Blu Caribe – Antonio Soccol
di Antonio Soccol
Foto bn di Alberto Korda e Raul Corrales
Foto a colori di Antonio Soccol
Avete mai pescato in altura? Io l’ho fatto una sola volta, parecchi anni or sono. E questo è il diario di quella giornata. Da allora, alcune cose sono cambiate: i miei cari amici Alberto Korda e Raul Corrales sono morti e così pure Ronald Reagan che, allora, era presidente degli Stati Uniti. E neppure i due Ernesto: “Che” Guevara e Hemingway, purtroppo, ci sono più.
Degli altri ho un po’ perso le tracce ma la Corrente del Golfo non è cambiata. E credo (spero) non siano mutate nemmeno le emozioni che garantisce.
Ci sono giorni, a La Habana, in cui tutto è più nitido, più secco, più assoluto. Una palma, un profilo di grattacielo, un venditore di giornali che ti chiede se hai fuoco per accendere la sua Popular, un ragazzo e una ragazza che passeggiano lungo il Malecon, il più bel lungomare del mondo, i bambini che giocano con gli aquiloni. Sono giorni speciali e tu non sai il perché, ma li senti e li vedi così fin dal mattino quando dai un’occhiata fuori dalla finestra. Qui, la mattina non c’è il nostro problema, quello di sapere che tempo fa fuori. Qui il sole c’è sempre. E se per caso il sole non c’è e sta piovendo, non te ne importa proprio niente perché sai che è una pioggia che dura poco, che non è una di quelle pioggie che ti annoiano la giornata, o magari tutta la settimana e che finiscono per annoiarti la vita. A La Habana, anche nel periodo peggiore, in quello in cui puoi trovarti in mezzo ad un ciclone, la pioggia dura ore, mai giornate.
E subito dopo esce il sole, o una stellata se è di notte, che ti riscalda l’animo. E i colori sono comunque sempre forti, secchi. Come i profumi che sono intensi, emozionanti. Ci sono però giorni speciali. Se parlassimo dell’Europa potremmo definirli “più limpidi”. Ma a Cuba l’aggettivo non basta: risulta banale. Perché qui tutti i giorni sono limpidi. Eppure i giorni speciali tu li distingui subito. Apri le finestre e senti odore di guayaba più inebriante, che ti riempie la bocca, lo stomaco e ti confonde la testa. Giri le calli della vecchia città coloniale e senti l’odore della malanga fritta e dei frijoles negros (fagioli neri) molto prima di arrivare davanti alla porta della casa dove stanno cucinando. Sono, l’ho detto, giorni particolari: per uno strano e misterioso motivo, l’aria è satura di essenzialità. E tu non puoi non esserne inebriato: allegro e affamato di vita. E comunque sia o qualsiasi cosa succeda, tu sai che quel giorno sarà un giorno ricco e che ogni gesto, ogni fatto, ogni parola avranno senso davvero. Era uno di questi giorni speciali quando andammo a pescare alla traina sulla Corrente del Golfo.
L’invito veniva a Hugo Gonzales, il direttore generale del “Marina Hemingway” di Barlovento. Lo avevo conosciuto un paio di giorni prima: si sposava sua figlia ed Alberto Korda mi aveva portato alla boda, cioè alla festa di matrimonio. C’erano molti parenti, invitati, amici, una orchestra che suonava nel patio e un sacco di giovani che ballavano. I matrimoni, a La Habana, si celebrano di sera. La figlia di Mario s’era sposata alle 9 de la tarde, in uno splendido municipio di quartiere. Era stato piacevole e curioso perché i matrimoni si fanno in serie, davanti al notaio. E così le strade attorno al municipio sono invase da tutti gli invitati di tutti i matrimoni e c’è una grande confusione di gente, di vestiti, di colori, di profumi, di allegria.
Esaurita la funzione ufficiale ogni coppia se ne torna a casa, seguita dai propri invitati e si passa alla festa.
Si servono polpettine di carne e di pesce, dolcetti, frutta fresca. Il ron scorre in quantità industriali. Ed anche di birra se ne beve tanta. Così presto l’euforia del matrimonio si mescola a quella dell’alcool e riesce difficile capirci qualcosa. In questo immenso caos, Korda riuscì a presentarmi al padrone di casa, a Hugo. C’erano, credo, poche cose che Korda non riusciva a fare a Cuba. Era stato per quasi dieci anni il fotografo personale di Fidel Castro e conosceva tutti. Aveva una capacità d’imporsi impressionante: basta dire che era, allora, l’unico fotografo free lance di tutta Cuba, di un paese cioè dove essere free lance ha lo stesso senso che vendere gelati al Polo.
