Sommergibili sotto il Polo di Franco Harrauer
L’inizio dello sfruttamento dei campi petroliferi dell’Alaska, ha posto nuovi problemi per il trasporto del greggio dai pozzi alle raffinerie. Scartato il progetto di un oleodotto sino ai porti liberi dai ghiacci del Pacifico, le grandi compagnie petrolifere stanno studiando nuovi mezzi e metodi di trasporto si da rendere economica e fruttifera l’operazione di ricerca che ha dato risultati insperati ma che è costata milioni di dollari. L’esperimento «Manhattan » ha dimostrato la anti economicità del trasporto con petroliere rompighiaccio, sia per l’alto costo del mezzo impiegato che per tempi di trasporto.
La GeneraI Dynamics ha proposto, in alternativa al trasporto in superficie, il trasporto subacqueo a mezzo di una petroliera sottomarina di 170.000 tonnellate di dislocamento della lunghezza di 274 metri e con un apparato propulsivo nucleare. Lo scafo resistente, nel quale sono alloggiati equipaggio, apparato motore, servizi e centrale di pompaggio, è costituito da un cilindro centrale della lunghezza di circa 110 metri. Questo corpo centrale è circondato da altri quattro cilindri semiresistenti nei quali parte del carico di greggio in compensazione con acqua marina ha la funzione di zavorra di assetto.
La petroliera sottomarina della General Dynamics navigherebbe sotto la banchisa con l’ausilio di numerosi Sonars i dati dei quali verrebbero elaborati da un computer in grado di fornire le indicazioni di rotta, velocità e quota. Le operazioni di scarico ai terminali previsti in Norvegia, Terranova o in Islanda verranno effettuate (come quelle di carico) in immersione, con il battello posato su una apposita piattaforma alla quale esso rimane ancorato nel letto della corrente, mentre apposite tubazioni telescopiche scaricano il greggio rimpiazzandolo con acqua marina di zavorra.
Ai terminal di imbarco l’acqua di zavorra, prima di essere espulsa viene depurata in apposite vasche di decantazione situate nella piattaforma stessa. Di fronte a questo progetto vi è stata una levata di scudi da parte di numerosi ecologi i quali, giustamente, paventano una catastrofe in caso di collisione della petroliera contro un ostacolo subacqueo, con la conseguente fuoriuscita di grandi quantità di petrolio che, non potendo essere recuperate sotto la superficie gelata, altererebbero l’equilibrio ecologico di una vasta zona dell’Artide.
Gli studi della General Dynamics garantirebbero un coefficiente di sicurezza maggiore di quello del trasporto in superficie, proprio in funzione della navigazione completamente automatizzata che escluderebbe l’errore umano. Indubbiamente, il trasporto subacqueo del petrolio greggio, già teorizzato dai giapponesi, offre enormi vantaggi, specialmente in funzioni dei problemi strutturali che si presentano nella progettazione delle mega petroliere di oltre 200.000 tonnellate.
La struttura di una petroliera sottomarina è relativamente più semplice e meno resistente di quella di una nave di superficie per l’assenza delle sollecitazioni dovute al moto ondoso e di quelle dovute al carico che in questo caso ha una densità ed un peso quasi uguali al liquido che lo circonda.
Durante la guerra, i tedeschi affrontarono il problema delle petroliere sottomarine per il rifornimento in mare aperto dei loro U Boot e gli italiani parallelamente per il trasporto di materiali strategici e carburanti in Libia. Da parte germanica si allestirono i tipi IX D e XIV per il trasporto esclusivo di nafta, e il tipo VII F per il trasporto di nafta e siluri.
La Marina Italiana che aveva il problema più complesso dovuto al trasporto di materiali di natura diversa (armi, munizionamento, viveri, medicinali) lo affrontò con la costruzione, purtroppo tardiva, dei sommergibili della classe R dei quali solo due il «Romolo» ed il gemello «Remo», riuscirono a prendere il mare per quello che fu il loro primo e ultimo viaggio. Infatti, furono affondati rispettivamente: il 15 e il 18 luglio 1943 per siluramento lungo le rotte costiere calabre, appena tre mesi dopo il loro varo. I battelli della classe R erano dotati nello scafo resistente di quattro stive di carico per complessivi 600 metri cubi, che potevano essere allagate in mancanza di carico o per assetto dello scafo.
Gli U Boot tedeschi furono i primi che applicarono e perfezionarono la tecnica della navigazione sotto i ghiacci. Nel 1943, durante le fasi più acute della battaglia ai convogli artici diretti a Munnansk, alcuni comandanti tedeschi attuarono una nuova forma di attacco alle navi che, per sfuggire alla loro insidia,
radeggiavano la banchisa polare per avere almeno un fianco protetto.
All’inizio fu il caso: un battello tedesco, per sfuggire alla caccia di alcune corvette britanniche, si rifugiò sotto il «pack» dove non poteva essere raggiunto e attese che il pericolo fosse passato. In seguito altri comandanti trovarono comodo rifugio sotto i ghiacci e fecero emergere i loro battelli nelle «polinyas», i laghi della banchisa, ove potevano caricare le batterie ed attendere il momento propizio per l’attacco. Ovviamente, queste puntate sotto la banchisa si effettuavano in una fascia massima di una decina di miglia perché i sommergibili erano <<ciechi>> e dovevano navigare sfiorando la crosta inferiore dello strato ghiacciato.
