Suez – ultima puntata
di Franco Harrauer
Quando nel 1940 la guerra raggiunse il continente africano, le forze opposte italo tedesche da un lato e britanniche dall’altro si trovarono strategicamente un ipotetico campo di battaglia con una frontiera di tremila chilometri tra l’Egitto e la Libia. Un campo di battaglia ideale, dal punto di vista strategico, dove le divisioni corazzate potevano affrontarsi e “navigare” come squadre navali, due flotte a confronto.
Una guerra di movimento, come più tardi fu dimostrato dalle fulminee avanzate e dalle altrettanto rapide ritirate delle forze in campo, ma tutte svoltesi in una fascia costiera relativamente molto limitata. Perché non furono possibili le grandi manovre di aggiramento con la creazione di “sacche“ ove intere armate furono annientate come sul fronte russo?
Una realtà geografica che pochi strateghi conoscevano era l’esistenza di un ampia fascia di terreni desertici assolutamente intransitabili, come fosse un immane campo minato. Questa barriera che a Sud partiva dall’enorme e misterioso altopiano composto dai crateri vulcanici dell’ Arkenu, del Gift el Kebir e dal Jabal al Qwajrat a 23° di latitudine Sud, cioè al confine con il Sudan si estendeva verso Nord con il Mare di Sabbia del Calanscio e con le sue dune mobili si saldava all’oasi di Siwa con la vasta espressione di El Quattara, centoventi metri sotto il livello del mare, con le sue sabbie mobili, gli acquitrini solforosi e le sue scoscese scarpate verso Nord.
L’infernale depressione arrivava nella sua parte più a Nord, a 25 Km dal Mare Mediterraneo, in un posto noto come El Alamein. Una barriera assolutamente invalicabile di tremila chilometri con due soli punti chiave, due sole “porte”:
- A Nord la breve piana di El Alamein ove gli sforzi di Rommel con il suo Afrika Corp e delle divisioni italiane si infransero contro l’ Ottava Armata di Montgomery
- A Sud un segreto e stretto valico nell’altopiano di Gift el Kebir, ma conosciuto da un solo uomo.
Negli anni tra le due guerre mondiali e precisamente nel 1929, apparve in Egitto uno straordinario personaggio, affascinante e controverso, misterioso, tanto da ispirare, opere letterarie e cinematografiche:
Il Conte ungherese Laslzo Edward de Almasy, ufficiale pilota dell’ aviazione austroungarica e durante la Prima Guerra Mondiale studioso, esploratore, geografo fece parte di numerose spedizioni angloegiziane esplorando il deserto libico egiziano sino a sud del Mare di Sabbia del Calanscio e del misterioso altopiano del Gift el Kebir, regioni mai esplorate ma ricche di leggende e indicazioni storiche.
Nella regione dell’aspro El Kebir si narrava dell’esistenza della meravigliosa e verde oasi di Zarzura, una specie di Eden e dell’esistenza di preistorici graffiti rupestri, effettivamente poi trovati da Almasy, che raffiguravano animali acquatici e uomini in atteggiamenti da nuotatori, il che lasciava supporre che la regione sulle rive di un grande lago fosse sede di antiche e primitive civiltà.
Almasy che lavorava per la Reale Società Geografica Egiziana assieme a celebri esploratori come Bagnold e Sir Patrik Clayton, in realtà agenti dei sevizi informazione inglese esplorò queste zone volando solitario con un piccolo biplano “De Havilland – Tiger Moth” e percorrendole poi con i primi veicoli fuori strada, comuni camion o station vagon ai quali erano stati adattati grossi pneumatici, ma ciò che Bagnold e Clyton ignoravano era che Almasy già da tempo lavorava in contatto con l’ Abwher germanico dell’Ammiraglio Canaris.
Nel 1939 Almasy scomparve dall’Egitto, ma ritornò in Africa con Rommel e L’Africa Corp, come esperto consulente delle problematiche della guerra nel deserto.
Nel 1942 il Conte Ungherese guidò una pattuglia di quattro mezzi militari catturati agli inglesi: due Ford “station wagon” C II ABF 4×2 e due camion FORD 4X2 “Flitzer” da 1,5 tonn. con pneumatici speciali.
Questi mezzi portavano sfacciatamente le insegne tedesche della XXI Panzer Division e solo quando i veicoli passarono nell’oasi di Karga in territorio egiziano , queste insegne furono sommariamente cancellare. La spedizione percorse un’incredibile cammino di oltre seimila chilometri tra andata e ritorno dalla Cirenaica sino alla valle del Nilo, a sud del Cairo transitando per il passo di Gift el Kebir, che solo Almasy conosceva, valendosi di depositi segreti di acqua e carburante che aveva predisposto sin dal 1937.
Lo scopo del viaggio era di portare al Cairo due agenti segreti teschi con le loro ricetrasmittenti. Essi furono lasciati sfrontatamente sul piazzale della stazione ferroviaria di Asyuth ove presero la prima classe del treno “Express” per il Cairo. I loro nomi erano: Oberleutnant, Peter Lanstaede e John Appler .
Un cupo sconforto misto a rabbia trapelava negli stentati tentativi di dialogo che Bertone, ogni tanto con scarso successo iniziava nel buio della cella ove erano stato richiusi al loro arrivo al Cairo. Hussein, dopo quel massacrante viaggio di dodici ore, li aveva letteralmente scaricati al posto di polizia egiziano di Heliop, alla periferia della grande città. Si era subito rimesso in viaggio con il suo camion, dopo affrettate frasi di circostanza molto poco convincenti.
Adesso avevano la netta sensazione di essere caduti un trappola e che tra breve la polizia egiziana li avrebbe consegnati alla Military Police Britannica. Erano arrivati al Cairo verso le due di notte e l’atteggiamento dei poliziotti non era stato dei più amichevoli. Un graduato che balbettava un po’ di inglese iniziò uno strano e sommario interrogatorio senza perquisizione, verbalizzando le sole generalità degli italiani e Krause declinarono assieme al grado ed al numero di matricola.
