Pendagli da forca (Prima puntata)
I pirati infestano ancora i sette mari. E non sono romantici fuorilegge alla Johnny Depp, ma feroci criminali che abbordano yacht e navi mercantili a colpi di Kalashnikov. Sentiamo i racconti
di Tealdo Tealdi
Dimenticatevi dei pirati dei film di una volta, dell’Isola del Tesoro di Stevenson o di J.M. Barrie con Peter Pan e immergetevi piuttosto nell’atmosfera di Disney World e dei suoi pirati capitanati da Johnny Depp facendo attenzione a quello che cantano:
Yo ho, yo ho. A pirate’s life for me! We pillage, we plunder, we rifle, we loot, Drink up, me hearties, yo ho!
Addio Salgari e le sue storie romantiche e mitologiche. Qui non ci sono emuli di Robin Hood, ma violenza, fisica e spesso sessuale, seguita in genere dalla morte. Sì, avete capito bene.
«Il pirata odierno è un pericoloso criminale, che deve essere messo in condizioni di non nuocere», dice Pottengal Mukundan dell’IMB International Maritime Bureau. Un pericolo che sembrava scomparso ma che riemerge di nuovo.
Dopo il record del 2000, anno che ha registrato ben 469 attacchi e il seguente calo negli anni successivi, oggi le azioni di pirateria contro singole imbarcazioni rappresentano ancora «una grave minaccia per il commercio internazionale», prosegue Mukundan, «con attacchi sempre più violenti e uomini perfettamente addestrati e bene armati».
Attacchi che negli ultimi dieci anni hanno causato il ferimento di 3.200 persone e la morte di ben 160. Non si tratta di malviventi occasionali, ma criminali organizzati che sferrano attacchi sostanzialmente di due tipi: aggressione classica, con abbordaggio, sopraffazione dell’equipaggio, furto degli effetti personali, soldi e telefonini.
L’altra forma è propria di un crimine organizzato e moderno, che si impadronisce della nave da depredare, la accosta vicino alla “nave pirata” e la svuota di tutto il suo contenuto: petrolio, olio di palma, metalli, pesce o, come nel caso della nave Marta, battente bandiera cipriota, del suo carico di stagno. Spesso entrano in azione mentre gli obiettivi sono all’àncora, ma anche quando sono in navigazione. Armati di Rpg 7, fucili e Kalashnikov.
Il rischio economico e ecologico, rappresentato spesso da carichi altamente infiammabili e inquinanti, consiglia atteggiamenti molto prudenti. Ma cosa si può fare per contrastare il fenomeno? Di fronte alla pirateria moderna gli Stati sono praticamente indifesi. I progressi raggiunti nella regione dello Stretto di Malacca, considerata fino al 2000 la zona più pericolosa per il gran numero d’attacchi e in cui transita un terzo di tutto il petrolio che viaggia via mare, non sono la soluzione del problema, ma solo un parziale contenimento dei danni.
Le imbarcazioni veloci e i radar provenienti da Giappone e Stati Uniti hanno permesso un migliore coordinamento fra le marine della Malesia, Indonesia e Singapore con una successiva forte diminuzione degli atti criminosi. Inoltre la Thailandia parteciperà a breve al programma di controllo aereo conosciuto come “Eye in the sky” (EiS), iniziato nel 2005.
«Quando ero sulle navi che transitavano in quelle zone», racconta il capitano Luca Lazzeri, imbarcato ora sul Titan, un maxi yacht da charter, «raddoppiavamo le sentinelle, ma gli attacchi subiti da altre navi erano molto frequenti e poco avremmo potuto fare per contrastarli».
Da un punto di vista giuridico, la legislazione attuale è regolata dagli accordi di Montego Bay, adottati il 10 dicembre 1982, e la riunione che si è tenuta a Dar es-Salaam lo scorso aprile sotto l’egida dell’Imo (International Maritime Organization) ha avuto lo scopo di cercare soluzioni innovative. Sotto la spinta del caso del Ponent (vedi box sotto), la Francia vuole prendere in seria considerazione non il singolo episodio ma il pericolo per la navigazione nella sua totalità, presentando un dossier sulla pirateria alle Nazioni Unite.
Protector è un sistema integrato di combattimento che si basa su un’imbarcazione robot di nove metri e motore jet diesel, senza equipaggio e controllata a distanza. Molto conveniente nei costi, Protector può condurre un ampio spettro di missioni marittime senza esporre a rischi il personale, operando da una nave base o da terra. Dotato di sensori che includono radar e sistemi di identificazione, di armamento a corto raggio stabilizzato Typhoon, una torretta dotata di videocamera, un proiettore e microfono. Protector può essere utilizzato per diversi scopi, che vanno dalla sicurezza marittima in mare aperto al pattugliamento costiero o in acque interne. |
la Francia vuole stanare i pirati anche nelle acque territoriali dei Paesi stranieri
Tra le proposte contenute nel dossier francese, la possibilità di rinuncia volontaria da parte delle nazioni che non sono dotate di forze marittime adeguate della barriera delle acque territoriali. Si potrebbe, quindi, essere autorizzati a proseguire nelle operazioni di contrasto alla pirateria all’interno di acque territoriali di altri Paesi, senza indugiare in autorizzazioni che porterebbero via tempo prezioso. Inoltre si propone la creazione e permanenza di squadre navali multinazionali per il controllo dei mari, soprattutto in Africa e nel Golfo di Aden.
