Circolo Nautico Torre del Greco, il porto, i cantieri navali (I puntata)
Cenni storici del Circolo Nautico Torrese, l’affermata cantieristica tradizionale, la nota Marineria…
di Giacomo Vitale
Il 20 novembre del 2009 partecipai presso il Circolo Nautico di Torre del Greco alla presentazione del libro: “1969 rotta verso l’Antartide” – La prima spedizione verso l’Antartide di Giovanni Ajmone Cat scritto da Antonino Russo: 1969 Rotta per l’Antartide – La prima spedizione di Giovanni Ajmone Cat di Ferruccio Russo
Ebbi modo, in quella occasione, di conoscere oltre ad alcuni dei partecipanti a quella storica impresa, anche il Presidente del Circolo Nautico di Torre del Greco, dott. Aldo Seminario e l’ing. Gianfranco Busatti, che fu il moderatore di quella indimenticabile serata in cui con questo libro, si è voluto lasciare un significativo ricordo, sia sul personaggio “Giovanni Ajmone Cat” e sia sulle sua gesta di Comandante esploratore dell’Antartide, che alle sue latitudini estreme, lo impegnarono assieme ai suoi equipaggi in un viaggio difficile e ricco di eventi che sono stati sintetizzati anche qui su Altomareblu.
Questa avventura va necessariamente letta, così come raccontata nel libro scritto da Antonino Russo, in cui è stata fatta una ricostruzione scrupolosa di quell’evento. Questo viaggio avventuroso aveva però un grande partecipante, il motorsailer armato a feluca “San Giuseppe Due”, costruito nel cantiere Palomba di Torre del Greco da valide ed abili mani di due validissimi mastri d’ascia Girolamo & Giuseppe, anche loro due marinai e cittadini torresi, nati e cresciuti nell’omonimo cantiere che da circa centosessanta anni, tramanda mediante la loro famiglia, la tradizione delle costruzioni in legno classiche…
Negli interventi di quella sera, sia il Presidente del Circolo, Aldo Seminario, che Gianfranco Busatti, entrambi personaggi di rilievo che vantano una presenza all’attivo del Circolo di lunga data, il secondo è stato più volte Presidente dell’omonimo Circolo ricoprendo vari incarichi, mi colpirono particolarmente per quello che avevano detto in riferimento alla città di Torre del Greco, alla sua cantieristica, alla storia del Circolo stesso, nato tra l’ entusiasmo dei suoi fondatori ed andato avanti da oltre cinquant’anni, affrontando anche momenti difficili, ma sempre brillantemente superati con la determinazione e la passione di tutti i coloro che sentivano la responsabilità ed il piacere di mantenerlo in vita per portare avanti gli scopi per i quali era nato.
Fu così che mesi fa decisi di chiedere al Presidente del Circolo Nautico di Torre del Greco, dott. Aldo Seminario, se mi poteva fornire documenti e storia del loro circolo e della loro città, viste le grandi attività e tradizioni cantieristiche e di naviganti che hanno i torresi noti nel mondo, per pubblicare la storia del Circolo e delle tradizioni marinaresche rappresentata da marinai e naviganti.
Con grande gentilezza e disponibilità il Presidente Seminaro mi ha donò un volume finemente realizzato, in occasione del Cinquantenario della nascita del Circolo e intitolato “Circolo nautico Torre del Greco”, scritto da Gianfranco Busatti, dal quale poter trarre tutti gli spunti e le foto necessarie al mio intento e destinato a quei Soci che hanno con il Circolo, per una qualsiasi ragione, un rapporto di affetto, credendo ancora nella qualità dei valori sociali e sportivi, capaci di coltivare, in questo tipo di società, gratificanti rapporti umani.