Forse per il graduato era solo una dimostrazione di potenza e superiorità di fronte ai suoi quattro subalterni che a quell’ora, assonnati e ciondolanti, rappresentavano le forze dell’ordine… oppure, sperava Bertone, era tutta una concordata messa in scena?
Furono chiusi senza tanti complimenti in una cella nella quale, oltre alla mancanza d’aria, non si poteva star seduti altro che per terra.
Erano le quattro del mattino e Francesco ed i suoi commilitoni, che erano riusciti a dormire durante tutto il viaggio, era un po’ meno pessimista degli altri e mentre era seduto a terra su un pagliericcio pensò che l’interrogatorio gli era sembrato subito una farsa, una messa in scena in attesa che al povero graduato fosse scaricata una grossa responsabilità.
Erano tutti e cinque ancora in possesso dei loro documenti militari e dei loro scarsi effetti, delle stellette e dei gradi, sempre accuratamente occultati nei risvolti dei colletti e nelle maniche rimboccate delle tute regolamentari della Regia Marina, non erano state minimamente sospettate.
Forse non sarebbero finiti in un campo di prigionia in Kenia, oppure in India e Francesco volle esprimere questa sua ottimistica convinzione a Bertone che era seduto accanto a lui.
Cominciava ad albeggiare quando la porta della cella si aprì e seguito da due poliziotti apparve una figura in eleganti abiti borghesi. Un europeo con capelli biondi ed un paio di sottili baffetti, sopra una bocca dal taglio duro, che dopo pochi secchi ed autoritari dava ordini in arabo e rivolto a Krause disse in tedesco: “Guten tag, Herr Krause 1 commen sie mit mir, schnell! Bitte!”
Krause che sonnecchiava si alzò di scatto e mezzo addormentato mormorò un italianissimo “porca vacca” e poi domandò:
“Sind wir frei? Siamo liberi?” “Jahvol!“ fu la risposta.
Pochi concitati ordini in arabo da parte del misterioso tedesco e poi fecero salire tutti su un vecchio Station wagon della polizia che partì a tutta velocità verso il quartiere di Zamelek.
Le prime luci rosate tingevano il cielo sereno e da un minareto all’altro riecheggiava il richiamo dei muezzin alla preghiera del mattino.
L’ Express Cairo Aswan percorre una sua unica strada ferrata di più di mille chilometri in circa due giorni. Normalmente è composto da una locomotiva tedesca a vapore dai lucidi ottoni modello 1910 Henschel, che brucia pessimo carbone egiziano producendo più fumo che energia.
Seguono il “mostro di fuoco germanico”, come lo chiamano i contadini quando sollevano il capo al suo trionfale passaggio, un vagone postale con il capotreno, due vagoni “schlafwaghen” ed un vagone restaurant, sempre di origine germanica. Questi vagoni sono molto esclusivi e confortevoli, salvo nella stagione estiva, quando al rovente respiro della locomotiva, si aggiunge la temperatura che nell’alto Egitto raggiunge anche i quaranta gradi.
I passeggeri, quasi tutti rigorosamente vestiti di bianco, sono rappresentati da funzionari governativi, ricchi mercanti e militari di alto grado che raggiungono le loro guarnigioni del Sud. L’arredamento di quei vagoni era un misto di vittoriano con il liberty, tende pesanti, abatjour sui tavolini, tappeti e poltrone in caldo, tenebroso velluto. Il tutto un po’ consunto e polveroso.
Un vagone merci e bagaglio separava questo segmento “ricco“ del convoglio, da quello “povero”, composto da quattro o cinque vagoni in listelli di legno, senza finestre, provviste di vetri ma chiuse da persiane che, salvo per una riposante ombra, producevano all’interno dei vagoni una diuturna tempesta di vento.
Contadini e poveri mercanti salgono e scendono da queste vetture provviste di generose panche di legno, con le loro mercanzie, ceste di verdure, gabbie di spaurite galline e qualche mal tollerata capra. Una comunità itinerante con vita propria i cui abitanti se non sono diretti dal Cairo terminale di Aswan o viceversa, variano in una continuità di costumi e dialetti in funzione delle soste nelle stazioni.
Il treno con il nome ufficiale di “Express”, ma con le caratteristiche di “locale“ le cui accelerazioni, in tratti particolarmente popolati sono limitate al graduale raggiungimento della sofferta velocità di quaranta, cinquanta chilometri orari, conseguenti ad una altrettanto graduale frenata con cui si conclude il trionfale ingresso in una piccola stazioncina sperduta tra i campi di cotone o di canna da zucchero.
Il percorso della linea e parallelo al corso del Nilo e talvolta pochi metri separano la strada ferrata dall’acqua ove pigre feluche risalgono il corso del fiume con il vento sempre a loro favore da Nord-Sud, oppure lo ridiscendono con la corrente favorevole. L’incontro con le feluche era sempre atteso dai macchinisti per liberare un po’ di vapore con un fischio lacerante ed improvviso con il quale salutare le imbarcazioni.
Verso la coda del convoglio con i “poveri”, viaggiavano Francesco, Sauro e Krause in un vagone, Corti e Bertone in un altro. Partiti dalla Stazione Centrale del Cairo, dopo un breve soggiorno nella House boat di Eppller, erano diretti ad Asyuth, quattrocento chilometri a sud.
Con le loro tute da lavoro, che avevamo avuto il tempo di lavare e sulle quali tenevano accuratamente rimboccate maniche e colletti, erano provvisti di falsi documenti che li accreditavano come tecnici francesi addetti alla manutenzione del macchinario delle raffinerie di zucchero ad Asyuth dove sarebbero arrivati nella serata del secondo giorno di viaggio.
Nella spettrale luce della luna due grossi veicoli procedevano a velocità moderata tenendosi paralleli l’uno rispetto all’altro per non disturbarsi con la sottile polvere di sabbia che la loro marcia sollevava. Procedevano a fari spenti.