Una prima vittoria la Francia l’ha ottenuta il 2 giugno 2008: il Consiglio di sicurezza ha votato una risoluzione che consente di inseguire i pirati anche nelle acque somale, con l’autorizzazione del governo africano. La società francese Secopex ha firmato un contratto del valore tra 50 e 100 milioni di euro per la fornitura di 2 mila “Consiglieri tecnici” per la sicurezza delle navi in transito.
E per bottino i soccorsi alimentari
Nel primo trimestre 2008, l’Imb ha riportato 49 assalti tra cui 4 in Indonesia e Tanzania, 5 in India e nel Golfo di Aden/Mar Rosso e ben 10 in Nigeria, dove la situazione si è fortemente deteriorata a causa dell’aumento dell’attività del Movimento per l’emancipazione del delta del Niger (Mend), che ha coinvolto anche diversi italiani. In questa regione si è passati dai 12 attacchi del 2006 ai 42 del 2007 e nonostante la marina nigeriana sia potenzialmente molto forte, si trova con le mani legate per la mancanza di coordinamento con polizia, potere giudiziario e assenza di una leadership politica autorevole.
L’Africa sta diventando il continente dove i pirati attaccano con più facilità, come ci spiega Vichi de Marchi, del World Food Programme: «Anche le nostre navi che portano aiuti per il Darfur e che scaricano in Somalia hanno subito attacchi. E adesso si fanno scortare da navi militari francesi e danesi. Nel 2007 abbiamo sofferto 31 atti di pirateria, con 154 persone di equipaggio prese in ostaggio.
Solo sotto la scorta di altre navi nove spedizioni navali con più di 300 mila tonnellate di merce, sufficienti per sfamare 300 mila persone per sei mesi, sono potute arrivare a Mogadiscio e Merka. Ma anche i convogli terrestri, nonostante le scorte armate, hanno poi purtroppo subìto sanguinosi e ripetuti attacchi a terra, che rischiano di far dimezzare le razioni ai rifugiati e determinare un’emergenza mortale».
Ma come si può intervenire per prevenire o limitare la pericolosità degli attacchi? Da un punto di vista “passivo”, dalla fine del 2004 più del 90% delle navi si sono dotate di sistemi di protezione via satellite, come l’Isps Code (International ship and port facilities security), nato per prevenire e annullare eventuali azioni di terrorismo, sabotaggio, pirateria e dirottamenti.
Da annoverare anche il Secure ship, barriera elettrificata a 9000 volts installata sul perimetro della nave (non però sulle petroliere), e il Ship loc, un segnale che avvisa l’armatore e le autorità in caso d’abbordaggio, sull’esempio di quanto installato nelle banche. Ma in effetti questi palliativi potevano funzionare meglio sul Nautilus del capitano Nemo, contro selvaggi armati di lance e asce, perché oggi gli assalitori sono bene armati e l’assai costosa presenza di guardie armate a volte può risultare controproducente. Sotto l’aspetto investigativo, la creazione di un numero telefonico speciale (+60320310014) per denunciare, in forma anonima, movimenti sospetti e piani criminali, si è rivelata anch’essa utile (vedi anche il sito imbsecurity@icc-ccs.org.uk)
Ma quali sono le cause di questo fenomeno?
«Dietro alla pirateria ci sono crimini sociali», risponde il capitano Arian Abhyankar dell’Imb, «persecuzioni etniche e religiose, instabilità economiche e politiche». Facilitati da vuoti legislativi, autorità inesistenti in Paesi come per esempio la Somalia o incapacità di
reagire, come in Nigeria, a volte i pirati hanno legami con terroristi o guerriglieri separatisti. In più, c’è da dubitare della buona fede di certi Stati, per la diffusa complicità di autorità marittime corrotte e la poca collaborazione prestata. L’attrattiva economica è purtroppo in aumento, rappresentata dal fatto che il 90% del traffico mondiale avviene via nave e i ricavi dell’attività criminosa sono in crescita, con sempre maggiori costi anche a livello assicurativo, calcolati dal governo francese in un miliardo di dollari.
Articolo apparso sul periodico “Espansione” n.7 – luglio 2008 e qui pubblicato p.g.c. del suo autore.
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