituato a tanta chiarezza, sempre incline a chiedermi cosa ci sarà dietro, che cosa avrà voluto dire ecc…
Duemila anni fa Qualcuno disse: “la verità non la dottrina vi renderà liberi” (IV vangelo 8.32), come dire: la verità modificherà il vostro comportamento e vi metterà in condizione di scegliere. Il problema è che non sappiamo quanta verità ci sia nel prezzo di un litro di gasolio.
L’altro ieri a cena con degli amici in una trattoria di Anzio (trattoria, preciso, non ristorante) ho chiesto un piatto di spaghetti alici e pecorino, che come saprai è il piatto tipico questa cucina di mare che coniuga profumi intensi e sapori semplici. Alici e pecorino è Anzio, come Speranzella è Sonny Levi.
Ebbene, non c’erano, niente alici e pecorino. “molte barche da pesca non sono uscite per protestare contro il caro gasolio” mi hanno detto in trattoria. Ad Anzio un chilo di alici costa in pescheria come dieci litri di gasolio, più del costo al chilo di una spigola d’allevamento in bella mostra nella vetrina frigorifera di un ristorante. Ho il timore che anche quello che mangiamo sia molto lontano dalla verità.
E allora ho riflettuto sul mio compito. Come medico, come psichiatra e psicoterapeuta, mi sento in dovere di non nuocere, di non spaventare, di mettere le persone in condizione di cercare soluzioni.
Caro Antonio, propongo un lavoro di squadra: tu informi, io rassicuro. E mi piacerebbe formalizzare il tutto davanti un piatto di alici e pecorino!!
Un caro saluto.
Bruno
Caro Bruno,
innanzitutto grazie per la costante attenzione con cui leggi i miei contributi a questo “blog” che qualcuno di recente ha definito “una autentica enciclopedia della nautica”. (Noto che quasi ogni mio articolo ha un tuo “commento” ma, da bravo “strizzacervelli mancato” quale sono, non ti nascondo che mi diverto a disegnarmi un tuo profilo psicologico sulla base di cosa commenti e di cosa, invece, ignori…).
Hai, comunque, ragione. Sono stato un po’ Cassandra (e questo, di sicuro, aiuterà te ad avere un quadro più nitido della mia psiche…). Cupo, sì. Rassegnato, no.
Come certamente ricorderai, Jean Piaget, lo svizzero teorico della epistemologia genetica, aveva definito questa forma di speculazione, “una ricerca essenzialmente interdisciplinare che si propone di studiare il significato delle conoscenze, delle strutture operatorie intellettuali o delle nozioni, ricorrendo da un lato alla loro storia e al loro funzionamento attuale in una scienza determinata (e queste informazioni sono date da specialisti di questa scienza e della sua epistemologia) e da un altro lato…”
Ebbene, se guardi con attenzione, è proprio quello che dovrebbe fare ogni giornalista- specialista. Dare le informazioni sullo stato dell’arte. Solo dalla conoscenza di una realtà, da un “grido di dolore”, può partire, infatti, quella ricerca di soluzioni di cui parla il modello “post razionalista” da te citato.
Un pensatore raffinato come Ernesto “Che” Guevara sosteneva che l’umanità “fa un passo avanti e tre indietro”. Se a questa caratteristica genetica non diamo la scossa della denuncia, dell’allarme rosso, tu credi che si potrebbe parlare con tranquillità di progresso? Oppure che sarebbe sufficiente aspettare solo l’occasionalità di una nuova “scoperta”? Io temo di no.
E’ vero: nel 1929, Alexander Fleming scoprì, grazie alle sue specifiche ricerche, il “Penicillium notatum” da cui derivò la penicillina e quindi gli antibiotici (ma, pensa tu, il Nobel glielo diedero solo nel 1945..). Però, in contropartita, è altrettanto vero che Alfred Berhard Nobel la dinamite, lui la scoprì solo per caso…
Negli anni Sessanta, il mio buon amico G.B. Frare, provava sul lago di Garda imbarcazioni da diporto spinte da motori all’idrogeno in collaborazione con la Lancia (che all’epoca non era ancora un brand di Fiat). I risultati erano “molto interessanti” ma poi tutto venne messo in “area di parcheggio definitiva” per il solito intervento commerciale delle “sette sorelle”. (Oggi, di fronte alla follia del prezzo del greggio, l’argomento è tornato di attualità).
