Per un milione di colpi di remo di A. Soccol
di Antonio Soccol
Vogando in due, alla veneziana si intende, su un “s’-ciopón”, con un colpo di remi la barca avanza di un paio di metri. Se chi voga è forte ed allenato anche qualcosa di più. Per coprire cento metri ci vogliono circa trenta “vogate”. Per fare trentadue chilometri ce ne vogliono quasi diecimila. Se poi i chilometri da percorrere sono complessivamente quaranta si arriva a dodicimila colpi di remo sull’acqua.
Mia sorella Silvana (classe 1931) e io l’abbiamo fatto per ventisei volte consecutive: dal 1975 al 2000. Perchè altrettante sono state le nostre partecipazioni alla “Vogalonga” che ogni anno, in Maggio, si svolge a Venezia.
Adesso vi spiego cos’è.
Evitiamo gli equivoci: non è una gara e, soprattutto, non ha assolutamente nulla a che fare con la famosissima “Regata Storica” che si svolge in Canal Grande, ogni prima domenica di settembre (e che, magari, qualcuno di voi ha avuto modo di vedere e ascoltare nella modestissima, noiosissima e imprecisissima telecronaca Rai di Puccio Corona, che Dio lo abbia in gloria ma che, se andasse a far danno altrove, noi tutti saremmo davvero molto felici).
La “Vogalonga” è una manifestazione inventata nel 1975 da Toni Rosa Salva, pasticcere in Venezia, assieme ad un gruppo di amici, come manifestazione di protesta contro il moto ondoso (che devasta la Serenissima peggio dei “carriarmato-giocattolo” dei leghisti) e per riavvicinare i veneziani alla loro laguna e alla loro tradizione.
Si sviluppa su un percorso, appunto di trentadue chilometri, che parte da Bacino San Marco, va verso Sant’Elena, quindi punta su Sant’Erasmo, raggiunge da dietro Burano, quindi Mazzorbo, le isole della Madonna del Monte e di San Giacomo in Palude, entra a Murano, ne percorre il suo Canal Grande, sfocia nella laguna nord, sfiora la Baia del Re, esplode fra le rive del Canale di Cannaregio e finalmente rientra all’altezza di Riva de Biagio, nel vero Canal Grande (quello di Venezia), per esaltarsi in uno splendido rush finale sino alla Punta della Salute (Bacino San Marco).
Le regole sono banali: è ammesso qualsiasi tipo di natante purchè spinto a remi o a pedali. Così, fra i partecipanti, ci sono barche con voga alla veneziana (in piedi e con i remi che “lavorano” sulle forcole) ma anche gozzi a remi, canoe, kaiak, dragoni, pattini da spiaggia e pedalò.
A Venezia si voga in piedi perchè un tempo i canali della laguna non erano segnati dalle briccole e quindi bisognava poter vedere, con un certo anticipo, se la rotta consentiva il passaggio dell’imbarcazione oppure se una secca (che in termine locale si chiama “barena”) ne ostruiva l’avanzamento. Poichè il gioco delle maree, come si sa, porta per sei ore ad avere acqua in crescita e per sei ore acqua calante, le “secche” sono talvolta “navigabili” e altre volte no.
Le barche che si vogano alla veneziana sono parecchie: la più nota, ovviamente, è la gondola (11 metri di lunghezza fuoritutto) ma poi c’è il “pupparin” (una sorta di stupendo puledro della laguna: lungo circa 9,50 metri, elegantissimo e veloce), il “sandolo” (lungo 8,10 per 1,42 di larghezza, che, in terra ferma, si potrebbe identificare con una auto di media cilindrata), la “mascareta” (qualcosa come il “piccolo genio”), la “caorlina” (una specie di “furgoncino della laguna”, atto al trasporto di frutta e verdura dalle isole dell’estuario al mercato centrale di Rialto), la “topa” che è una barca un pò bastarda (alta di franco bordo, stabile, pesantuccia), la “peata” (ormai inesistente, era il vero “camion” utilizzato per il trasporto di tutto quello che è davvero pesante e massiccio), la “vipera” (usata dagli antichi contrabbandieri e con la caratteristica di poter velocissimamente esser vogata sia verso prua che verso poppa, ingegno utile per sfuggire ai controllori) e, infine, lo “s’-ciopón”.