“Così, sei un giornalista di mare – mi disse Hugo – Se ti piace il mare, ti organizzo una giornata di pesca al castero, nella Corrente, con una delle nostre barche della Marina Hemingway”. Un frenetico cha-cha-cha si mangiò le ultime parole, ma l’invito arrivò puntuale pochi giorni dopo.
Era domenica ed era un giorno speciale. Alberto venne a prenderci all’albergo, all’Habana Libre, che erano appena le otto del mattino. Percorremmo il Malecon e il mare era del tutto calmo. Una allegra brezza conteneva la temperatura e consentiva virtuosismi ai molti ragazzi che giocavano, come sempre, con i loro aquiloni. Prendemmo poi per la Quinta Avenida, la strada più bella di La Habana, quella dove vi sono tutte le ambasciate. Larga e ricca di vegetazione, la Quinta ti aggredisce con i suoi profumi che il vento del mare si strappa dalle cime delle palme e porta giù, sulla strada.
Se c’è un posto al mondo dove tu senti il profumo del Tropico, questo è proprio la Quinta Avenida di La Habana. Forse un po’ è anche impressione: tutte queste ville coloniali sono di una bellezza tale che sembrano fatte per un film. La Quinta Avenida è molto lunga e porta a Barlovento dove sorge uno splendido marina. Un dedalo di canali interni apre la facoltà di ormeggiare la propria imbarcazione davanti a piacevoli abitazioni che si possono affittare. Le case sono dotate di tutti i confort, servite da un bar e da un restaurant e nel prezzo d’affitto è compreso sia il diritto d’ormeggio che il costo del personale che si occupa dei lavori domestici. I prezzi sono in funzione della dimensione dello scafo e della casa. ma oscilla(va)no attorno ai 100 dollari per giorno: largamente inferiori a quelli che si trova(va)no in un qualsiasi marina in Mediterraneo.
Fino a qualche tempo fa le barche ormeggiate erano molte: quasi tutte nordamericane. Oggi, (un “oggi” inteso come “venti anni or sono”, si capisce) una precisa disposizione di Ronald Reagan, proibisce ai cittadini degli USA di andare a Cuba sia per turismo che per lavoro. Il veto è esteso anche ai fotografi ed ai giornalisti. Così molte banchine del marina di Barlovento sono vuote, in attesa che gli europei s’accorgano di questo paradiso e attraversino l’Atlantico con le loro barche per una crociera unica.
I preparativi per l’uscita in mare sono rapidi. Carichiamo alcune cassette di birra, stecche di ghiaccio, un po’ di roba da mangiare, e un ice-box con le esche. La barca è uno sportfisherman costruito in vetroresina, a La Habana, su una lunghezza di 34’ e dispone di un paio di diesel Volvo Penta da 175 cv ciascuno. Si chiama Hemingway I° ed è la prima di una piccola serie, appositamente costruita per la pesca alla traina nella Corrente del Golfo. “L’abbiamo collaudata questa primavera andando sino in Messico, nello Yucatan, per una gara internazionale di pesca”, mi racconta Julio Arocha che è il patron della barca.
Patron in cubano significa comandante ed è il responsabile di tutto quello che succede a bordo: dalla condotta della barca che viene spesso affidata ad un marinaio, alla preparazione delle esche. A bordo dell’Hemingway I°, oltre a Julio, ci sono un marinaio di colore e un cocinero, cioè un cuoco. Quando la barca ha scaldato i motori saliamo a bordo: Antonella, Alberto Korda, Filiberto Carrie e Chango.
Filiberto Carrie è un giornalista cubano che lavora sia per il quotidiano Granma che per il periodico Sol de Cuba. E’ lui che fa gli onori di casa: spiega che inizia oggi un torneo di pesca al castero, riservato ai giornalisti. Ci sono tre mesi di tempo e può partecipare qualsiasi giornalista cubano o straniero. Vincerà chi, alla fine dei tre mesi, avrà pescato il castero più grande. Chango è il primo giornalista in gara. Chango è un giornalista argentino che vive a La Habana da 25 anni ed è responsabile dell’agenzia della France Press in Cuba.