La superficie presentava saltuariamente larghi tratti di sabbia finissima con delle fitte ondulazioni, che gli esploratori del Sahara chiamavano a “Palato di cane”. Per il resto era terreno compatto e duro con rare grosse pietre che i due mezzi scartavano con improvvisi e rapidi cambiamenti di direzione. I veicoli erano due Ford Station Wagon di costruzione canadese, tipo “C 2 ADF”, con grossi pneumatici per sopperire alla mancanza di una trazione integrale su quattro ruote.
Erano muniti di serbatoi maggiorati e di supporti esterni per “canisters” supplementari di carburamte e acqua. Sul tetto erano sistemate tutte le attrezzature per superare le insidie del deserto, come scale di corda a pioli da sistemare sotto le ruote in caso di insabbiamenti, pale, badili e funi di traino, reti mimetiche… Erano appartenuti allo stato maggiore dell’Ottava armata britannica del Generale Wahwell, ma erano stati catturati dalle forze italo-germaniche che avevano permesso a Rommel di riconquistare la Cirenaica.
La mimetizzazione era quella standard dell’esercito britannico per le zone desertiche e le sigle di identificazione dell’ VIII Armata erano state affiancate a quelle della XXI Panzer Division, con tanto di Balkencreutz. Erano in viaggio ormai lontani, ad Ovest di Asyuth e non avevano seguito una pista, ma guidati dalla sola bussola e dalle osservazioni astronomiche in un deserto che man mano si faceva sempre più difficoltoso. Sul veicolo che a destra faceva da guida, vi erano Bertone e Corti e sul secondo viaggiavano Sauro, Krause e Francesco. Ambedue i veicoli erano pilotati da uomini dell’Afrika Corp, da uno strano arabo tedesco e da un Conte Ungherese.
I “cinque del tappo“ erano giunti ad Asyuth con l’espresso dal Cairo e sul piazzale della stazione erano stati avvicinati, oltre che da una miriade di venditori ambulanti e mendicanti, da un tassista che a detta di Krause parlava uno strano insospettato dialetto arabo ed indossava una sdrucita galabeya.
Il tassista offriva i servizi di un decrepito taxi parcheggiato in un vicolo adiacente alla stazione. Bertone sulle prime resistette alle offerte dell’arabo, ma quando lo sentì mormorare la parola “Decima“, fu chiaro che erano attesi. Mentre il cielo imbruniva con la rapidità dei tramonti tropicali, si stivarono nella vecchia Peugeot e mentre si allontanavano dalla piccola cittadina percorrendo una strada sconnessa tra verdi campi di alfalfa verso il deserto, il tassista si presentò come sergente Hans Muntz del Deutsche Africa Corp.
Dopo una ventina di chilometri percorsi nella semioscurità, eravamo già in pieno deserto, il vecchio taxi cominciò a sbandare e faticare sempre di più nella sabbia finché Muntz, che guidava a fari spenti, vide un breve lampeggiamento di fari quasi innanzi a lui. Fatte poche centinaia di metri il taxi si femò tra due Station Wagon coperte da reti mimetiche e tutti scesero. Un uomo alto e magro con il volto affilato come quello di un’aquila si avvicinò e salutò con un breve inchino. Le sue ginocchia ossute spuntavano tra i calzettoni grigioverdi e gli abbondanti pantaloncini dello stesso colore. In testa portava una bustina della Luftwaffe.
Era il Conte Edward Laslzo Von Almasy! Muntz si tolse la galabeya e la buttò nel taxi dopo aver messo nella tasca dello sdrucito indumento, una abbondante manciata di sterline per il povero autista egiziano, quando avrebbe ritrovato la sua amata Peugeot. Poi cominciò a ripiegare le reti mimetiche. Dopo una breve presentazione con battute di tacchi, il conte si mise al volante di una delle due vetture, mentre in francese illustrava a Bertone e Corti il piano per raggiungere le linee italo tedesche.
Almasy una settimana prima era arrivato dalla Cirenaica con un incredibile viaggio attraverso il deserto libico – egiziano per portare ad ASYUTH due agenti informatori tedeschi, uno dei quali aveva ospitato per una notte gli incursori italiani.
Un viaggio di oltre tremila chilometri con le insidie della sabbia e temperature di oltre cinquanta gradi sino all’estremo sud e poter transitare per il passo scoperto da Almazy nel 1937, ove furono nascosti i due autocarri flitzer con i rifornimenti per il percorso di ritorno. Mentre con le due Ford si accingeva a percorrere la via del ritorno, ad una quarantina di chilometri da Asyuth, si era fermato con Muntz per ricevere ordini attraverso uno degli appuntamenti radio con il comando di Rommel e gli era stato ordinato di tentare il recupero di cinque operatori della Regia Marina Italiana che sarebbero arrivati ad Asyuth in un determinato prossimo giorno. Così Mutz travestito da arabo si era presentato alla stazione ferroviaria con un taxi rubato poche ore prima in un parcheggio della periferia.
Per il ritorno Almasy, profondo conoscitore del deserto, aveva deciso di seguire un altro percorso, quello più breve, ma più pericoloso e che comportava il “forzamento” di un relativamente breve tratto del mare di sabbia, tra l’oasi di Siwa e la depressione di El Quattara, anziché il più lontano passo di Gift el Kebir, ove erano nascosti i due Flitzer.
Almasy, mentre nel buio guidava con maestria la grossa vettura, disse a Bertone che contava di rifornirsi di carburante ed acqua in un deposito segreto che aveva predisposto a sud di Siwa nel 1938, durante una delle ultime spedizioni anglo-egiziane con Bagnol e Clayton ed aggiunse con tono “sportivo”: “Se non vi arriva per primo il mio amico Sir Patrik con i suoi Desert Rangers!”
