La barca non è un’ auto… (XXIV puntata) – C’era una volta la barca
48° Salone Nautico Internazionale
Il 48° Salone Nautico Internazionale di Genova si è aperto sabato 4 ottobre. In un mio articolo, apparso su Barche di settembre, avevo scritto che probabilmente si sarebbe trattato di una faticosa e dolorosa “agonia” per molti cantieri. Mi hanno dato della Cassandra. E molti hanno argomentato: “Forse sarà dura per le barche medie, medio-piccole. Ma i grandi yacht non subiscono crisi: garantito”.
Il giorno dopo l’inaugurazione del Salone, il quotidiano “la Repubblica” pubblicava, nella tradizionale rubrica domenicale “Affari & politica” di Giuseppe Turani, un impressionante articolo proprio su questo tema. Conosco il “Peppin” Turani da quasi quarantanni e lo ritengo uno dei pochi giornalisti italiani seri nel settore dell’economia: per questo leggo sempre con molto interesse e attenzione quanto scrive. Vi riporto alcuni brani di quanto ha pubblicato.
Piangono anche i super ricchi? Forse, ma certamente non se la passano molto bene i loro fornitori. L’anno scorso un cantiere navale italiano riceve una commessa da un grande imprenditore per costruire un yacht da oltre 100 metri. I lavori cominciano, ma sei -sette mesi fa si scopre che il signore in questione ha avuto qualche disavventura. Il cantiere, prudente, propone di fermare i lavori.
L’imprenditore è d’accordo e suggerisce: «Diamolo al primo oligarca russo che bussa alla vostra porta». Peccato che l’oligarca lo stanno ancora aspettando adesso, e il mega-yacht se ne sta lì, nel cantiere, mezzo finito e mezzo da finire. Un altro yacht (più normale) è stato commissionato da un calciatore pieno di soldi. Ha versato un buon anticipo, ma ormai sono mesi che il cantiere lo cerca e non lo trova, scomparso. Anche lui ha deciso probabilmente, che è meglio aspettare tempi migliori. E anche in questo caso nessun oligarca russo si è presentato a rilevare il manufatto, forse perché oggi non tira aria buona nemmeno a Mosca, con la Borsa in crisi e tutto il resto. Anche da quelle parti, cioè, i superricchi hanno deciso che per un po’ è meglio adottare il basso profilo e contenere le spese.
Ma dove si ha un’immagine concreta, fisica, del ricco consumatore latitante è nel centro di Milano, nel famoso quadrilatero d’oro, dove ci sono le boutique e le gioiellerie più ricercate del mondo. Ebbene, sono piene più che altro di eleganti commesse molto ben vestite e ben pettinate che si annoiano da mattina a sera. I clienti non ci sono. Stime prudenti dicono che gli affari (una volta alimentati soprattutto da clienti russi e arabi) si sono ridotti tra il 30 e il 50 per cento. Se scendiamo un po’ di livello, constatiamo che il mercato delle auto, in Europa, si è ridotto dal 25-30 per cento. E se gli europei rinunciano all’auto nuova (la cosa che amano di più), vuol proprio dire che hanno già cancellato molte altre cose dalla loro lista degli acquisti.
Quale è il senso di tutto ciò? Significa che la crisi, partita dal sofisticato mondo della finanza, è già arrivata ai consumatori, e non solo a quelli meno abbienti. Ha già colpito anche più su. Non importa quale sia il reddito, la parola d’ordine è: non si compra niente, fino a quando non sarà passata la tempesta.
Personalmente credo di conoscere i nomi sia del “potenziale” armatore dello scafo da 100 metri che quello del calciatore “desaparecido”. Quanto al “quadrilatero d’oro” di Milano, ci abito da oltre una dozzina d’anni e posso tristemente confermare la quasi totale inutilità delle belle e eleganti statuine (commesse) dei suoi flagship stores.
Insomma, non credo che Turani abbia sbagliato né io d’esser stato Cassandra. Purtroppo.