Quest’ultimo natante era uno scafo studiato per andare a caccia di anatre nelle acque più calme della laguna: ponte di prua che quasi si infila in acqua, specchio di poppa con slancio deciso.
Prende il nome dall’abitudine di montare a prua una lunghissima colubrina o una spingarda (grosso schioppo e quindi , in dialetto, s’-ciopón) con la quale si sparava ad alzo zero… Per evitare di imbarcare acqua nel forte, inevitabile rinculo: ecco spiegato il motivo per cui si presenta con lo specchio di poppa così slanciato. Nelle sue dimensioni tradizionali e storiche era lungo 5,70 m x 1,12 di baglio massimo; oggi si è un po’ allungato.
Come tutte le barche veneziane (“peata” esclusa) si può vogare da soli oppure in due. Molte barche consentono la voga a tre o quattro remi e vi sono anche gondoloni particolari che dispongono di 12 (dodesona), e perfino di 18 remi (disdotona) ma si tratta di scafi quasi più da cerimonia che da voga vera e propria.
In casa, mia sorella maggiore ed io, abbiamo imparato a vogare uno “s’-ciopón” (ma su una gondola sarebbe stato eguale) nel 1945, quando nostro padre ci insegnò a farlo negli ultimi mesi di guerra (e della sua vita). Un tempo, tutti i ragazzi di Venezia sapevano vogare (alla veneziana, intendo): le barche a remi si noleggiavano con modeste economie e …erano ideali per le gite in laguna e anche per i primi approcci amorosi appartati. Oggi la gioventù gira a tutta manetta con scafi per motori fuoribordo oppure se ne va in terraferma in automobile… forse già con il Viagra in tasca. Ernest Hemingway, nel suo romanzo “Di là del fiume e fra gli alberi”, descrive un amplesso in gondola che meriterebbe maggior gloria… e più imitatori.
Ero per caso a Venezia proprio in quei giorni del 1975 in cui “Vogalonga”, cioè l’iniziativa di Toni Rosa Salva, veniva lanciata e sostenuta dal quotidiano locale “Il gazzettino” dove avevo fatto le mie prime esperienze di apprendista giornalista. “Ti vol che provemo a farla?” mi sfidò Silvana, mia sorella. “Provemo”, risposi. E divenne un giuramento.
Io non vogavo dai tempi in cui ero venuto a Milano a fare il giornalista: cioè da circa 15 anni. Ma, per fortuna, questi movimenti, così astrusi e difficili per chi non li conosce, se li impari da bambino non te li scordi più per tutta la vita. Un po’ come nuotare o andare in bicicletta.
Per quella prima edizione della “Vogalonga”, Silvana mise a disposizione il suo “s’-ciopón”: lo aveva preteso come regalo in occasione di non so più quale suo genetliaco e d’estate lo usava per sgranchirsi le gambe e le braccia con dolci vogate nella laguna davanti a casa sua. In realtà, in casa uno “s’-ciopón” c’era sempre stato sin dalla nostra infanzia, ma questo suo era (ed è ancor oggi) bellissimo: costruito con arte perfetta da Agostino Amadi (proprio quello che, di recente, ha vinto la sfida di costruire, con tre operai, una barca a remi in 48 ore per la trasmissione di Rete 4 “Pianeta Mare”) a Burano, ha linee d’acqua eleganti ed efficienti.
E’ uno scafo lungo 7,50 metri su 1,40 di larghezza e ha un franco bordo grosso modo di 30 centimetri. Le forcole e i remi lunghi circa tre metri (altro regalo “preteso”) erano (sono) di Giuseppe Carli, il maestro supremo in questa arte di ricavare qualcosa di estremamente razionale e funzionale e di straordinaria bellezza da un pezzo d’albero: per dirvela in breve, basta ricordare che alcune di queste forcole di Carli sono esposte come sculture al Museo d’Arte Moderna di New York e in molti altri musei negli Usa, in Francia, Svizzera, Germania. In Italia, non so: “Nemo profeta in patria….”