Dalla stretta di Siwa sarebbe stato facile raggiungere il fronte di Rommel che stava velocemente avanzando e che era arrivato a Sidi el Barrani e stando alle notizie giunte per radio sarebbe stato tra breve, oltre Marsa Matruh.
Nell’altra Ford, che affiancava nella corsa al buio quella di Almasy, Francesco osservava come Muntz guidava riuscendo a vedere nell’oscurità ciò che lui non riusciva a vedere. Le lievi ondulazioni del terreno appena visibili al chiarore della luna venivano affrontate a tutto gas per evitare i pericoli di insabbiamento e quelle continue “montagne russe” oltre le quali non si vedeva ciò che aspettava alle sospensioni della vettura ed allo stomaco dei passeggeri… erano una tortura per Francesco.
Questo procedere nell’ignoto gli ricordava la fase del volo con il Gotha, nella penetrazione in Egitto quando avevano attraversato il fronte temporalesco tra El Alamein ed Alessandria. Sentiva una forte tensione accentuata dal fatto che doveva tenersi fortemente “puntellato” con le mani e le gambe per non essere sbalzato in aria contro il soffitto della vettura.
Mentre superavano in velocità la cresta di una duna e per una interminabile manciata di secondi in cui la vettura non aveva le ruote a contatto con la madre terra, Francesco attendeva a denti stretti lo schianto dell’atterraggio ed udì Muntz che, in uno stentato italiano diceva: “ragazzi” sapete che questa è la Notte di Natale? Francesco ebbe la netta sensazione che non avrebbe più dimenticato per tutta la vita quella notte.
Il ricordo di tanti Natali si affollavano nella sua mente a Genova, a casa in salita Sant’Anna con papà, mamma ed il piccolo Filippo, mentre attendeva con ansia di aprire i pacchi con i doni. Durante le brevi licenze, negli anni dell’Accademia a Livorno, ricordò i Natali di guerra in Egeo in navigazione lontano dalla famiglia assieme all’amico Sauro.
Prima di mezzanotte si erano fermati in una sterminata piana di sabbia senza orizzonti. La corsa di più di otto ore nel deserto li aveva portati lontani da Asyuth e avrebbero potuto sostare senza eccessive preoccupazioni per riposarsi e rifornire i serbatoi quasi vuoti. Muntz, aiutato da Sauro e Francesco ricoprì con le reti mimetiche i due Ford e travasò due canisters che furono poi accuratamente sepolti sotto la sabbia.
La luna era alta nel cielo ed in una buca scavata con un badile Almasy accese un piccolo fuoco con alcuni rami secchi che aveva raccolto e sul quale mise una teiera. Tutti sedettero in silenzio attorno a quel piccolo fuoco che proiettava le loro ombre sulla sabbia come una raggiera. La stanchezza ed il magico ed ipnotico fascino del fuoco creò un irreale silenzio.
Almazy tirò fuori un paio di scatole di viveri di sopravvivenza della Luftwaffe, con cioccolato e biscotti energetici che assieme al the caldo costituirono la cena di Natale. La temperatura si era notevolmente abbassata e mentre il fuoco languiva, Munyz tirò fuori una piccola armonica a bocca ed accennò le note di “Heilighe Nacht”. Poi, come per incanto da prestigiatore, il conte ungherese fece comparire da una una sacca una bottiglia di “Johnny Walker” che in un paio di giri si esaurì nei gavettini dei commensali. Se non sarà per Natale, sarà per l’Epifania.. aveva detto il Comandante Forza durante l’ultima riunione al comando della “X MAS” a La Spezia, a proposito del loro rientro in Italia, ricordò Bertone per sollevare un po’ il morale mentre tentava di far scendere in gola le ultime gocce di cognac dal suo gavettino.
Almasy raccontò del suo incredibile viaggio di seimila chilometri nel deserto per raggiungere Asyuth passando per l’ infernale altopiano di Kebir all’estremo sud dell’Egitto e ascoltò Bertone che descriveva l’azione di Suez. Poi la conversazione cominciò a languire come il piccolo fuoco e ognuno si avvolse nel suo sacco a pelo con i propri pensieri e con gli occhi rivolti al cielo, che pian piano ruotava attorno alla Stella Polare bassa sull’orizzonte.
Più tardi, un punto luminoso apparve a nord nel cielo e lentamente lo attraversò diretto a Sud. Era un aereo militare da trasporto che ad altissima quota era diretto chissà dove. Nessuno lo disse, ma nel cuore di tutti quella luce era come la stella cometa di Natale. Il Maggiore Smith era alle prese con un “puzzle“ i cui pezzi non volevano coincidere e nel suo ufficio di Heliopolis, sotto le ali di un pigro ventilatore e con una tazza di the innanzi, tentava di ricostruire le vicende dopo il disastro di Suez.
Il Canale era bloccato e da un paio di giorni i genieri della Royal Navy tentavano di recuperare parte del prezioso materiale imbarcato sulle navi e con l’aiuto di un paio di gru galleggianti e molte cariche di dinamite, lavorarono giorno e notte per sgombrare dai relitti la vitale via d’acqua.
Due giorni prima uno strano battello mimetizzato era stato ritrovato da una pattuglia della polizia egiziana sulla sponda orientale del lago Amaro. Era incagliato tra la vegetazione della riva ed il motore elettrico ancora in moto faceva girare debolmente l’elica. I genieri inglesi subito chiamati, dopo una prudente ispezione, disattivarono il dispositivo di autodistruzione e dalla descrizione delle sue caratteristiche Smith dedusse senza ombra di dubbio che quello era il mezzo trasportato dall’aliante che aveva ispezionato a Ras Matarmah.
Dopo l’affondamento di quattro navi ed il blocco del canale l’obiettivo era la cattura dei cinque componenti del “commando“ italiano, prima che combinassero altri guai.