Pochi giorni dopo (venerdì 10 ottobre), lo stesso quotidiano, nel suo “dorso” dedicato alla Liguria riportava una lunga intervista di Costantino Malatto a Elisabetta Carcassi, che è stata capo ufficio stampa del Salone nautico per moltissimi anni. Il tutto era “aperto” con una foto in bn, a grande formato, nella quale si vede l’avvocato Gianni Agnelli che visita i padiglioni espositivi assieme a Giampiero Baglietto (allora, presidente Ucina), a Giovanni Giovannini (presidente della Fieg cioè della Federazione degli editori di giornali) e a me. L’immagine risale a trenta anni or sono e, dunque, ero un bel po’ più giovane. Ciononostante quella pubblicazione ha rischiato di “bruciarmi” una iniziativa che ora vi racconto.
Breve premessa: vesto in jeans, maglione e scarpe da tennis da oltre cinquant’anni ma un giorno, costretto a presenziare ad un matrimonio in cui tutti gli uomini erano in tight e/o smoking e le signore “in lungo”, sono stato costretto ad acquistarmi un abito “normale”, una camicia bianca e un paio di scarpe di cuoio. Dopo quella cerimonia, tutto questo abbigliamento da “messa cantata” era , ovviamente, finito in naftalina. Ma, per il Salone, ho “risuscitato” quell’investimento e mi sono agghindato da “potenziale acquirente di un yacht” e, così camuffato, sono andato in giro per gli stand per vedere come girava il vento in quel di Genova. Confesso altresì che, per migliorare il travestimento, ero andato anche dal barbiere (barba e capelli) e avevo indossato un paio di occhiali da sole panoramici. Seguito da lontano da Carlo Ramerino, fotografo di Barche che, dotato di potente teleobiettivo, doveva da lontano testimoniare i miei incontri, ho iniziato il mio “giro”. Ecco il diario di bordo di quel giorno di crociera a terra…
Caso numero uno
Non sono esperto nell’arte di “fingermi cliente” e quindi incontro subito qualche difficoltà. Non so, per esempio, che mica si può entrare così in uno stand. No. Devi presentarti ad un incaricato, dare tutte le tue coordinate (nome, cognome, indirizzo, telefono, e-mail), dichiarare immediatamente quale barca vuoi visitare (se dici “tutte” sei squalificato…) e, in molti casi, confessare se possiedi già una barca e se sì di che tipo, di quanti anni eccetera. Dopodiché devi controfirmare la scheda per la liberatoria sulla privacy. Mi invento veloce un bel cognome lombardo che non desti troppi sospetti: Brambilla mi sembra perfetto e firmo con uno scarabocchio indecifrabile. Mi fanno entrare nello stand della… ma, per visitare lo scafo, mi pregano di attendere: c’è un po’ di coda. Nel frattempo posso godermi un filmato che illustra la gamma del cantiere. Produce due tipi di scafi un 43’ e un 51’. Dei più piccoli ne ha già fatti nove, del più grande due. “Il nostro nome– dice la voce dello speaker del film- sintetizza la filosofia aziendale. Le due lettere XL sono simboliche del “Massimo” di una scala insieme a rappresentare una forma abbreviata del verbo “Excel”. Le XL vogliono infatti rappresentare il massimo della qualità, delle performance e del comfort nell’eccellenza del design e della marinità”.
Facciamo a capirci. La parola “marinità”, nella lingua italiana, non esiste eppure lo stesso identico lemme figura anche nel testo, a pagina 2, della brochure che mi verrà data alla fine della visita. Bah. Comunque convengo che, per costruir barche, non occorra proprio proprio appartenere alla Accademia della Crusca e perdono il neologismo.
Lo speaker (e il testo della brochure) prosegue:
Gli Open del nostro cantiere sono barche solide, sicure, molto veloci e navigano meglio delle altre perché sono costruite con il credo che in mezzo al mare più solidità e più potenza equivalgono a più sicurezza. L’ineguagliabile assetto di navigazione è dato dalla caratteristica combinazione della sua carena a V profonda (23° gradi a poppa) e del suo diamante di prua concavo che garantisce un’insuperabile tenuta al mare anche con onda formata.
E qui mi sento perso. Perché non ho la più pallida idea di cosa sia il “diamante di prua concavo”: il “Dizionario di marina” di Ilaria Gallinaro e Giovanni Barberi Squarotti (edizioni Longanesi & c.) dà due significati che riporto testualmente:
Diamante, sm. 1. Punto del fuso dell’àncora dal quale si diramano le due marre. 2. Sistema usato per assicurare rigidità e stabilità all’albero senza scaricare gli sforzi sullo scafo, che sfrutta l’azione delle sartie incappellate sulla sommità dell’albero stesso, passate per le crocette e fissate alla sua base. E’ in uso soprattutto nei catamarani ad albero rotante.