Su Giuseppe Carli, nel 1961, avevo coordinato l’edizione di un libricino con bellissime fotografie in bianco e nero di M. H. Wyden e testo di Leone Minassian che, fra l’altro, aveva scritto: “Quel togliere, incavare, rendere aguzzo, o morbido, questo o quel particolare, conferisce a queste forcole uno stile aristocratico, soprattutto unitario e singolare che le fa emergere fra mille. Per di più, il sentimento del Carli, espresso in un linguaggio rigorosamente formale e plastico, si formula in uno stile appunto marcatamente originale, e oltretutto pregno di un senso poetico che costituisce gran parte del suo fascino e della sua validità . Questo lirismo anzi, conferisce unità alla sua visione e pertanto alla sua resa materiale.”
Dico: stiamo parlando di forcole, cioè di scalmi. Di quello che altrove si realizza con un banale chiodo di legno infisso sulla falchetta e uno stroppo che lega il remo… Non so se mi spiego.
Gilberto Penzo nel suo “Forcole, remi e voga alla veneta”, parlando di una forcola da poppa per gondola (un oggetto alto quasi un metro) scrive: “E’ una scultura nel vero senso della parola, infatti si libra nello spazio nei tre assi…Come una scultura, non la si può completare prima da un lato e poi dall’altro, ma si deve lavorare (per realizzarla. ndr) complessivamente per sbozzature successive sempre più affinate.”
Ci impegnammo in una serie di allenamenti bellissimi perchè ci riportavano là dove eravamo stati da ragazzi, in quella distesa d’acqua fantastica e immobile, in quelle infinità senza altro riferimento che la presenza solitaria di qualche airone, il lento borbottio di alcuni vaporetti e i puntini delle briccole che segnalano i canali, in quell’odore di mucido così forte, aspro e deciso che hanno le barene quando emergono.
“Cranc cranc” facevano i nostri remi sfregando l’arco della forcola e “sciaff sciaff” faceva la prua della barca allungandosi su quel mare impossibile per bellezza e unicità : “Oggi abbiamo fatto venti chilometri di allenamento. Come stanno le tue mani?”
Alla prima edizione della “Vogalonga” ci trovammo in Bacino San Marco in cinquecento barche e circa un migliaio abbondante di persone (vogatori): sembravano tante e nessuno sapeva bene cosa sarebbe successo quando la “Marangona” (cioè la più grande delle campane del campanile di San Marco) avesse iniziato a battere le nove e contemporaneamente il cannoncino dell’Isola di San Giorgio avesse sparato, dando così il via ufficiale a questa manifestazione durante la quale era (ed è tuttora) proibita la navigazione a motore.
Ci guardavamo in faccia, straniti. Increduli: “Ciò, varda: ghe xe anca sior Nani”, diceva uno. “Sì, el xe coi so’amighi de osteria” sottolineava un altro. Due piccoli “sandali”, nati dallo stesso progetto, si chiamavano, uno “Co’ vegno, vegno” e l’altro “Co’ rivo, rivo”. Donne pochissime, una barca di frati, una degli alpini. Alcune, addirittura, con una damigiana di vino a prua, caso mai mancassero i punti ristoro in quella galoppata lagunare. In quegli anni il gonfalone di Venezia era bandiera da portare con orgoglio e non, come oggi, con vergogna, così quasi tutti lo esponevano con grande allegria a poppa. Quando campana e cannone diedero all’unisono il via, ci fu un “alzaremi” straordinario e un “Per Venezia, per San Marco: Urrah!” urlato a squarciagola da tutta la città .
Un’epopea. Qualcosa che ti fa venire male alla radice dei capelli. E in un attimo, quel Bacino San Marco che era assolutamente immobile, ebbe un piccolo ma deciso sussulto. Era moto ondoso. Fatto dai (circa) millecinquecento remi di quelle barche che avanzavano con foga e ardimento verso la laguna aperta.
La gente che vogava quelle barche era la più varia: Dino Vian, istriano, poeta, grande marinaio che se la faceva da solo remando alla “vallesana” cioè con due remi incrociati. Un artista della voga, di una eleganza quasi inimitabile. Le avrebbe poi fatte tutte tutte (e continua a farle), Dino, se un anno non avesse avuto un lutto che gli strazia ancora il cuore.