La posizione del loro battello lasciava supporre che fossero sbarcati sulla riva orientale del canale e che attraversato il Sinai potessero raggiungere la neutrale Arabia Saudita.. Troppo facile, troppo evidente, pensò Smith mentre assaporava l’aroma del thè ormai freddo. Quella stessa mattina la Military Police Britannica del Cairo aveva fatto irruzione in una delle eleganti house boat ancorata sul Nilo nella zona del quartiere di Zamalek, a seguito di una segnalazione di movimenti sospetti nelle vicinanze.
Era un’azione di normale routine e Smith vi aveva preso parte non trovando nulla di sospetto, salvo un insignificante particolare che ora stava tornando alla sua mente: un orario delle ferrovie egiziane posato su un tavolo ed aperto alla pagina della linea Cairo – Aswan, con un lieve segno in corrispondenza dell’ora di arrivo alla stazione di Asyuth. Forse l’inquilina della house-boat, una famosa ballerina sella danza del ventre, era partita per una tourné nel Sud.
Non che il controspionaggio britannico avesse qualche cosa in contrario alla danza del ventre, anzi: Smith in particolare, era un estimatore, ma l’ elegante dimora galleggiante della disinvolta e generosa signora era stata segnalata per le assidue frequentazioni diurne e notturne di una discreta parte maschile della Cairo-bene, notoriamente incline al doppio gioco politico.
Era normale prassi dei servizi di controspionaggio e finora Smith non aveva trovato alcun nesso con le preoccupazioni odierne e sapeva che in qualche modo due agenti tedeschi erano riusciti ad entrare in Egitto e che probabilmente erano arrivati per la via del deserto libico e Asyuth era il punto di arrivo o di partenza delle piste che si inoltravano nel deserto verso la Libia ed il fronte italo-tedesco.
Smith rientrato in ufficio, con scarso entusiasmo telefonò alla tenenza della polizia di Asyuth per sapere se vi erano state novità di rilievo. Un sergente di servizio rispose svogliatamente che non vi era nulla di particolare da segnalare e mentre terminava il rapporto verbale si ricordò che l’unico evento notevole era che la mattina del giorno prima era stato denunciato il furto di un taxi e che le ricerche fatte nei dintorni non avevano dato nessun risultato.
“Quando era stato segnalato il furto?” ..domandò Smith insospettito. “Poche ore prima delle diciotto di ieri Signor Maggiore!”
A quel punto Smith ricordò che le diciotto era l’ora di arrivo ad Asyuth dell’Espresso Cairo Aswan. Forse gli elementi del puzzle cominciavano a coincidere..
- Il primo eccitante pensiero fu che forse una più accurata indagine sulla scomparsa del taxi di Asyuth poteva essere una buona traccia da seguire.
- Il secondo sgradevole pensiero fu che il maledetto Lysander era l’unico mezzo rapido per raggiungere Asyuth.
L’indomito spirito del vecchio ispettore di “Scotland Yard” cominciò a trovare divertente ed eccitante la sfida. Finì la sua tazza di the, sollevò la cornetta del telefono e compose il numero dell’aeroporto di Almaza.
Il Lysander era atterrato, dopo due ore di volo dal Cairo, sulla piccola pista sabbiosa presso la casermetta della Polizia egiziana di Asyuth. Non era un vero campo d’aviazione, né un aeroporto, se non per la presenza di una sudicia sbrindellata manica a vento a strisce rosse e bianche che penzolava tristemente inerte nell’aria calda.
Del taxi non vi era traccia e il disperato proprietario si lamentava inchinato in segno di rispetto e di sottomissione, di fronte all’impettito Sergente che sollecitato dal Maggiore Smith aveva sguinzagliato tutti gli agenti disponibili in tutti i villaggi vicini, dopo aver setacciato la piccola cittadina. Ormai le ricerche dovevano essere indirizzate verso Ovest perché il Maggiore aveva la certezza che quel taxi era diretto verso la Libia.
Smith, dopo aver accettato un tiepido caffè assieme al pilota, ordinò che la pista di decollo fosse sgombrata dalla presenza di una decina di indisciplinate capre che ne avevano preso possesso. Tuttavia, appena il pilota mise in moto il poderoso motore stellare l’operazione si rese inutile, perché il grande motore ancora caldo sputacchiando un po’ di fumo ed olio bruciato con un rombo cominciò a girare e la pista fu libera.
Smith si issò faticosamente a bordo e si sistemò al posto ormai familiare dell’osservatore. Dopo essersi bardato con la cintura di sicurezza, attraverso l’interfono, disse al pilota che poteva decollare. Il Lysander staccò le ruote da terra dopo una brevissima corsa, avvolto da una nuvola di polvere e sabbia che investi il Sergente, irrigidito in un approssimativo saluto accanto al disperato autista del taxi.
Smith con il giovane pilota aveva stabilito di volare seguendo una serie di rotte radiali in un arco di cerchio di 90 gradi che andavano da NW a Ovest. L’aereo ad una quota di un centinaio di metri si diresse per 270 gradi verso la prima e più logica delle rotte di ricognizione che lo avrebbe portato a non più di 150 miglia, per poi ritornare ad Asyuth per il rifornimento che Smith aveva ordinato di predisporre.
Fu una prima rotta fortunata. Infatti, dopo circa un’ora di volo il Maggiore, che da dietro un paio di occhialoni della RAF, guardava a destra ed a sinistra, sentì gracchiare nell’interfonico: “Maggiore, quasi di fronte a noi, un po’ a sinistra, mi pare di vedere una macchia color giallo, potrebbe essere il nostro taxi”. Poco dopo, sceso ancor di più di quota, il velivolo volteggiò lentamente sopra il taxi abbandonato con gli sportelli aperti.
“Maggiore, se è necessario posso atterrare, non ci sono problemi”.
Mentre l’aereo planava lentamente con i flaps estesi ed il motore al minimo, Smith ebbe la certezza che gli italiani erano stati gli ultimi clienti del povero tassista di Asiuth e chi sa come potranno pagare il prezzo della corsa. La domanda gli sfuggì dalle labbra con un ironico mezzo sorriso. Durante l’ultima virata aveva visto sulla sabbia due fresche profonde tracce di pneumatici che partendo dai pressi del taxi si dirigevano parallele verso ovest.