Il Treccani e lo Zingarelli (intesi come vocabolari della lingua italiana) ribadiscono entrambi solo il concetto “dell’estremità del fuso dell’àncora, opposta alla cicala, dove si aprono le marre”. Chissà, dunque, cosa mai sarà questo “diamante concavo”? Boh. Però, il non saperlo mi preoccupa perché la sua combinazione con la carena a V profonda garantisce addirittura una insuperabile tenuta al mare anche con onda formata. Domandina facile facile: è difficile tenere il mare quando l’onda non è formata? Non so, chiedo.
Però lo voce dello speaker del filmato mi riporta rapidamente alla realtà. Dice infatti:
Le nostre carene derivano dalla grande tradizione degli open. Uno stile italiano, sobrio, contemporaneo e raffinato è quello che contraddistingue la progettazione degli XL Marine. Dalla linea esterna agli spazi interni dal logo agli arredi, ogni elemento è disegnato fino al minimo dettaglio per creare barche che sanno distinguersi.(…) Il gusto mediterraneo fresco e semplice, le linee filanti e pulite e gli interni personalizzati fanno delle nostre barche il sinonimo di un’eleganza classica e contemporanea.
Fantastico, no? Beh, …insomma: quale mai sarà la “grande tradizione degli open”? Non lo so, giuro. E poi quello importante, quello che davvera conta, è che le barche sappiano “distinguersi”? Da chi? E perché? Altro boh. Cerco di riflettere ma ancora una volta lo speaker me lo impedisce dicendo:
Il vero lusso è poter scegliere. Noi pensiamo che la barca debba poter rappresentare il modo di essere e di andar per mare del suo armatore. Ogni nostra barca è infatti un pezzo unico personalizzato secondo i gusti e le esigenze dell’armatore che può seguirne la costruzione sin dalla fase di progettazione, ad iniziare dai colori di scafo e coperta fin alle essenze ed i tessuti. Il risultato è una barca su misura che rispecchia l’impronta e l’identità del proprio armatore.
Aiutooo… Ma non era “tutto” disegnato (logo compreso) fin nel minimo dettaglio? E ora mi si dice che posso “personalizzare secondo i miei gusti e le mie esigenze”. Capito male? Sapete, in Sicilia per render morbidi i polpi quando si fanno lessi, li mettono nell’acqua solo quando è bollente, poi li estraggono appena l’acqua si cheta, aspettano che torni a 100 gradi e allora li ri-immergono di colpo e procedono così per una dozzina di volte. Ecco: io mi sento come un polpo da lessare: dentro e fuori all’acqua che ustiona. La sensazione è che, con queste raffiche di parole senza logica, mi si voglia “ammorbidire”… se mi seguite.
Finalmente la mia attesa termina e il signor… (“sales” c’è scritto come qualifica nel suo bigliettino di visita) mi invita a salire a bordo. Scopro presto che è una “vecchia lenza” che vende barche da oltre venti anni e quindi cerco di stare ben abbottonato per non farmi scoprire: “Senta – gli dico – mentre aspettavo, ho visto il vostro filmato con gli scafi in navigazione e lo speaker parlava del valore delle vostre carene che derivano dalla “grande tradizione degli open”. Non ho ben capito a quale tradizione facesse riferimento…”. “Vede, mi risponde veloce, noi ci siamo “ispirati” ai Magnum di Theodoli. Sa,… il conte Theodoli che era l’inventore del famoso cantiere di Miami, in Florida.”
Ora io non vorrei fare il cattivo ma più che “ispirata” quella carena mi sembra proprio “stampata” da una scocca di un Magnum… “Lei sa– si affretta a spiegarmi – che un po’ di tempo fa il Gruppo Ferretti ha incorporato il cantiere Itama spostandone però poi tutta la produzione a Fano. E così noi, che siamo ad Aprilia (Lt), abbiamo ripreso tutte le ex maestranze di Itama e abbiamo creato questo nuovo cantiere.” Già. Ora i conti mi tornano: le carene di Itama, infatti, erano proprio quelle dei Magnum, precise precise… E se ne faceva vanto, addirittura! (Gli Itama di oggi sono stati completamente riprogettati e nulla hanno a che fare con le barche di allora).