Usciamo lentamente. C’è una piccola barca a vela ormeggiata: è di un navigatore solitario cecoslovacco che sta facendo piano piano il giro del mondo. E’ uno scafo in legno da 6.50 m. ft e sembra quasi essere stato studiato per la MiniTransat. Buon viaggio, amico.
Uno può dire: il mare era blu e la sua descrizione è chiara, sintetica, rende l’idea. E questo va bene per tutti i mari del mondo: per quello di Ustica oppure delle Maldive. Ma non è una descrizione fedele quando deve dire com’è il mar del Caribe di Cuba in una giornata speciale. Allora uno pensa di trovare altri colori più intensi e magari scrive: il mare era blu cobalto. Oppure aggiunge tono a tono e lo descrive come un mare blu profondo. Ma non riesce mai ad essere fedele, perché non è stato ancora inventato l’aggettivo giusto per indicare il blu del mar del Caribe.
Forse sarebbe giusto che esistesse un colore, un punto di blu identificabile con il nome Blu Caribe. Ma, tranne che al giornalista in difficoltà, a chi servirebbe questo neologismo? Non certo ad una ditta di inchiostri da stampa o di pittura per appartamento, perché il Blu Caribe è irriproducibile artificialmente. E’ denso, ma non cupo. Anzi, ha una profondità di toni che ispira allegria. Soprattutto ti fa aver voglia di vivere, di essere curioso, pronto a dare e ad avere, disposto all’esperienza. E’ un blu sensuale ma non erotico. E’ un blu carico ma non violento. E’ un blu assoluto ma pieno di libertà, di fantasia. E’ un blu pregno di entusiasmo, di ritmo, di futuro. E’ il Blu Caribe, quello che ha il mar del Caribe in una giornata speciale.
Così, quando Hemingway I° uscì dal marina e puntò al largo, verso oriente, s’immerse in un Blu Caribe totale. Reso ancor più assoluto dal bianco di quegli straccetti di nuvole che navigavano sopra di noi. Erano quasi le dieci di mattina e il sole non era ancora del tutto alto. In mare non c’era nessuno. O così sembrava a prima vista perché poi, a ben guardare, qualche puntino all’orizzonte si vedeva. E ogni puntino era una barchetta di pescatori che tentava una buona cattura nella Corrente del Golfo.
“La Corrente, diceva Hemingway, è un fiume azzurro grande e profondo, profondo da mille a millecinquecento metri e largo da cento a centotrenta chilometri e che ha i più bei pesci che io abbia mai visto”. Lo ha scritto in un articolo pubblicato sulla rivista americana Holiday, nel luglio del 1949: il pezzo si intitolava “The Great Blu River”.
Hemingway I° prese a dritta e si inserì nel grande fiume azzurro. E’ buffo: sei nell’Atlantico, ti senti in mare – anzi in oceano – aperto e ne sei sicuro per i colori e gli odori che ti stordiscono eppure stai navigando a poche centinaia di metri da La Habana. Oggi che l’acqua è calma, i grattacieli si rispecchiano in mare e se tu guardi solo alla tua dritta ti sembra d’essere ancora in città perché vedi la gente che cammina sul Malecon, vedi gli aquiloni dei ragazzini, vedi i venditori di giornali e vedi il grande campo da baseball. Se invece guardi a poppa, o a prua o a sinistra, allora senti di essere in mezzo. In mezzo all’Atlantico, intendo.
Julio e Chango prepararono le esche sugli ami. Erano pesciotti pescati il giorno prima: sardoni li chiameremmo noi in Mediterraneo, ma in questo mare così blu: si chiamano bally-ho. Li trafissero con l’amo e ne fissarono con molta attenzione la testa, legandola con un filo di cotone bianco. Ne prepararono tre e collegarono i terminali d’acciaio alle lenze di nylon di tre canne da pesca. Li tennero per un po’ a saltellare sulla scia della barca a poppa perché perdessero la rigidità data dal soggiorno nell’ice-box e poi mollarono le frizioni dei mulinelli. Subito il mare si mangiò una quarantina di metri di lenza e le esche, infilate negli ami, incominciarono a ballare lontano, oltre la scia della barca. Julio portò le lenze delle due canne esterne sulle cime dei due divergenti e quella della canna centrale la fissò ad una sagola che correva lungo lo specchio di poppa. Da quel momento eravamo in caccia del castero più grande possibile. Chango prese posto sulla sedia da combattimento, si calcò in testa il berrettino con visiera, buttò in cabina la maglietta di cotone con la scritta “Marina Hemingway” sulla schiena e si accese una sigaretta.