Con un forte scossone al quale Smith non si era mai abituato, il velivolo toccò rudemente terra e dopo un brevissimo rullaggio si fermò. Tolti i contatti la grande elica con un paio di singhiozzi del motore si fermò. Il pilota aiutò Smith a scendere a terra. Il vecchio Peugeot giallo era innanzi a loro nella calda luce del tramonto.
Il Maggiore intravide, piegata ed appoggiata sul sedile anteriore, una vecchia galabeya dalla cui tasca spuntavano delle banconote.. “Stia attento Maggiore, che non vi sia una trappola esplosiva, gridò il pilota, prima che Smith toccasse l’indumento”.
Non credo proprio che possa essere l’idea degli uomini che hanno combinato quel bel guaio a Suez.. sono dei soldati, dei marinai, non dei delinquenti..
Smith non rilevò nulla di interessante nel taxi, salvo che le sterline destinate al tassista non avevano corso legale in Egitto. Il Maggiore sorrise sotto i baffi compiaciuto al pensiero del madornale errore commesso dai suoi colleghi dei servizi segreti italiani nel consegnare agli operatori italiani del denaro che non poteva essere speso altro che in Inghilterra. Figuriamoci in mano ad un tassista di Asyuth!!
Tolse dal suo portafoglio una cospicua mazzetta di lire egiziane e si improvvisò come agente di cambio. Quindi indirizzò la sua attenzione alle tracce che aveva visto dall’aereo. Erano di due veicoli dotati di grossi pneumatici da deserto, caratteristici delle vetture militari inglesi, come poté rilevare dalla scultura dei battistrada. Potevano essere di vetture inglesi catturare dagli italiani durante uno dei recenti ripiegamenti in Cirenaica. Poco distante trovò un pacchetto di sigarette tedesche vuoto, che finalmente avvalorò la tesi, vagamente considerata da Smith, dello zampino della “volpe del deserto”.
Le tracce erano fresche ed il vento del deserto, che sempre si levava all’ora del tramonto, non le aveva ancora cancellate. Quindi, gli italiani ed adesso i tedeschi avevano presumibilmente non più di quindici o venti ore di vantaggio. Smith sapeva che gli automezzi percorrendo quel tipo di terreno non potevano essere più distanti di duecentocinquanta, trecento chilometri. Probabilmente erano già a Sud-Ovest dell’ oasi di Baharya, in pieno Black Desert la porta del Mare di sabbia e adesso dovevano puntare verso Nord-Est.
Misurò ad occhio l’altezza del sole e capì che pur seguendo quelle tracce, che sarebbero diventate sempre più labili e con l’oscurità imminente ogni tentativo di inseguimento poteva essere rischioso ed inutile. Consultandosi con il pilota decise di mettersi in contatto radio con il suo ufficio al Cairo per far allertare le pattuglie dei “Desert Rangers” che operavano nella zona di Siwa e di avvisare Asyuth del mancato rientro del velivolo, del ritrovamento del taxi e del suo recupero, facendo predisporre un rifornimento all’oasi di Beharya per l’indomani. In extrmis si ricordò di far presente, a salvaguardia della solerzia ispettiva dei poliziotti di Asyut, che la somma che avrebbero trovato nella galabeja apparteneva al taxista.
Il sole era quasi sotto l’orizzonte ed il volo con un atterraggio notturno tra le capre ad Asiuth sarebbe stato impossibile, quindi era meglio passare la notte sul posto e ripartire per Beharya appena ci fosse stata luce sufficiente… il pilota fu d’accordo.
Il Lysander, come tutti i velivoli della RAF, era dotato di attrezzature di sopravvivenza e Smith pensò che per quella notte come cacciatore, non sarebbe stato molto più comodo della preda che inseguiva. Inoltre era meglio trascorrere la notte nel deserto con qualche scorpione, anziché con le pulci nella casermetta di Asyuth.
Il pilota con un bicchiere di benzina spillata dal carburatore dell’aereo e con un po’ di sterpi secchi accese un piccolo fuoco, per l’immancabile thé compreso nella scatola dei viveri di emergenza. Il giovane sottotenente della RAF che in tanti voli di servizio aveva preso un po’ di confidenza con il suo ombroso e taciturno passeggero, mentre sgranocchiava un tavoletta di cioccolata, cominciò a raccontare la sua carriera di aviatore.
Si era arruolato volontario nella RAF nel 1939, all’inizio della guerra ed avrebbe voluto pilotare un caccia, magari uno Spitfire in difesa del suolo britannico, ma era stato subito destinato in Medio Oriente come secondo pilota di aerei da trasporto di base ad Heliopolis e successivamente come pilota in una squadriglia da ricognizione e cooperazione con l’Esercito. Tuttavia, con quello strano velivolo che gli avevano affidato, l’antitesi dello Spitfire, la sua passione per il volo era soddisfatta, anzi sul Lysander, con le sue caratteristiche di volo lento e la sua estrema manovrabilità, era come avere le ali attaccate alle scapole, un prolungamento delle braccia… sembrava proprio di volare.
Sul fronte cirenaico, durante una missione di regolazione del tiro delle artiglierie, il suo osservatore lo aveva avvisato che un caccia italiano, un Macchi, era arrivato alle sue spalle. Il Lysander era molto basso sul deserto ed il giovane pilota non ebbe altra alternativa che “frenare bruscamente“ tirando fuori i flap e riducendo il motore per farsi sorpassare dal pilota italiano prima che potesse mettere il dito sul pulsante delle sue mitragliatrici. Con una serie di “frenate”, accelerazioni e strette virate a pochi metri da terra il gioco finì quando il pilota del Macchi si rese conto che il Lysander lo attirava troppo dentro le linee inglesi.