“E come mai avete preferito usare le trasmissioni tradizionali immerse invece che quelle con eliche di superficie?” domando.
Le eliche di superficie? No: guardi, non vanno proprio bene. Sa perché? Perché hanno un “buco” fra i 12 e i 22/23 nodi. In quelle velocità sono un disastro. Le eliche tradizionali invece garantiscono ogni velocità che l’armatore abbia voglia, bisogno o piacere di avere o che il mare consenta.
Questa del “buco” è proprio nuova e in 36 anni che uso eliche di superficie non l’avevo mai sentita: faccio fatica a trattenere il classico “gulp!”. Certo che l’ha detta in maniera così convinta che sembra ridicolo contestarlo: sono matematicamente certo che rimarrebbe delle sue sbagliate opinioni.
Gli chiedo allora dei serbatoi: “Quello dell’acqua dolce è in centro barca così da garantire un perfetto equilibrio sia quando è pieno che semivuoto”, mi spiega. Sorvolo davanti ad una logica così ferrea.
“Quelli del carburante contengono complessivamente 1200 litri”, mi dice. E qui sbotto: “Ma sono pochi…”
“Pochi? Perché? Montiamo due Yanmar da 480 cv ciascuno oppure due –sempre Yanmar- da 530 cv.” “Sì – intervengo- Il modello più piccolo consuma circa 100 litri/ora al massimo di rpm. Quindi 200 litri/barca/ora. Insomma, a tutta manetta, si hanno appena 6 ore di autonomia, pari a non so quante miglia marine perché qui nel vostro depliant parlate di velocità max di “circa 40 nodi” ma questo dato si riferisce ai motori più potenti che consumano ben di più”. “Ma sono motori “common rail” mi dice il mio interlocutore con il tono di chi chiude il problema. Si vede che i motori “common rail” hanno capacità miracolose che non conosco.
C’è anche da aggiungere un non trascurabile dettaglio. Nel depliant del cantiere, infatti, c’è anche scritto testualmente:
Le velocità riportate sono relative alla motorizzazione massima e si intendono puramente indicative; esse sono state ottenute con imbarcazione in configurazione standard (equipaggiamenti standard installati) con carena, eliche e timoni puliti, con calma di mare e di vento (scala Beaufort indice 1, scala Douglas indice 1) ed in condizioni di carico di prova.
Mmm, quell’espressioni: “puramente indicative” e “condizioni di carico di prova” sono di una vaghezza da brividi.
Concludo la mia visita dopo aver dato una veloce guardatina agli interni che non mi interessano affatto (tanto, volendo, posso farmeli fare come dico io… no?) e, gentilmente, il venditore, accompagnandomi fuori dallo stand, mi consegna una cartella con due cd delle due barche e una scheda tecnica di entrambe. Su quella del modello da 43’ che ho visitato, trovo qualche piccola ma significativa discrepanza rispetto a quanto scritto sul depliant a colori della stessa barca: la capienza dei serbatoi carburante è scesa da 1200 a 1100 litri, la velocità di crociera da 34 a 32 nodi e quella massima da 40 (circa) a 38 nodi (circa).
Il diedro allo specchio di poppa da 23° è sceso a 22°. Peccato: questa mancanza di coerenza fra i dati stampati dal costruttore non mi sembra “elegante”. Però c’è anche una bella notizia: l’assicurazione che le eliche Otman, 4 pale, sono “progettate e costruite per ottimizzare le prestazioni ed il comfort di navigazione”. Vi pare poco? Perché, come potete ben immaginare, ogni altro cantiere le eliche le progetta e le fa costruire per penalizzare le prestazioni delle proprie barche e garantire un pessimo comfort di navigazione… Io mi domando se alla gente piaccia sentirsi prendere in giro in questo modo. Pare di sì.
A questo punto mi chiederete: “E il prezzo?”
Che volete che vi dica: una barca “ispirata” dagli scafi Itama che avevano ricalcato i Magnum i quali erano stati ideati a Miami (Florida, Usa) da Ted Theodoli (e io che ho sempre saputo che i Magnum li aveva fatti Don Aronow e che Theodoli gli aveva semplicemente comprato quel cantiere alla fine del 1976…) ma che viene oggi definita “italiana e mediterranea”, dove tutto è studiato nel dettaglio ma l’armatore se la può fare come vuole lui perché il vero lusso è poter scegliere… beh, mi era passata la voglia di comprarmela. Magari, però, ci ripenso: si sa mai. Nel qual caso saprò dirvi anche il prezzo. Lo sguardo con il quale il venditore mi segue quando esco dallo stand è tutto un programma.