Julio stappò un paio di bottiglie di cerveza e le portò su, sul flying bridge dove eravamo noi. “¿Quiere cerveza?” – mi disse allungandomi una bottiglia di birra. Era Hatuey, la migliore che si possa trovare a Cuba, a meno che no ti piaccia quella scura perché allora la migliore è la Cabeza de Lobo. La birra era ghiacciata ed era bello berla in mare. Non so se capiti anche a voi: secondo me le cose da mangiare e da bere cambiano gusto e diventano più buone o meno buone in funzione del luogo in cui si consumano. E una bottiglia di Hatuey ghiacciata, di mattina, in mezzo alla Corrente del Golfo è una cosa buona davvero. O forse così mi sembrava perché era una giornata speciale e tutto aveva più gusto, più forza.
Julio oltre la birra aveva portato anche le sigarette e fece girare il pacchetto di Popular che sono le sigarette più diffuse a Cuba. Quelle che, in Italia negli anni cinquanta, erano le Alfa sembrano leggere se confrontate con le Popular che sono di tabacco nero e fortissimo. Chi fuma Gitanes o Gauloises pensa, al solito di fumare forte, ma le Popular sono molto più forti e quando aspiri è come aspirare un mezzo toscano nostrano. Il gusto di una Popular in bocca, dopo che hai bevuto una bottiglia di birra ghiacciata Hatuey e quando sei sul flying bridge di una barca che sta pescando nella Corrente del Golfo: ecco un’altra cosa che non si può descrivere.
Ti senti pieno, e forte. E guardi las gaviotas, i gabbiani che volano sopra alla barca o i pesci rondine che scappano a prua e saltano di onda in onda per centinaia di metri e non li vedi per niente. Non so se mi sono spiegato.
Julio Arocha mi disse:”Potrebbe essere una buona giornata di pesca oggi, ma mi sembra che la Corrente sia un po’ debole. Se la Corrente è morbida, ci sono pochi pesci grossi. Chissà, forse pescheremo qualche castero: il sole e il vento sono buoni. Sì, se la Corrente fosse più decisa oggi potrebbe essere una giornata eccezionale di pesca”.
“Castero, detto anche Aguja de casta; termine scientifico: Makaira nigricans (Lacépède, 1803). Colore azzurro sul dorso, bianco macchiato sul ventre, pinne azzurre. Ha una notevole dimensione che talvolta supera i tre metri e un peso che può superare i 300 chili”: così scrive la Sinopsis de los peces marinos de Cuba. Ed era di questo pesce che eravamo in caccia.
I miei sentimenti erano confusi, come quelli di Antonella. Era impossibile sottrarsi all’emotività di ogni attimo, e di tutta l’atmosfera. Era bello andare a pescare nella Corrente, nel grande fiume azzurro. Ma era assurdo pensare che questa situazione così pregna di vita, così densa di odori, di colori, di gusti dovesse “sublimarsi” con l’amaro della morte di un grande meraviglioso pesce.
Ma, senza la grande ombra della morte tutto avrebbe avuto la stessa carica? Antonella aveva detto:
Perché una volta pescato, il pesce non lo ributtiamo a mare? Se quello che conta è prenderlo, perché ucciderlo?
Già. Ma nessuno aveva risposto. Forse non tutti avevano capito. Forse l’abitudine aveva creato una corteccia e questi ragionamenti potevano sembrare fragilità.
Il castero è un marlin, uno dei più grandi. Di marlin, nella Corrente ce ne sono tanti e di tanti tipi. Ci sono quelli piccoli che arrivano a pesare al massimo 50 o 60 chili, ci sono i casteri e ci sono gli emperador. I primi due hanno una grande pinna dorsale, l’ultimo è il nostro pesce spada. E’ il più grande, il più raro, il più ricercato e…il più buono, cotto alla griglia.
Il sole mangiava le ore. Era quasi mezzogiorno. Hemingway I° navigava sul ritmo dei 1500 giri intorno ai sette nodi, a zig-zag dentro alla Corrente, con la prua ad oriente. Avevamo già superato tutta la città e anche la fortezza del Morro che domina l’ingresso della baia di La Habana. Poche miglia oltre sorgeva Cojimar, la leggendaria, il più famoso paesino di pescatori del Caribe.