Il pilota era nato a Ventnor sull’isola di Wight e Smith, nato anche lui sull’isola, mentre ascoltava dei voli del “suo pilota” in quella strana notte nel deserto, si sentì un po’ più vicino a quel giovane che poteva essere suo figlio e si ricordò che nella sua borsa anche lui aveva le sue razioni di sopravvivenza e tirò fuori una fiaschetta di “bourbon“ che divise con il giovane. Mentre il fuoco languiva, l’attenzione del pilota fu attratta da un lieve rumore, un lieve rombo un aumento. Una luce altissima nel cielo procedeva lentamente. “E’ uno dei nostri trasporti che va in Sud Africa. Saranno i miei colleghi di Heliopolis che dovranno sorbirsi dieci ore di volo nella stratosfera sorseggiando ossigeno anziché questo ottimo “Bourbon“. Smith compiaciuto si riavvolse nel sacco a pelo.
“Mio giovane amico quella luce è la stella cometa, ricordati che questa notte è la notte di Natale! Auguri a te, a noi ed anche a tutti quelli che vedono la stella”.
Il ron-ron dei tre grossi motori Alfa Romeo “128 RC21” si attenuò e Francesco, svegliandosi da un profondo sonno, come al solito, non ebbe l’immediata percezione del posto dove era. Non era una questione di metabolismo, quanto un modo di vita che lo vedeva approfittare di ogni ritaglio di tempo per recuperare il suo perenne necessario bisogno di sonno. Ricordava di aver dormito profondamente in coffa al brigantino interrato dell’Accademia di Livorno, a ridosso del fumaiolo della torpediniera “Cassiopea”.
In Egeo e durante la scorta ai convogli diretti in Libia, in plancia al vecchio “Araxos”, circa un mese prima, nella fusoliera di un aliante tedesco in volo sul Mediterraneo e le notti precedenti sulla sabbia del deserto egiziano. Ogni giaciglio era buono e benvenuto, ma ora quel comodo sedile imbottito e con lo schienale reclinabile lo sconcertava. Quando si svegliava non apriva immediatamente gli occhi e come in un suo particolare gioco lasciava che il suo cervello si mettesse in moto per ricostruire le ore ed i giorni precedenti il sonno.
Si era imbarcato a Tobruk sul trimotore da trasporto Savoia Marchetti “SM 83” con i compagni di avventura.. i “quattro più uno del tappo”, come ormai venivano chiamati Bertone, Corti, Sauro ed Attanasio, piu Krause… compagni che ora dormivano tranquilli su altrettanto comode poltrone dell’aereo diretto in Italia. Erano stati recuperati assieme alla loro guida, il Maggiore Almasy ed al suo autista ai margini Nord della depressione di El Quattara, da una pattuglia di paracadutisti della Folgore.
Era stata una lunga marcia nel deserto egiziano. Almazy aveva tentato di passare nel varco di Siwa tra l’invalicabile “mare di sabbia del Calanscio e l’infernale “calderone della depressione di El Quattara” e per poco non erano finiti in bocca ad una pattuglia dei Desert Rangers. Evidentemente la loro marcia nel deserto era stata segnalata probabilmente da quello strano aeroplano che li aveva sorvolati per un paio di volte nei giorni precedenti. Francesco ricordava che era lo stesso tipo che aveva visto volare sul canale di Suez, un Westland Lysander.
Almasy si era trovato così nell’impossibilità di rifornirsi in uno dei depositi segreti di carburante che aveva predisposto nelle sue esplorazioni anglo-egiziane effettuate nell’anteguerra. Il suo amico Sir Patrik Clayton con i suoi Desert Rangers era evidentemente arrivato per primo al deposito e adesso lo aspettava, come aveva sospettato Almasy, dopo l’ultimo sorvolo del ricognitore. Le due autovetture si erano nuovamente dirette verso Sud-Est e poi a Nord-Ovest costeggiando la grande depressione formata da distese di sale sotto le quali si celavano fanghi e sabbie mobili, passaggi obbligati nella ripida scarpata a Nord della depressione con strapiombi quasi verticali che erano presidiati saltuariamente da pattuglie inglesi e dai paracadutisti italiani della Folgore, che coprivano l’ala sud del fronte italo-tedesco da El Alamein sino alla depressione.
I varchi possibili verso le linee italiane erano solo due verso Est. Le gole di AbuDweis ed i Quarete di Quaret el Heymelmatt, che i ragazzi della Folgore chiamavano in milanese “El caret di matt”. Il carburante cominciava a scarseggiare e Almazy decise di proseguire, abbandonare una delle vetture dopo averla sabotata. Il conte ungherese trasse dal suo bagaglio l’ultima bottiglia di Johnny Walker la mise in piedi sul tetto della Ford con sotto un biglietto per Sir Patrik.
Durante una delle soste notturne Almazy chiamò per radiotelefono il suo comando per avere notizie ed indicazioni ove tentare di passare le linee nemiche.
Fu l’ultima notte che Francesco trascorse nel deserto assieme ai suoi compagni di avventura o semplicemente missione come tante altre, che il giuramento prestato alla bandiera innanzi all’Accademia Navale implicava nella formula del dovere. Francesco non riuscì a dormire ed il silenzio del deserto era turbato dal lontano rombo delle artiglierie nella piana di El Alamein, che erano la voce della guerra che lo attendeva nuovamente.
All’alba del giorno successivo uno Stork della Regia Aeronautica localizzò la vettura superstite ai margini meridionali della depressione ed atterrò accanto ad essa. Il pilota italiano e l’osservatore tedesco diedero tutte le istruzioni per raggiungere la gola di Quarett ove una pattuglia della Folgore avrebbe atteso i sette uomini.
Dopo il decollo dello Stork, Almazy attese il calar del sole per tentare di attraversare l’inquietante depressione che in quel posto non era più larga di quaranta chilometri, ma furono quaranta chilometri che richiesero più di dodici ore di estenuante marcia, dopo che la superstite Ford sprofondò e scomparve inghiottita dalle sabbie mobili.