Devo dire che la lettura del libro è stata molto bella e piacevole, scritto con vera passione ed in modo lodevole, ha riportato alla mia mente ricordi ormai passati che avevo accantonato, forse quasi dimenticato, ma è stato un piacere immenso ed anche una forte commozione riviverli. Per questo motivo ho deciso di pubblicare alcune parti in cui e stata divisa la narrazione e la realizzazione del libro, che non è in vendita, riportandole integralmente e ringrazio molto, sia l’autore Gianfranco Busatti, che il Presidente Aldo Seminario, per averlo consentito, permettendomi di divulgare mediante AltoMareBlu, la storia di uomini e della nota marineria Torrese che, nonostante i tempi, continuano ad esercitare arti e tradizioni antiche, trasmettendo ai giovani un messaggio tecnico, umanistico e storico di immenso valore, salvaguardando arti, mestieri e tradizioni sportive che diversamente rischierebbero di finire per sempre nel nulla.
L’ambiente negli anni della rinascita
di Gianfranco Busatti
Negli anni ’50 Torre del Greco era un’altra città. Chi se ne fosse allontanato allora, per tornarvi oggi, stenterebbe a riconoscerla e sarebbe in difficoltà nell’individuare certe strade e certi quartieri, quasi fosse in un altro paese.
È vero che ciò è accaduto un po’ dovunque, ma nel più grande Comune vesuviano la trasformazione ha inciso profondamente in tutti gli aspetti della vita cittadina, nel bene e nel male.
In quegli anni la gente aveva ancora negli occhi e nelle coscienze la tragedia della guerra; a questa si era aggiunta, quasi a completarla, la drammatica ultima eruzione del Vesuvio. Le macerie, come si usa dire in questi casi, erano ancora fumanti e le ferite dolevano ancora parecchio. Ma quelli erano anche gli anni della voglia di risorgere, di tornare a vivere, di ricominciare da capo. Gli uomini correvano ad imbarcarsi sui vecchi Liberty o sulle nuove, orgogliose e potenti navi passeggeri protese sulle rotte atlantiche, mentre le tradizionali attività artigianali riprendevano a prosperare. Le case, simbolo di fiducia in un benessere tutto ancora da conquistare, cominciarono a crescere freneticamente e disordinatamente senza risparmiare niente, stravolgendo il caratteristico tessuto urbano cittadino, tipico dei Paesi del Golfo.
A quei tempi Torre del Greco era molto conosciuta ed apprezzata, pensate un po’, come località di villeggiatura. Era uno di quei posti dove volentieri si veniva a passare l’estate, dove si venivano a trascorrere serenamente le vacanze con tutta la famiglia. Facilmente raggiungibile da Napoli, godeva di un clima eccezionale, protetta alle spalle dal Vesuvio e bagnata da un mare ancora trasparente che mitigava la calura, aiutato da una vegetazione rigogliosa e ridente. Le famiglie della buona borghesia napoletana, docenti, professionisti, artisti, avevano in Torre del Greco un punto di riferimento costante per il loro riposo estivo.
Chi non ricorda Enrico De Nicola che scrisse all’ingresso della sua casa fra i pini “inveni portum” o nelle commedie di Eduardo, le numerose citazioni della villeggiatura in campagna, a Torre del Greco?
Per molte famiglie la “villeggiatura” coincideva quasi sempre con l’intero periodo della chiusura estiva delle scuole. Ben volentieri, infatti, il capofamiglia dalla metà di giugno fino alla ripresa autunnale, si assoggettava ad un pendolarismo tutto sommato rilassante. I più fortunati andavano e venivano in macchina, percorrendo la famosa ed ancor facile autostrada Napoli – Pompei; gli altri, più modesti o meno frettolosi, usavano la “Circumvesuviana”, trenino dalla puntualità svizzera che snodava il suo sferragliante percorso nel profumo caldo delle ginestre in fiore ed all’ ombra ariosa delle pinete.
S. Antonio, Via del Monte, Via dei Monaci, Viuli, le stazioncine dai nomi un po’ romantici, nascoste tra i pini ed immerse nel silenzio estivo, interrotto soltanto dall’ arrivo del treno e dalla sua successiva partenza, annunciata dal capotreno con un buffo, indimenticabile, suono di trombetta; oppure lacerato dal veloce passaggio di un raro, altezzoso “direttissimo” carico di variopinti turisti diretti agli scavi. Tra i rami le cicale interrompevano infastidite il loro chiasso per riprenderlo più convinto di prima allo sparire del convoglio. Un’immensa distesa verde, punteggiata di poche coraggiose case, si stendeva fino a lambire il temibile cono del vulcano, completamente calvo e dagli inquietanti riflessi viola.