“Marlin, io al massimo, in un giorno, sono riuscito a prenderne sette – scrive Hemingway in “The Great Blu River” e continua:
Ma Pepe Gomez Mena e Martin Menocal insieme ne hanno presi dodici in un giorno, e io non vorrei mai scommettere che questo primato non venga un giorno battuto da loro o da qualche bravo sportivo, qui residente o in visita, che ami e conosca la pesca al marlin sul grande fiume che scorre lungo la costa settentrionale di Cuba
“Quel primato l’ho battuto io” – disse Julio, allungandomi una nuova bottiglia di birra. Julio è un uomo forte. Di colore. Non deve essere giovanissimo perché ha una esperienza incredibile, ma porta bene gli anni che ha e che, forse, possono essere una cinquantina. Disse: “Era un giorno come questo. Un giorno speciale, tu sai cosa intendo. Eravamo in barca in due. E la Corrente era forte, decisa, e i marlin correvano bene. Venivano da Barlovento e ci eravamo fermati a pescare fuori al largo, all’altezza del Morro. A mezzogiorno avevamo in barca già sette marlin ed era una ottima giornata. Così dissi al mio compagno che per quel giorno poteva bastare, che andava bene così. “No, aspetta” – disse – “forse possiamo prenderne ancora “.
E calammo ancora le lenze. Come ti ho detto, era un giorno speciale. Dopo due ore avevamo imbarcato dieci pesci e io sentivo la testa in fiamme. E mi sembrava di star male. E di nuovo ho detto “Andiamo, basta così”. Avevo paura a restare e avevo paura ad andare. Una giornata così, lo sapevo, non sarebbe più tornata. Mai più. E il mio compare disse ancora “No, andiamo avanti”. L’undicesimo pesce tardò ad abboccare ma subito, subito dopo abboccò anche il dodicesimo. E io avevo la testa che non la sentivo più. Mi buttavo acqua di mare in testa, perché avevo paura che si mettesse a bollire il cervello. Non sentivo più la schiena, le gambe, le braccia, le mani. Io non ero più io. E neanche il mio compagno era più lui.
Aveva una faccia strana. C’era in noi una esaltazione che neanche in mille sbronze ho mai provato. E al dodicesimo marlin io tornai a dire “Basta, non voglio più pescare. Torniamo”. Ma ancora una volta vinse il giorno speciale e calammo ancora le lenze. Quando salì il tredicesimo pesce volevo urlare, ballare, abbracciare il pesce. Era il record lo sapevamo, ma non era quello che contava. Era tutto quel pesce, era il giorno speciale che si era impadronito di noi. Volevo smettere ma non potevo. Volevo tornare a Barlovento ma non potevo. Calammo ancora una volta e subito prendemmo la quattordicesima aguglia. Una grande bestia che ci fece lavorare duro. E a bordo non c’era più posto per il pesce. E il sole stava calando. Tornammo. In cammino, incrociammo una barca che aveva la radio: così la notizia arrivò al Club prima di noi. Ma nessuno poteva crederci. Era giusto. Non ci credevamo nemmeno noi. Poi, dentro al porto, contammo di nuovo i marlin ed erano davvero quattordici. In un solo giorno. In un giorno di quelli speciali, tu sai.”
“Pesce, pesce, Chango; pesce” – urlò Julio. Qualcosa aveva abboccato all’amo della lenza di sinistra che era volata da divergente. Il mulinello cantò per qualche secondo: era la lenza che filava a mare, trainata dal pesce. “Hijia de puta de una picua” borbottò Chango. Era un barracuda. Non lottò. Si lasciò tirare a bordo in pochi attimi… Incassò la randellata in testa e morì subito. “La puta madre que te pariò…”, rincarò la dose Chango. I pescatori d’altura detestano i barracuda almeno quanto quelli di costa, quelli che lavorano con i tremagli, odiano i granchi. Dicono, i pescatori di altura, che i barracuda guastano la festa, che intrigano le lenze, che si mangiano le esche, che, insomma, sono figli di puttana.