Almazy, profondo conoscitore delle insidie del deserto, precedeva a piedi la pesante automobile sulla quale per alleggerirla era rimasto solo il pilota. Fu verso l’alba che il conte rallentò il suo passo e fece cenno a Muntz di fermarsi e di sgonfiare un po’ i pneumatici. In quell’istante, nel silenzio si udì uno strano scricchiolio seguito come da come un profondo lugubre gemito.
La leggera crosta di sale stava cedendo lentamente ed inesorabilmente e la vecchia Ford iniziò ad affondare nel fango sottostante, mentre Muntz saltava giù dal suo posto di guida, Francesco assistette inorridito a quella scena incredibile. Dopo pochi minuti tutto era finito, la depressione aveva ingoiato l’automobile e su di essa, come un mostruoso essere gelatinoso si richiuse il fango, mentre alcune bolle di gas solforoso sbocciavano pigre dalla superficie che dopo un poco, sotto un implacabile sole africano, si sarebbe solidificata in una crosta di brillanti cristalli di cloruro di sodio e zolfo. La marcia proseguì verso il lontano costone roccioso e la cordata dei sette uomini procedette lentamente con Almazy che consultava ogni dieci passi la sua bussola tascabile e procedeva in testa alla colonna.Tutti si erano legati con una lunga corda.
L’alta scarpata di roccia color ocra, come in un miraggio nella chiara aria del deserto, sembrava vicina ed irraggiungibile. La temperatura era di oltre quaranta gradi e la mancanza di ventilazione faceva stagnare l’aria calda come un enorme specchio che rifletteva la parete rocciosa lontana, sdoppiandone l’immagine orizzontale come se ci fosse una grande distesa d’acqua nella quale l’immagine appariva ingannevolmente vicina.
Dopo dieci ore raggiunsero la sabbia solida sotto la ripida parete nella quale si apriva la tortuosa gola di El Quarett el Hymatt. Almasy ordinò a tutti di non muoversi e sedere a terra. Fu verso le undici del mattino che Sauro, di guardia, udì una voce lontana che in italiano gridò: “Folgore, non muovetevi, il terreno è minato”. Francesco borbottò tra e se, “Porca miseria! Ci mancava anche questa…” poco dopo vide con sollievo la figura di un paracadutista che con il caratteristico elmetto ed un mitra Beretta usciva dalla gola e prudentemente, passo dopo passo osservando la sabbia innanzi a lui, li raggiunse.
Lo seguiva un Tenente ed una mezza dozzina di paracadutisti. Il Tenente si presentò e salutò militarmente gli uomini che allineati innanzi a lui, anche se vestiti sommariamente, sporchi, con barba e capelli non proprio d’ordinanza, sapeva essere quattro ufficiali della Regia Marina Italiana e gli altri due della Luftwaffe.
Nel pomeriggio con un aereo da collegamento furono trasferiti al Comando Marina di Tobruk che, dopo una sommaria “ripulita“ ed un succinto rapporto di missione, diede loro una burocratica “bassa di passaggio” e provvide ad imbarcarli su un aereo da trasporto trimotore “SM 83”, che li attendeva per portarli in Patria a Pisa.
Francesco aprì gli occhi ed attraverso il finestrino striato di pioggia riconobbe la costa toscana che scorreva sotto le ali del velivolo che scendendo era sbucato sotto un tetto di grigie nuvole. L’aereo stava perdendo quota e Francesco riconobbe Castiglioncello tra le Pinete, poi la torre di Calafuria sferzata dal maestrale, con le scogliere sommerse da un mare rabbioso di bianche schiume. Tra un piovasco e l’altro, la riviera di Antignano e Livorno con il grande edificio bianco dell’Accademia Navale. Per un attimo intravide l’alberatura del brigantino interrato sui cui pennoni scorse le figure di alcuni allievi.
Sorvolato il porto, sopra la pineta del Tombolo il trimotore, estratti i flaps ed il carrello si mise in allineamento finale con la pista lucida di pioggia dell’aeroporto di Pisa San Giusto.
Alla varea del pennone di maestra due giovani allievi del primo corso Ufficiali della Regia Marina sacramentavano con i piedi sull’oscillante corridoio incavo d’acciaio con le braccia serrate al pennone ed il viso sferzato dalla pioggia che, a raffiche di maestrale, non dava loro tregua.
Filippo.. gridò nell’ululato del vento uno di essi, “cosa ti ha detto tuo fratello Francesco l’ultima volta che l’hai visto?”
“Mi ha detto: hai voluto entrare in Marina? Adesso pedala! Porca Miseria”.
Il rombo del trimotore che a bassa quota sorvolava l’Accademia per un attimo si sovrappose alla voce del Maestrale, ma non a quella del Nostromo che, trenta metri più in basso richiamava all’ordine.
“Signor Attanasio non apra la bocca, si beve solamente a mensa”.
FINE
Disegni: Franco Harrauer
Note dell’autore di Suez:
L’azione descritta è immaginaria, ma nel 1941 fu realmente pianificata nella strategia delle possibilità offerte dai mezzi e dagli uomini della “X Flottiglia MAS”. I nomi dei protagonisti principali sono immaginari, al contrario dei nomi degli operatori delle altre azioni descritte.
Per il testo ho ampiamente attinto dall’ottimo libro:
- “Uomini contro navi” di B. Pegolotti – Editrice Valecchi
ed ancora da:
- “Mezzi d’assalto della Marina Italiana” di E. Bagnasco, Edizioni Albertelli
Il Conte Almazy è realmente esistito e durante gli anni del mio soggiorno in Egitto ho conosciuto personaggi a lui vicini. Il suo straordinario viaggio è stato descritto nell’articolo “I tedeschi sul Nilo” di Pecchi, Degli Esposti ed Albertelli, pubblicato su “Storia Militare” e dal quale ho tratto le foto a pag. 24, 25, 26.
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