Caso numero due
E’ stata la carena di questo modello a chiamarmi. E a stimolarmi a “giocare” anche con quelli che la producono: a fare, insomma, anche con loro il “falso potenziale cliente di una barca”. Mi spiego: di carene strane se ne vedono tante al Salone di Genova. Alcune sono certamente anche pericolose. Ma quella di questo scafo è decisamente “bizzarra” e inconsueta. A prua si presenta con un V capace di una certa portanza, con uno spigolo classico ma molto largo e con un solo pattino longitudinale. L’asse di chiglia, all’altezza della seconda ordinata di calcolo, diventa uno skeg che prosegue sino quasi allo specchio di poppa e termina con un taglio non verticale ma inclinato di 45° (verso poppa). Il pattino longitudinale muore invece a metà barca. Poco oltre iniziano, una per lato, due piccole derive, tipo skeg, alte grossomodo dieci centimetri e che proseguono sino allo specchio. Le due eliche risultano incassate in semi tunnel ricavati dallo stampo di carena e gli assi sono intubati.
“E’ una carena semi-planante.” mi dichiara un “cicerone” del cantiere. E’ un ragazzo onesto, si nota subito che non ha una grande esperienza come “imbonitore” e un po’ mi dispiace metterlo in difficoltà… Ma, in realtà, sono qui per capire. Meglio: per cercar di capire.
“Semi-planante? Che vuol dire? Una barca o plana o non plana”, dico.
“ Beh, questa può planare. Ma è meglio che non plani.”
“In che senso?”
“Naviga più sicura in dislocamento. Però può montare motori che la possono far filare sino a 30 nodi. Ma è meglio se non li fa…”
“Senta. Io non sono un tecnico ma non ci sono dubbi che questa carena sia profondamente differente da quelle di tutte quelle barche là”, dico, indicando genericamente l’intero Salone nautico. E lui annuisce. “Me la spiega?”, insisto. Mi guarda perplesso.
Mi sento come l’insegnante che cerca di imboccare l’allievo verso la risposta giusta e spiego: “A prua avete due pattini, uno per lato, che, mi sembra di capire abbiano più che altro la funzione anti spray”. Annuisce felice. “Poi- continuo- c’è un skeg centrale…”.
E qui mi guarda come se avessi detto qualcosa che non gli è chiaro. “Un asse di chiglia che sporge sul fondo”, spiego. Sorride e annuisce. “Quindi ci sono due alette laterali… Ecco, per esempio: quelle alette a cosa servono?” “A stabilizzare la barca quando è ferma”, garantisce sicuro. “Giusto”, apprezzo e poi domando: “Ma le eliche come mai sono quasi intubate dentro alla carena?” “Perché così l’acqua va esattamente dove deve andare: davanti alle eliche”.
Non riesco a trattenere uno sguardo di incredulità. Diciamo di stupore. Che lo obbliga a dirmi: “Lei dovrebbe provarla con mare cattivo questa barca”. “Guardi, questo che me lo dicono tutti…”, osservo. E lui: “Mmm, ma questa barca, quando il mare è cattivo, va proprio bene” “Forse non mi crederà ma anche questo me lo dicono tutti”, ribadisco. Sorride disarmato.
Gli spiego: “Senta, non le chiedo di farmi vedere gli interni: sono dettagli che fra costruttore e cliente si sistemano dopo…” Mi guarda stupito e allora spiego: “Beh, intendo che se mi serve un letto da due metri perché ho un amico grande e grosso…” “Ah, sì certo. Anche i colori…”, si affretta a garantire.
Mi sento a disagio perché mi ha consegnato un depliant dove la prima foto mostra la barca in navigazione ritratta di prua: sposta tanta di quell’acqua che fa paura. Nella seconda immagine presa lateralmente, il treno d’onda è impressionante…
“Ma come nasce questa carena?” chiedo.
“E’ ispirata da antiche barche da pesca nordamericane.”