Un’ esile striscia di sabbia nera e bollente, alla quale si arrivava per poche stradine lastricate a “basoli” vesuviani e sulla quale si affacciavano direttamente gli albicocchi, era la meta naturale e preferita di tutti i villeggianti. A loro si univa, in un rito che puntualmente si ripeteva di anno in anno, la gioventù cittadina. Infatti la popolazione più attiva della spiaggia era in massima parte di giovane età, mentre agli adulti, soprattutto alle mamme, era riservato
il compito di una discreta vigilanza sugli approcci, sulle festicciole, sugli appuntamenti per la sera in villa. “Lido delle Sirene”, “Incantesimo”, “Lido De Rosa”, “Cavaliere” erano i nomi degli stabilimenti balneari che si dividevano comodamente una spiaggia lunga e stretta, punteggiandola con le loro sconnesse cabine di legno, dall’improbabile riservatezza, ma dai colori brillanti, resi più accesi dalla verniciatura stagionale e da un sole che le investiva dall’ alba al tramonto. Più tardi, molto più tardi, il “Miramare”, primo esempio di vero stabilimento strutturato, in cemento, ma anche primo sintomo di quel che accadrà in seguito.
Furono questi i luoghi dove cominciarono a frequentarsi ed a prender vita molte famiglie della nuova generazione. Quante cotte, quanti amori, più o meno duraturi, più o meno innocenti, hanno visto quelle terrazze! Quante avventure da raccontare vanitosamente la sera, fra una festa da ballo e l’altra, al fresco dei giardini! Quante gelosie e patimenti per una conquista fallita, per un si negato! Qualcuno si chiederà come mai si indugi su questi aspetti di vita torrese, che poco sembrano avere in comune con la storia che ci sta a cuore. In realtà non è così. In questa specie di cornice si cerca di mettere a fuoco il rapporto che a quell’epoca Torre del Greco aveva con il mare o per lo meno con un certo tipo di mare.
Su questo rapporto, su questo stereotipo “Mare-Torre del Greco” ci sarebbe da scrivere interi volumi. Ma sull’argomento molto inchiostro è stato già consumato e Torre del Greco, di validi studiosi della propria storia e delle proprie tradizioni ne conta in gran copia.
Come si è detto, la ripresa delle attività produttive in tutta Italia era coincisa, a Torre, con la ripresa massiccia dell’esodo dei “marittimi” locali verso la grande navigazione, a discapito ovviamente delle attività artigianali, di minor impatto quantitativo, ma certamente di peso specifico ben diverso nell’economia locale. Il marittimo torrese, figura mitica ormai nella storia di questa città, è ben conosciuto nel mondo. Lo sanno tutti che in ogni angolo del Globo è facile che ti capiti d’incontrare qualcuno di Torre del Greco o di passaggio o residente sul posto. Qualcuno che, nella maggior parte dei casi è riuscito a far fortuna, ma che sempre vi manifesterà la nostalgia che si porta appiccicata addosso. Ma questa è storia nota a tutti. A noi, come si è detto, preme di capire ed inquadrare il rapporto problematico di questa città con il mare. Non sorrida il lettore! In realtà il problema esiste, anche se può sembrare paradossale.
Intanto non bisogna dimenticare la grande differenza che c’è fra il “marittimo” ed il “marinaio”. Crediamo che, tralasciando l’analisi dei termini, tutti comprendano, dopo qualche riflessione, l’essenza di questa distinzione. Si può dire che la maggior parte della popolazione torrese, che dal mare per decenni ha tratto possibilità di vita e di sviluppo, appartenga alla prima delle due categorie, mentre quell’ altra, quella dei “marinai”, rimane relegata ad una misura numericamente molto ridotta.