In questo caso la “perturbazione e conseguente modifica del campo d’osservazione” non veniva dall’osservatore stesso (Lancia, GB Frare) ma, ritornando al tuo testo (e quindi a Von Foerster), proprio da alcune altre “variabili” non opportunamente valutate al momento dell’osservazione stessa.
Il nostro sistema attuale consente una informazione che, ai tempi della peste, non esisteva: non siamo ancora riusciti a sconfiggere l’Aids ma, in parte, lo abbiamo messo sotto controllo in un lasso di tempo quasi dignitoso. Ai tempi dell’Innominato (e del suo famoso “scatolone da diporto” da te citato) ci sono voluti… secoli per risolvere il problema.
Peraltro la stessa “scienza” spesso naviga a vista e prende cantonate mica da ridere: come sai, Guy Papin, docente alla Facoltà di Medicina, dopo che nel 1628, William Harvey aveva annunciato la scoperta della circolazione sanguigna, disse testualmente: “La circolazione del sangue è paradossale, inutile alla medicina, falsa, impossibile, incomprensibile, assurda, nociva per la vita dell’uomo.”
Lo stesso accade in altri campi speculativi.
Ti ricordo, per esempio, l’opinione, del 1874, del critico d’arte Marc de Montifaud: “Cézanne dà l’impressione di un matto che dipinge in una crisi di delirium tremens”(oh, come mi piacerebbe averne almeno una dozzina dei quadri di quel matto!). Oppure, se preferisci, il dettaglio che il povero Vincent van Gogh morì senza aver mai venduto un solo quadro… Come dire, in sintesi, che non ci si può (deve) fidare troppo né degli specialisti né del famoso e famigerato “mercato” che, secondo le attuali teorie, tutto dovrebbe risolvere e regolare. Purtroppo la non allegra realtà è quella definita dal “Che”: un passo avanti e tre indietro…
Sì, certo, come scrivi tu: “troveremo delle soluzioni e continueremo ad andare per mare per diletto”.
Scopo del mio articolo era proprio quello di stimolare la ricerca di queste “soluzioni”.
A raccontare le gesta di “G. 50” e di “Speranzella” basta, infatti, questo blog…. Ma non ti nascondo che mi spiacerebbe non poco dover morire “maledicendo le stelle” come fece, molto banalmente, quel signore contemporaneo dell’Innominato: io non credo alle stelle ma “spero molto” nell’uomo.
Un caro saluto,
Antonio
Caro Antonio,
puoi immaginare quanto trovi sensato il tuo articolo. Lo trovo però anche un po’ cupo e rassegnato, e allora, da bravo strizzacervelli ho pensato di proporre una parola di speranza per tutti gli amici del blog.
Le analisi di Hubbert sono implacabili, fanno però parte di una area di riflessione che in epistemologia viene definita “razionalista”. Mi spiego. Nel momento in cui osserviamo un fenomeno e formuliamo ipotesi su quanto osserviamo dobbiamo prendere in considerazione altri due fattori: primo, la possibilità che l’osservatore perturbi e modifichi il campo dell’osservazione; secondo, che anche in seguito a questa perturbazione come in seguito ad altre variabili non conosciute al momento dell’osservazione, possano in futuro essere trovate altre soluzioni al problema. Questo modello viene definito “post razionalista” o “costruttivista radicale” in accordo con le ipotesi della seconda cibernetica formulate da Von Foerster negli anni ottanta.
Esempio: nel XVII secolo le epidemie di malattie infettive, una fra tutte la peste, decimavano la popolazione europea e non c’erano soluzioni se non il lazzaretto e la quarantena. Anche fra’ Cristofaro nella sua infinita saggezza e bontà non poteva immaginare che sarebbero stati “inventati” gli antibiotici. A proposito, pare che l’Innominato avesse un Pershing 35 metri.
Penso quindi che troveremo delle soluzioni e continueremo ad andare per mare per diletto. Dobbiamo lavorarci certamente un po’ su, le soluzioni arriveranno. Se poi questo non sarà possibile, navigheremo su una barchetta a remi o a vela latina costruita senza resine sintetiche e polimeri ultratecnologici. E intorno al fuoco qualcuno racconterà del G. 50 e della Speranzella. Saremo ugualmente felici. Un carissimo saluto.
Bruno