“ Ma ha anche qualcosa che ricorda quelle che faceva Vincenzo Catarsi negli anni Settanta…”
“Beh, noi siamo più o meno nella stessa zona…”
“Ma l’avete studiata voi questa opera viva?”
“Veramente abbiamo rilevato degli stampi da un cantiere che non era andato bene”.
“Capisco”.
Sul depliant, a pagina 3, alla voce carena sta scritto testualmente:
…si presenta con un V moderata, geometrie variabili e addolcita a poppa, assicura grande manovrabilità e tenuta di mare, sotto la spinta dei due potenti motori da 150 cavalli ciascuno, si esprime al meglio raggiungendo punte di velocità di 30 nodi e assicurando velocità da crociera da 25 nodi.
Però, nella pagina precedente (pagina 1), dove si parla in generale dello scafo, si legge (sempre testualmente): “Il profondo V della carena, nella parte anteriore, si attenua verso poppa…”.
Insomma: questa V di prua è “profondo” o “moderata”? Per 118mila euro (con due VM da 150 cv) mi piacerebbe saperlo anche se la carena è quella di uno stampo comprato da un fallimento. Ohvvia…
Caso numero tre
Visitare questi cantieri “corpo classico, anima jazz” (come specifica la loro brochure “company profile”) non è impresa semplice semplice. Mi presento verso le 12, mi “registrano” ma poi mi chiedono se posso ritornare nel pomeriggio perché l’attesa per la visita sarebbe troppo lunga. Fissiamo per le 15. Intanto mi danno la brochure nella quale leggo importanti elementi storici inerenti il rapporto fra la città di Ferrara e l’acqua (Po di Volano) e degli importanti riconoscimenti che l’Unesco ha riservato a questa area (patrimonio mondiale dell’umanità prima come città del Rinascimento, poi per il Delta del Po e per le Delizie estensi). Da non trascurare, sempre per “rilevanza storica”, il fatto che Ferrara “è divenuta la sede italiana del Museo dell’Ermitage, risultando così essere la quinta città al mondo ad avere legato il proprio nome con il museo russo”. Scopro, infine, che nel quattrocento ci abitavano Piero della Francesca, Pisanello, Leon Battista Alberti, Andrea Mantegna mentre nel secolo successivo vi bazzicavano ragazzi come Tiziano, Bellini, Ariosto e Torquato Tasso. Ohoo!, un po’ di buona cultura non guasta mai. Ma il cantiere è a Ferrara? No. E’ in un paese vicino. Secondo Google si trova a oltre 31 chilometri dalla città degli estensi. Però tutto fa brodo: tanto né il Tasso né Piero della Francesca facevano barche.
Questi cantieri sono nati nel 1995 ed hanno iniziato a produrre una barca definita “imbarcazione a vela e motore di alta gamma”. Ne hanno fatto, dice la brochure, 50 esemplari e poi sono passati alla gamma attestando il cantiere come uno dei marchi leader in Italia nella produzione dei “Lobster boats”, rivisitati e riprogettati in chiave mediterranea, e stilizzati semplificando le linee, creando così imbarcazioni moderne, ma “senza tempo”. Capito niente? Io no. Ma forse non è la mia giornata migliore… O forse mi converrà rivolgermi ad un filosofo perché il concetto di “moderno ma senza tempo” non mi è chiarissimo.
Quando, alle 15, torno allo stand per effettuare la visita promessa, un signore dall’aria molto imperiosa scruta la mia scheda, mi soppesa con lo sguardo, richiama un giovane collaboratore e, senza profferir verbo, mi indica facendo oscillare ripetutamente su e giù il dito pollice. Traduzione dal linguaggio dei muti: “Occupati di questo rompi…”. Il bodyguard con coda di cavallo che staziona all’ingresso dello stand mi degna appena di una occhiata e poi fa cenno di sì con la testa: posso entrare.
Il giovane accompagnatore non ritiene necessario presentarsi, mi fa cenno di seguirlo e mi precede sulla scala che porta al pozzetto del modello: un grande cartello garantisce che è “la novità” del Salone. E’ una barca da 12,90 m ft (10,55 m al galleggiamento) che ha le stesse caratteristiche del modello 400: eguale lunghezza, larghezza, immersione, motorizzazione, serbatoi (acqua dolce, carburante, acque nere). Sono eguali anche linee dell’opera morta e le piantine degli interni pubblicate nella brochure. Cambia solo il dislocamento a pieno carico. La spiegazione è data dal fatto che un modello viene considerato “versione classica” e l’altro “versione sportiva” ma entrambe sono “accomunate dal piacere per le forme eleganti e dalla comodità degli interni”, parola di brochure.