Hanno contribuito entrambe a diffondere nel mondo l’immagine un po’ generica e ovvia di una Città che vive sul mare, per il mare e grazie al mare, ma noi sappiamo che esistono caratterizzazioni diverse di questi contributi. Il “marittimo”, lontano dalla famiglia, sottoposto a lavori spesso massacranti per qualità e quantità, vede nel mare ciò che il bracciante vede nel campo da arare e da coltivare, vede, in altre parole, il teatro della sua fatica o peggio, talvolta, della sua sofferenza. Egli difficilmente potrà amare il mare, come improbabile sarà il suo legame affettivo con la grande nave, con la quale avrà nella maggior parte dei casi un rapporto spersonalizzato e per lo più limitato a determinati ambienti o settori di lavoro.
Differente la figura del “marinaio”, sia esso pescatore, velaio o motorista. La stessa fatica, la stessa sofferenza, ma mescolate con un sentimento di profondo attaccamento all’ elemento ed alla barca; un sentimento d’appartenenza dell’uno all’altra, un sentimento che non è esagerato definire d’amore. Questi gli attori. E la scena?
Il Porto di Torre del Greco nei primi anni cinquanta, si presentava in modo ben diverso dall’ attuale. L’attività legata alla ricostruzione della flotta peschereccia e delle” coralline” – un mito della marineria torrese purtroppo dimenticato – era molto intensa. Lo dimostrava la confusione che regnava tutto intorno e che colpiva chiunque percorresse la strada che circonda lo specchio d’acqua da un capo all’ altro, da levante a ponente e che fa da corona alla successione dei cantieri che si snodano senza soluzione di continuità. Dal lato opposto, quello a monte, un’ alta muraglia di lava testimonia imponente le antiche distruzioni patite dal Paese ad opera del Vesuvio.
Su questa strada, dicevamo, si trovava di tutto: Rotoli di cordami, cavi d’acciaio, catene, vecchie e pesanti ancore ammiragliato, “ingegni” in disuso o in parcheggio, cataste di legnami di tutti i generi, messi lì un po’ in deposito, un po’ a stagionare.
Chi abbia percorso questa strada, almeno una volta, non avrà dimenticato l’odore caratteristico sprigionato da questo miscuglio di materiali, un odore che ti rimaneva appiccicato addosso come fissato da un altro, forte e penetrante che scendeva dagli scali, quello della stoppa e del catrame bollente che i calafati usavano copiosamente nel loro lavoro quotidiano. I cantieri dalle vecchie tradizioni erano noti in tutta Italia per la bravura nelle costruzioni in legno e nella relativa manutenzione. Dai loro scali, disposti ad arco sul porto, faticosamente salivano e dolcemente scivolavano i mezzi da lavoro – così vanno chiamati pescherecci e coralline di quella fetta di popolazione marinara che incarnava più di tutte la tradizione del paese.
Cominciavano a vedersi, per la verità, le prime imbarcazioni da diporto, rigorosamente in legno ed in altri materiali tradizionali. Quelle che un po’ ironicamente già venivano definite “ferri da stiro” erano in realtà barche frutto di progetti accurati e costruite con le tecniche e la qualità riservate alle barche da lavoro, destinate quindi a durare nel tempo e concepite per affrontare ogni condizione. Rapida fama conquistò in questo genere di costruzioni il Cantiere Massa, del Cavalier Ciro, il più a Levante di tutti, insieme all’ altro dal nome celebre e carismatico, quello degli Aprea. Poi via via tutti gli altri, che si snodavano verso Ponente; i grandi cantieri, da Palomba a Speranza, ultimo, vicino alla casa del Pescatore, alla radice del molo foraneo, sotto l’imponente mole dei Molini Marzoli.
Punto notevole in tutti i Portolani, con la sua elegante e snella ciminiera, questo complesso, una volta motore delle attività commerciali del porto, costituisce oggi uno splendido esempio d’archeologia industriale che, fatto oggetto di un preciso progetto ed affidato agli specialisti in materia, sarebbe potuto diventare un punto di riferimento straordinario per le attività culturali e sociali della Città che ne è così povera.