Per questo tipo di navigazione si scoprì che l’assetto migliore era con il battello appoppato di circa 10°, in modo da testare con la prora il ghiaccio ad una velocità di due o tre nodi. In alcuni casi per sfuggire all’osservazione aerea, quando lo spessore del ghiaccio non era notevole, lo si sfondava con lo <<snorckel>> (il tubo telescopico per immettere aria nello scafo) ed il battello poteva rimanere immerso e respirare al sicuro.
Voglio qui ricordare a titolo di curiosità, ma anche con un certo orgoglio, che negli anni intorno al 1930, la Marina Italiana progettò una spedizione sottomarina al Polo Nord. L’ideatore di questa impresa, fu un uomo che molti anni dopo fece olocausto della propria vita nel tentativo di forzamento di Malta con i mezzi d’assalto:
Teseo Tesei. La spedizione italiana che sarebbe stata guidata dal Comandante Mariano, ufficiale di rotta del dirigibile Italia di Umberto Nobile, prevedeva che il sommergibile in immersione sotto la banchisa, potesse forare il ghiaccio con uno speciale periscopio a trivella per potersi così rifornire d’aria. A tale scopo Tesei fece delle esperienze presso l’Arsenale di La Spezia con speciali periscopi in azione entro cassoni di ghiaccio, ottenendo buoni risultati.
Nello stesso periodo maturò, prese forma ed arrivò alla fase esecutiva uno dei più audaci tentativi di esplorazione polare sottomarina. Nel 1931, dopo alcuni anni di preparativi partì da New York la spedizione Wilkins Ellsworth. diretta al Polo Nord e imbarcata sul sottomarino Nautilus. Lo scopo del viaggio era la traversata della calotta artica in immersione, con soste ed emersioni al polo geografico ed una serie di osservazioni, nonché lo studio della possibilità di usare i sommergibili per il trasporto sulle rotte polari che, come è noto, sono le più brevi tra i centri commerciali dell’emisfero boreale.
Il vero ispiratore del progetto fu Simon Lake, il pioniere della navigazione sottomarina ed il costruttore di sommergibili che molti anni prima, a scopo sperimentale, aveva fatto navigare un suo battello, il Protector, sotto la superficie gelata della baia di Newport, U Nautilus era l’ex sommergibile dell’U.S. Navy, 0-12 costruito nei cantieri dello stesso Lake, la <<Lake torpedo boat Co>> e destinato alla demolizione in base al trattato navale di Londra. La marina statunitense lo affittò per la somma simbolica di un dollaro alla Società “Lake & Danenhower” che ne curò la trasformazione. La fisionomia del battello cambiò completamente perché, demolita la torretta, fu costruita una sovrastruttura (non stagna) che correva da prora a poppa per facilitare la navigazione sotto la banchisa.
In questa carena tura furono alloggiati numerosi apparati speciali tra i quali (alla estrema prora) un compresso paraurti idraulico per attutire gli urti contro gli ostacoli sommersi che comunque non avrebbero danneggiato seriamente lo scafo in quanto tutta la parte prodiera, tubi lanciasiluri compresi, era stata riempita con blocchi di legno di quercia e cemento.
Sul dorso del Nautilus era stato istallato un pattino con lo scopo di «tastare il «soffitto durante la navigazione sotto la banchisa. Nella ex camera di lancio di prora venne ricavata una camera stagna allagabile per la fuoriuscita dei palombari che avrebbero dovuto prelevare campioni sul fondo marino ed avrebbero provveduto ad eventuali riparazioni dello scafo.
Una identica camera venne pure istallata sopra il locale alloggi. Qualora si fosse presentata l’impossibilità di emergere in un canale sgombro dai ghiacci o in una «polinyas, il Nautilus era attrezzato con uno «snorkel» a trivella per l’introduzione di aria nello scafo, di uno simile al precedente per lo scarico dei gas del motore Diesel ed infine di una torretta telescopica il cui boccaporto era munito di una testa a fresa capace di perforare sei metri di ghiaccio ed attraverso la quale l’equipaggio avrebbe potuto uscire sulla banchisa.
Il Nautilus avrebbe dovuto salpare da un porto del Pacifico e dopo aver attraversato lo stretto di Bering, avrebbe dovuto cominciare a navigare immerso in prossimità di Punta Barrow seguendo una rotta che lo avrebbe portato prima in prossimità dell’arcipelago della Nuova Siberia e successivamente verso la Groenlandia dopo essere passato per il Polo. Il viaggio si sarebbe dovuto concludere a Londra dopo tappe a Svalbard e a Bergen in Norvegia.
Usiamo il condizionale perché in realtà il sommergibile riportò una gravissima avaria ai timoni durante una delle prime emersioni tra i ghiacci e a nulla valsero le riparazioni effettuate con i mezzi di bordo.
Il Nautilus volse la prua a Sud e malgrado tutto, non ritornò più ad affrontare i ghiacci polari; bisognava attendere ancora ventisette anni prima di vedere un nuovo Nautilus passare sotto la banchisa al Polo Nord.
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