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La tempesta di Alberto Cavanna

31/01/2013/0 Commenti/in Alberto Cavanna, Poesie e racconti di mare/da Alberto Cavanna

cavanna dipintoLa giornata fino a quel momento era stata splendida.

La mattina presto, poco prima che il sole sorgesse, la tramontana, una brezza fresca e leggera che ti faceva tirare il golf sulle spalle, aveva iniziato a soffiare e aveva tirato fin verso le nove.

Poi aveva smesso e il mare era diventato una tavola di scaglie d’argento sotto il sole della tarda primavera.

Un giorno ideale per andare a pescare al bolentino.

Era uscito da solo col gozzetto e il vecchio seagull lo aveva spinto al largo, parecchio fuori dell’isola che la costa si vedeva appena.

Pescava con la schiena rivolta alla costa lontana, persa nella foschia del mezzogiorno appena passato.

Ci davano.

In poco più di un paio d’ore aveva preso diverse bugotte da scabeccio, poi aveva agganciato un bel pagaro.

Si era voltato a prendere il panino con le acciughe e la vinella fresca quando le aveva viste.

“Oh diocristo…”

Silenziose come un ragno, nere come scorpioni, le nuvole erano risalite dalla costa, avevano passato la dorsale e ora stavano dilagando basse e veloci su tutto il fronte del golfo, dal Tino fino alla Punta Bianca.

Buttò il suo pranzo in un angolo e fece su la lenza il più rapidamente possibile, senza togliere gli occhi dal fronte della burrasca.

Una striscia nera, quasi una riga, scorreva veloce sull’acqua verso di lui: il mare, sotto la cappa scura della nuvolaglia, diventava scuro, come la pece. I bei riflessi d’argento che gli facevano tenere sempre gli occhi socchiusi, sparivano ingoiati da quel sudario greve, minaccioso.

La prima folgore illuminò il buio oltre la linea.

Il rombo assordante del tuono lo raggiunse pochi secondi dopo.

“Madonna com’è vicina!”

Si era messo a salpare la cima dell’ancorotto e procedeva incurante della fatica con bracciate lunghe e vigorose, sempre più frenetiche, voltandosi sempre più frequentemente per controllare la buriana che, messasi di traverso tra lui e il porto, ora stava per raggiungerlo.

Lavorava sempre più veloce, inzuppato dell’acqua salata che schizzava sotto la presa delle mani doloranti, incurante della fatica e della confusione che la cima non adugliata creava sui paglioli.

La raffica gelata sulla schiena lo prese come una frustata.

Si voltò e le mani mollarono la presa.

Dall’acqua scura appena sotto alle nubi minacciose, una specie di lama bianca ora correva verso di lui.

Un vento rabbioso, freddo, schiaffeggiava la superficie delle onde e alzava creste di schiuma sporca che correvano verso il tratto di mare dove si trovava.

“Fanculo l’ancora!” disse.

Prese rapidamente il coltello nella sacca sotto al banco di poppa e tagliò la cima sul bordo del gozzo, incurante della vernice rovinata.

La barchetta, senza più la presa che la orientava al vento, iniziò a derivare e a girare su se stessa, spinta dalle raffiche.

Le creste ora erano vicine, spigolose. Punte dure che sballottavano il piccolo scafo di legno, facendolo rollare quasi fino a rovesciarsi.

Con enorme difficoltà riuscì a raggiungere il motore e iniziò ad avvolgere la cima al volano per avviarlo.

“Parti, parti, parti…”

Un’altra saetta, contemporanea a una salva assordante, e una raffica gelata da brivido preannunciarono l’arrivo dei piovaschi.

“E dài parti… Parti bastardo!”

Con uno urlo rabbioso l’elica fuori dall’acqua aveva iniziato a frustare la schiuma, immergendosi a tratti con un gorgoglio ansioso.

Lui si era seduto a poppa, stringendo la manetta fino a farsi male, cercando di tenere lo stelo immerso e di portare la prua verso il riparo lontano del molo.

Ora tutto intorno lui era nero, il sole come se non fosse mai esistito.

Gocce grosse, fredde come ghiaccio, lo colpivano impietose fino ad accecarlo.

Violenti brividi iniziarono a scuoterlo.

“La cappotta… Devo prendere una cappotta o ci lascio la pelle.”

La sacca con i vestiti e la cerata era sotto al banco di voga, coperta dalla cima dell’ancora zuppa e aggrovigliata.

Provò a raggiungerla senza mollare il motore ma era distante.

La barca sbandò, il seagull ringhiò rabbioso girando a vuoto.

Raddrizzò la prua cercando di far rollare la barca il meno possibile: se si fosse messa di traverso alle onde si sarebbe sicuramente rovesciata o il vecchio fuoribordo, ormai più fuori che dentro l’acqua, avrebbe potuto fondere.

“Merda…”

Si risedette cercando di vedere tra gli spruzzi e le sferzate dei rovesci, ormai indistinguibili uno dall’altro.

Prese un remo e cominciò, con la sinistra, a provare a pescare la sacca ma il vento non gli permetteva di tenere dritta la pala.

Un’onda formata lo sbalzò e il remo finì in mare.

“Non ce la faccio…”

Il tremito ormai gli impediva di muoversi razionalmente, le mani non riuscivano quasi più a mantenere la presa: un altro remo seguì la sorte del primo.

Una era sceso su tutto e tutti: pioggia, onde, vento erano un’unica cosa.

“La capotta…” disse ancora una volta.

Lasciò il motore e si lanciò sulla sacca, la prese.

In una frazione di secondo si voltò ma fu solo per vedere il fuoribordo mettersi di traverso e una nausea improvvisa gli disse che la barca si stava rovesciando.

Quell’unica cosa si chiuse sopra lui, sopra la barca.

La nausea gli fermò il fiato come un fiotto di acqua rigurgitata.

“Svegliati!”

Sua moglie lo stava scrollando.

“Dio…”

“Svegliati! Guarda in che stato sei…”

Si mise a sedere suo letto zuppo di sudore gelato. Intorno a lui la sua camera, sua moglie.

Ansimò per ributtare indietro il vomito dell’angoscia. Riprese a respirare con calma.

“Ancora la burrasca?”

Fece segno di si con la testa, aveva quasi paura ad aprire la bocca per non vomitare la schiuma che lo stava soffocando.

La moglie riprese a brontolare mentre andava verso la cucina.

“Allora non vai a pescare con Antonio?”

“No. – le parole erano uscite rade e faticose, – non vado in mare oggi.”

Lei intanto aveva aperto le persiane.

La giornata era splendida.

“E perché no? Guarda che tempo… e’ da scemi stare in casa.”

“No. All’una cambia. Viene giù il finimondo.”

Lei non disse nulla. Sapeva che era vero, il tempo sarebbe cambiato, come le altre volte.

Come tutte le altre volte che suo marito, da trent’anni a questa parte oramai, passava delle notti da incubo e le faceva passare anche a lei.

La giornata era bella ma poi una nuvola sarebbe all’improvviso comparsa da dietro le colline a ovest.

E sul mare si sarebbe scatenato un inferno.

Lo guardo seduto sul letto, sfatto, la bocca mezza aperta con un filo di bava che colava per la nausea incontenibile che rischiava di soffocarlo come quella tempesta che da anni, da quando navigava prima della pensione, lo aspettava al varco per prenderselo e portarselo via.

“Ma perché non ti fanno male i calli come a tutti gli altri?”, disse a metà tra lo scherno e la compassione.

Lui non disse nulla e si mise davanti al televisore, aspettando la burrasca.

Tags: Alberto Cavanna, Racconti di mare
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