Nelle mattinate d’inverno, quando il mare è immoto e la foschia è spessa e bassa, ti colpivano da Via Calastro i rumori nitidi dei cantieri, ancora non contaminati dal frastuono osceno del traffico cittadino. E potevi riconoscerli tutti: i colpi misurati dei maestri d’ascia, il lamento delle seghe a nastro, il martellare dei carpentieri, lo sfrigolio di una saldatrice. L’aria era tutta impregnata da quell’indimenticabile misto odore, di legno appena tagliato, di grasso e di catrame. In qualche vecchio bidone bruciavano gli sfridi, dando il loro ultimo contributo agli odori ed un modesto sollievo alle ossa umide dei lavoranti.
Che grande museo all’aperto sarebbe oggi quel pezzo di vecchio porto! Eppure sono passati poco più di cinquanta anni. Ma, si sa, il progresso e la tecnologia hanno gli stivali dalle sette leghe e di tutto ciò non resta ormai che il fascino già antico di una cartolina ingiallita. Sul lato di Levante spiccava la chiesina di Portosalvo. Poggiata sull’ultimo braccio di lava spentosi in mare, dominava la scena con la sua gradevole architettura tutta mediterranea, immagine romantica e rassicurante, se pur segnata dalle rughe impietose del tempo e dalle offese del mare. Il quartiere circostante, quanto a degrado, non era da meno. Del resto le possibilità economiche, a tutti i livelli, non erano certo floride in un paese ancora pieno di dolorose ferite. A questo si aggiungeva una totale incuria e la pratica di abitudini collettive e personali che facevano ritenere il mare un incolmabile, vorace e benefico sversatoio, per ogni genere di rifiuto. Questo va detto, non per porre l’accento su situazioni ed abitudini deprecabili, del resto all’ epoca praticate ovunque per mancanza di quella sensibilità verso l’ambiente oggi molto più diffusa, ma perché tali situazioni avranno, come vedremo, un loro ruolo, una loro incidenza negli eventi che porteranno alla nascita del Circolo Nautico in quell’ angolo di Porto.
A completamento di questo frettoloso e modesto ritratto, a cavallo fra l’immediato dopoguerra e gli anni, per certi versi catastrofici, del boom economico ed edilizio, va detto che la struttura portuale torrese trovava la sua principale ragion d’essere, oltre che nella sullodata attività cantieristica, nel suo ovvio ruolo di rifugio, sebbene incerto e precario, per le barche dei pescatori e per le coralline, fra una campagna e l’altra di pesca del corallo. Incerto rifugio, si è detto e non senza ragione. li Porto, infatti, non gode di nessun ridosso naturale; anzi, nella regolare ed arcuata costa che si snoda da Napoli alla Torre Scassata, si presenta quasi come una protuberanza, frapponendo ad unica difesa, fra le banchine ed il mare, il suo lungo e massiccio molo frangiflutti.
Il Porto, aperto a Mezzogiorno, per evidente necessità di favorire le manovre a vela, con una bocca molto ampia fra la scogliera di lava ad Est e la punta della severa ed imponente struttura foranea ad Ovest, subiva inevitabilmente la traversia dei venti del terzo e quarto quadrante. Una sofferenza continua per i pescatori che, almeno una volta l’anno, erano costretti ad ingaggiare ore e giorni di battaglia per la vita stessa delle loro barche, nell’ attesa che il micidiale Libeccio girasse finalmente a Maestro.
Epiche alcune mareggiate! Sarà particolarmente drammatica quella del Gennaio 1987 che stravolgerà completamente le difese e la configurazione del Porto. Una breccia orribile si aprì nel molo ed il mare arrivò a minacciare gli edifici e le abitazioni, distruggendo imbarcazioni, cantieri ed attrezzature. Si avrà allora, finalmente, una certa sensibilizzazione delle Autorità preposte e prenderà il via una lunga e lenta serie di trasformazioni che incideranno, in modo positivo, sulla sicurezza e sulla qualità dei servizi portuali.
Forse anche per questi motivi la nautica da diporto si è sviluppata a Torre del Greco più lentamente che altrove, nonostante la presenza di validi cantieri, di bravissime maestranze e di grandi esercizi commerciali ben forniti di materie prime, strumentazioni ed attrezzature, nei quali si può ottenere valida assistenza e consulenza, frutto di un’ esperienza e di una cultura d’antica origine.