Certo, il feroce barracuda dei miti e delle leggende dei sub – intendo dei sub ignoranti, per favore – non fa una bella figura una volta che è preso all’amo da uno sportfisherman che è in caccia nella Corrente. Viene a morire quasi rassegnato: come un bambino sorpreso a rubare i dolci sa che gli arriverà il castigo, così il barracuda che ha voluto mangiare una esca riservata ad un castero, sa che non ha scampo e subisce. E fa male a vederlo morire così. Julio lo squamò e lo trasformò in filetti in pochi attimi, recuperò tutte e tre le lenze e cambiò le esche. Buttò a mare i pesciolini che aveva innescato dapprima e li sostituì con i filetti di barracuda. “Ahora sì, ahora vamos por el castero. Questo tipo di grosso marlin che è il castero adora i filetti di barracuda, ne va matto”. E le tre lenze tornarono a saltare a quaranta metri dalla poppa di Hemingway I° che continuava a zigzagare entro la Corrente.
Eravamo all’altezza di Cojimar, la leggendaria. “Qui Fidel ha preso il marlin che gli permise di battere Hemingway” – dice Albert Korda. E anche questa è una storia tutta da sentire. “Ci fu una sfida fra i due alla pesca al marlin. La Rivoluzione era giovanissima, Hemingway viveva ancora alla Finca Vigìa e Fidel Castro gli propose una sfida nella Corrente. Era il maggio del 1960. Hemingway venne con la “Pilar”, la sua barca, e aveva a bordo il suo fedelissimo Gregorio Fuentes de Betancourt. Fidel prese un’altra barca di Barlovento. Aveva come tecnico per le esche Blackman, un grosso esperto di La Habana che adesso lavora ancora per il turismo e porta la gente a pescare.
A bordo con Fidel c’era anche “el Che”. Al Che non interessava molto la pesca, ma andava bene per mare. Per forza: suo padre Ernesto Guevara Linch era socio di German Freres Sr. in un grande cantiere nautico sul Rio de la Plata, in Argentina, quando il “Che” era piccolo e non era ancora “Che”. Così, mentre Fidel pescava il “Che” lo fotografava o leggeva un romanzo.
La lotta fra il premio Nobel per la letteratura e il “lider maximo” fu dura, molto dura e uno dei due vinse. A ben guardare, non importa più chi: è storia vecchia. Resa divertente dalla fantasia di alcuni giornalisti (non presenti) americani che scrissero che Fidel Castro era “aiutato” da un sommergibile russo che gli agganciava le prede all’amo… Ma le foto che in quella occasione fecero Alberto Korda e Raul Corrales, altro grande fotografo cubano, ne sono straordinaria testimonianza.
Il piccolo castello di Cojimar, l’entrata nel porticciolo naturale, le casette di legno dipinte in azzurro, il monumento a Hemingway fatto con il bronzo delle eliche dei pescherecci e inaugurato da Gregorio Funtes de Betancourt il patron (marinaio) della “Pilar”, La Terraza, che è il famoso bar sul mare dove Santiago (il pescatore de “Il vecchio e il mare”) ormeggiava la sua barchetta a remi: dallo sportfisherman si vedeva tutto questo come proiettato in uno schermo gigante. E si vedevano anche le cime delle palme fremere ai primi morbidi respiri del brizon, quel vento da nordest che investe ogni pomeriggio la costa orientale di Cuba.
L’ho detto: era un giorno speciale. E fu in quel momento che tutto accadde. Julio urlò: “Pesce!”. Chango agguantò rapido la canna e liberò la frizione del mulinello. Il marinaio di colore che era ai comandi mise in folle. La barca s’arrestò di colpo. Al largo un paio di delfini emersero a guardare cosa succedeva. Poi ci fu un lungo, imponente momento di attesa. Di silenzio. Doveva accadere qualcosa. Chango bloccò il freno del mulinello. E attaccò forte. Tirò forte la canna verso di sé una, due, tre volte. Poi attese. Tutti aspettavamo. Sul mare borbottavano solo i due diesel al minimo. La distesa d’acqua era appena increspata dal brizon. La Corrente fluiva metodica: portava con sé, nel suo Blu Caribe, la grossa barca alla deriva e il pesce che aveva voluto l’esca del castero. “¿Tu sabez que pez es?” – “No, yo no lo sé”. E poi ancora silenzio. Un silenzio di quelli che si sentono, che ti martellano le tempie, che ti danno i brividi dietro la nuca, che fanno male alla radice dei capelli.