La spinta è assicurata da 2 motori non identificati da 400 cv ciascuno. Le velocità non sono dichiarate e quanto alla carena è perfettamente nascosta dalla struttura dello stand che la copre praticamente tutta, da prua a poppa.
Inutilmente ho cercato di “carpirne” i segreti cercando di spostare il tavolato coprente, così è proprio a questo proposito che rivolgo la mia unica domanda al mio accompagnatore: “Senta, questa carena è un po’ misteriosa…”, esordisco. “In che senso misteriosa?” “Bah, è tutta coperta. Non si vede nulla…”, spiego. “ Ah, ma quello lo ha fatto chi ha allestito lo stand” borbotta. “Va bene- insisto- ma mi dica della trasmissione. Usate eliche immerse?” “Immerse?” “Sì, immerse” “No, no”, dichiara un po’ preoccupato da questa domanda così sospetta. “Allora usate degli idrogetti o delle trasmissioni con eliche di superficie?” arrischio. “Nooo, no, no: quella “roba” americana noi non la usiamo. Noi abbiamo gli assi, i cavallotti e le eliche”, dice tutto di un fiato. “Insomma avete eliche “classiche”, immerse”. Ribadisco. Mi guarda e fa spallucce come dire: “se le vuoi chiamare così”. E come devo chiamarle?
Mi sembra totalmente inutile continuare a perder tempo e faccio per andarmene quando sento che dice: “La barca costa 470mila euro”. E lo dice con la certezza che nel mio conto in banca quella somma non c’è mai stata. Né mai ci sarà.
E poi specifica: “Con gli Aifo”. E’ un vero peccato che i motori Aifo non esistano più. Oggi si chiamano Ftp.
Torquato Tasso nel suo “De la dignità” immagina un colloquio fra Agostino Bucci e Antonio Forni. Ad Agostino fa dire: “Ma quando l’operazioni son tali che possano lasciare altrui dubbio s’elle son fatte con vizio o con virtù, possiamo accertarci s’elle son buone o ree co ‘l prestar fede al giudicio del volgo?” Ad Antonio (un nome, una garanzia) fa rispondere: “Molto fallace suole essere il giudicio del volgo”.
Però sappiamo che il Tasso, proprio quando viveva a Ferrara, era afflitto da una grave forma di “ossessione eretica”. Che sia una malattia endemica?
Un articolo di un quotidiano oggi titola: “C’era una volta l’auto”. Le argomentazioni sono quelle che immaginate: i costi del carburante, quelli di gestione, di assicurazione, la contrazione dei consumi persino nei generi alimentari eccetera. Si parla di una fusione fra le grandi industrie americane di Detroit. L’ipotesi viene definita “un colosso dai piedi di argilla”. Il futuro, a detta dell’autore, è nero. Nerissimo.
Visti i cantieri che ci sono in giro, quello che dicono e che scrivono, il modo in cui si comportano, l’ignoranza tecnica che li caratterizza (certo non tutti sono così ma…) chi avrà coraggio di scrivere “C’era una volta la barca?”. Io.
Articolo apparso sul fascicolo di dicembre 2008 della rivista “Barche” e qui riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Salve Sig. Miura,
purtroppo Antonio Soccol in questo momento non è in sede e quindi non può rispondere alla tua domanda. Per poterti aiutare circa il tuo quesito, penso sia meglio che tu ci invii qualche foto del megayacht a cui fai riferimento, in modo che al ritorno di Antonio, presumibilmente verso il 20 Gennaio, possa visionarla e risponderti.
Cordialmente,
Giacomo Vitale
Salve Sig. Soccol, rinnovo i miei auguri di un Sereno Natale, a proposito di megayacht è da più di un anno che vedo a Pisa (uscita autostrada) prima dell’aeroporto un megayacht con scafo in acciaio e sovrastruttura in alluminio ancora da finire, è sempre lo stesso ??? Non sono di Pisa ma ci passo almeno ogni 15 gg. Di nuovo i miei migliori saluti