Ancora oggi i diportisti locali, per la maggior parte, sono tali soltanto per due o tre mesi all’ anno, preferendo portare in rimessaggio la propria barca al soffiare delle prime sciroccate autunnali. In quegli anni la Napoli sportiva e marinara cominciava a prepararsi, con entusiasmo e competenza, ad un grande evento che l’avrebbe vista protagonista assoluta: Le Olimpiadi della Vela. Tutti i circoli napoletani, fra i più prestigiosi d’Italia, subivano grandi trasformazioni ed ammodernamenti. All’ attività, per così dire, strutturale, si affiancava quella sportiva, programmata per preparare gli atleti che avrebbero rappresentato l’Italia nel più importante agone mondiale, in una disciplina che vedeva Napoli primeggiare insieme a Trieste e Genova, costituendo, le tre città, il famoso “triangolo velico italiano”.
Il Golfo di Napoli, già noto in tutto il mondo per le sue bellezze naturali, si apprestava a diventare il teatro delle gesta dei più grandi velisti del mondo, ed a conquistare l’appellativo, mai più revocato, di “Stadio del vento”. Torre del Greco è al centro di questo meraviglioso golfo, dista infatti appena sei miglia marine da Napoli, ma questa distanza, dal punto di vista velico, era allora “siderale”. La città vesuviana non visse nemmeno da lontano, nemmeno in piccola parte, quello straordinario fermento che invece lascerà il segno nel mondo della vela napoletana. Non ne scaturì neanche una piccola scintilla per accendere una passione, uno spunto, per generare un seme. Pochissimi forse, a distanza di tanti anni, sanno che le Olimpiadi della Vela, nel 1960, hanno sfiorato le scogliere della Scala.
E dire che i velieri dell’ottocento, grandi e piccoli, nascevano a Torre; che il Porto era stato concepito così com’è per facilitare le manovre a vela. E dire che le vecchie cartoline ci mostrano lo specchio d’acqua e gli scali ingombri di alberi, pennoni e vele.
Ma, come si è detto, tutto ciò per i Torresi rappresentava lavoro, sacrificio e spesso dolore. Il “diporto” e lo “sport” sono ricreazione, evasione e divertimento. Per questa gente 1’evasione, ammesso che ve ne fosse stata la possibilità, non poteva certo essere rappresentata dall’ andar per mare.
Si racconta, a tal proposito, un illuminante aneddoto. Un vecchio marinaio confidava agli amici una sua grande aspirazione: arrivato il giorno del riposo si sarebbe messo un remo in spalla e si sarebbe avviato nell’ entroterra; appena qualcuno avesse scambiato il suo remo per una pala da forno si sarebbe fermato. Lì avrebbe messo su casa.
Ad una situazione di disinteresse, come si è detto motivato da tante ragioni sociali, culturali ed economiche, si aggiungeva il fatto che, sotto l’aspetto Iudica e sportivo, la nautica da diporto torrese mancava di qualsiasi punto di riferimento locale. Al seme, se vi fosse stato por¬tato da un vento occasionale, sarebbe mancato in ogni caso, non solo il coltivatore, ma l’humus stesso.
(Continua..)
Gentile Gabriele,
nel confermarti che abbiamo ricevuto la tua richiesta, domani mattina ci informiamo con precisione dove si trova il Cantiere Aprea a cui fai riferimento e ne diamo notizia in questo spazio, visto che nei pressi dell’indirizzo che hai indicato risultano essere presenti tre cantieri con denominazione diversa.
Tuttavia esiste in Largo Portosalvo 18, sempre nel porto di Torre del Greco un cantiere che si chiama Mini Nautica Aprea Tel. 081 882 73 40.
Grazie per averci scritto e per il gentile augurio, precisiamo però che AltoMareBlu non è un’associazione.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Gentili Signori, buona sera.
Ho acquistato un gozzo avente fattura originale n.06 dell’11.05.1991, rilasciata da: CANTIERE NAVALE APREA potreste aiutarmi reperire qualche informazione?
Es.: il costruttore esiste ancora, ha spostato sede e denominazione? Grazie per quanto potrete fare, invio i più cordiali saluti e gli in bocca al lupo per la vostra associazione.
Gabriele Cesari