Allora improvvisamente il Blu Caribe esplose. La spada che proveniva da immense profondità fiondò il cielo. Mille lacrime di mare corsero verso l’alto, pronte a vivere il violento percorso della morte. E il sole senza pietà si infilò fra di loro, le allargò, le ingrossò e raggiunse la spada, e la bocca del pesce, e il suo corpo lucido e forte, e la vela spiegata in tutta la sua offensiva bellezza. Il sole penetrò fino alla coda che uscì dall’acqua e le corse incontro.
“Aguja”, urlarono a bordo. Urlò Chango, urlò Julio. Urlò anche il marinaio di colore che portò subito le mani ai comandi. Aguja rimase appesa al cielo. Era blu violetto. Anche la grande vela era blu, maculata di violetto. Sotto a lei: l’oceano Blu Caribe. Aguja volò. Sentì l’odore delle palme di Cojimar, la leggendaria. Vide il castello, il fiume, la piccola baia, vide La Terraza dove i vecchi pescatori raccontano le storie di squali, vide le casette di legno dipinte di azzurro. Vide tutto. E capì. Così baciò il sole, baciò il brizon, baciò Cojimar, la leggendaria.
E si tuffò nel Blu Caribe, giù verso il fondo, sempre più giù. E verso il largo, verso il centro del grande fiume azzurro. Verso i grandi pascoli di sempre. Dove correvano e corrono e correranno sempre i “più bei pesci” che esistano al mondo. Aguja aveva capito, e non voleva. Non voleva, in un giorno speciale, fermarsi. E continuò ad immergersi. La lenza le feriva la bocca, l’amo le torturava la gola: maledetto, gran figlio di puttana di falso filetto di barracuda, bastardo che mi vuoi fermare e uccidere. Oggi. Proprio oggi che è un giorno speciale. No. Non voglio: giù, giù verso il blu dell’abisso, verso il blu vitale.
Sulla barca, su Hemingway I°, il silenzio continuava. Ma era un silenzio pazzesco che stordiva. E c’era da stringersi la testa fra le mani per non sentirlo, questo silenzio che urlava di vita e di morte. Aguja lottò. Lottò con tutte le sue forze e con quelle del Blu Caribe. Saltò ancora in aria e cercò l’aiuto del sole, del vento, delle nuvole, delle palme. Ma ogni salto era meno alto. Meno violento. E, giù nel profondo blu, quella maledetta lenza non mollava.
Così lentamente le forze si dispersero. E ogni tanto Aguja si lasciava andare. La lenza, la stramaledetta, feriva meno lasciandosi andare. Era un languido abbandono sulle acque. Un lasciarsi morire per non soffrire. Solo quando sentì vicino il fischio delle eliche e vide il duro fondo della barca tentò ancora. Ma in alto sul flying bridge il marinaio di colore fu pronto a dare gas: un forte colpo in avanti e le eliche, alleate che potevano tranciare la forte lenza di nylon, si allontanarono.
Aguja si appoggiò alla superficie del mare, estrasse tutta la sua meravigliosa vela e venne a poppa. Julio Arocha la prese per la spada e con il raffio l’aiutò a salire. Le spalle e la schiena di Chango erano bagnate di sudore che brillava nel sole. La pelle di Aguja era bagnata di mare, di sale, di blu, di Blu Caribe e brillava al sole. Aguja morì. Il suo grande corpo, oltre i due metri, fu scosso da un paio di brividi. Qualcuno aveva un grosso sapore d’amaro in bocca, a bordo dello sportfisherman Hemingway I° in navigazione, all’altezza di Cojimar, la leggendaria, sulla Corrente del Golfo.
E Julio disse: “Vamos. Torniamo a casa”. Scesi dal flying bridge nel pozzetto. Chango disse “Peserà 70 libbre: non è un castero”. Mi chinai su Aguja. Era bellissima e ingiustamente immobile. Era affascinante e imponente. La accarezzai. La pelle era forte ma non ruvida e la spada lanciava incredibili quanto meravigliose sfide. Mi parve sacrilego che tutti la potessero vedere così; anche un po’ impudico. Presi una tela e la coprii.
Lacrime di mare scivolarono sul suo corpo Blu Caribe.
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Querido Antonio,
Gracias por tu historia tan linda..como el gran rio azul.
Un saludo,
Alba
traduzione italiano:
Grazie per la tua storia bella come il grande fiume .. blu.
Un saluto,
Alba