Margherita Citton, la grande “Margari” di Sant’Erasmo, un’isola che ha sempre prodotto grandi remieri (tutta la famiglia dei Vignotto, detti “Veleno”, per dirne una). Anche lei se la faceva tutta da sola, anche lei vogando alla “vallesana”ed era una eroina vera, lei che sin da bambina aveva vogato per lavoro, per portare la frutta e la verdura delle sue terre al mercato di Rialto, lei abituata a piegare la schiena su forcole un po’ “sdentate”, a spingere su remi duri e pesanti: quando gliene regalarono due di nuovi: ” I me par do sievoli da tanto che i xè lisieri” (mi sembrano due cefali, tanto son leggeri), disse sorridendo felice.
Della sua stessa classe (intesa come anno di nascita) mia sorella Silvana, ma con lei c’ero anch’io: “Bravi i sposi” ci gridavano dalle rive e ci veniva da ridere. Ma una barca di quattro baldi giovani che non riusciva assolutamente a superarci borbottava smadonnando contro la corrente: “Ma i gà un motor quei do?” (ma hanno un motore quei due?). E anche questo ci faceva ridere. E spingere di più sui nostri remi. Come ho detto ne abbiamo fatte, partendo dalla prima, ben ventisei consecutive di “Vogalonga” e Silvana è risultata l’unica donna capace di questa performance. Però, quando fecero la fotografia celebrativa del gruppo dei “fedelissimi” e “Il Gazzettino” la pubblicò, nella didascalia non misero il suo nome perchè al redattore incaricato sembrava impossibile che una donna avesse fatto tanto. Un po’ come se si fosse infilata nella foto ricordo per scherzo o per civetteria… invece che esser la detentrice di un record ormai imbattibile per sempre.
Lei, Silvana, voga(va) sempre e solo a prua e io solo e sempre a poppa. In una barca a due remi chi voga a prua è il motore; chi voga a poppa spinge sì, ma inoltre dirige anche la barca. Non c’è maggior o minor merito: è un lavoro di team e va fatto con la massima coordinazione. Il ritmo lo dà il vogatore di prua e quello di poppa deve adeguarsi: i remi devono tuffarsi in acqua assolutamente assieme e altrettanto assieme devono uscirne, altrimenti la barca procede a zig zag e metà dello sforzo propulsivo si disperde. Ci vuole molto affiatamento, insomma.
Vogare sembra banale ma, come in tutte le cose, bisogna saperlo fare. Già non è semplice stare in quel precario equilibrio e in una posizione rigorosamente bloccata sulle gambe (davanti quella “esterna” e dietro quella “interna”; il piede davanti leggermente puntato verso l’esterno, quello dietro quasi parallelo ai bagli della barca) per quattro, cinque, talvolta sei ore consecutive.
E poi bisogna sapere alcune cose. Il percorso si snoda su rotte differenti e quindi, per forza di cose, vi sono tratti in cui la corrente è a favore e altri in cui gioca contro… E questo cambia sia la tecnica di voga che la logica nella scelta della rotta dello scafo, all’interno dei canali.
Se la corrente è contro, per esempio, bisogna fare una vogata breve, secca e veloce (quasi “nervosa”) in modo da far stare il meno possibile il remo dentro l’acqua per evitare che sviluppi una azione frenante. Il contrario se, invece, la corrente gioca a favore della direzione di marcia: in questo caso, infatti, più il remo rimane nell’acqua e più la corrente lo spinge e quindi aumenta la velocità dello scafo: insomma conviene esercitare una vogata più prolungata, quasi “pacata”. Gli incrementi sono, naturalmente, molto relativi, visto che parliamo di velocità modeste (fra gli 8 e i 12 km/h), ma tutto aiuta.
Così come aiuta tenersi al centro del canale se la corrente è a favore perchè è dove l’acqua è più profonda che la spinta è maggiore mentre, se si naviga “contro corrente”, è più opportuno tenersi ai bordi esterni del canale perchè qui la marea scorre più lenta e con minor foga e si ha quindi minor resistenza all’avanzamento. Trucchi che, una volta, a Venezia si impara(va)no da bambini. Ora, purtroppo, li conoscono solo i professionisti… E questa era la nostra fortuna, soprattutto in quelle prime “Vogalonga” che avevano chiamato a raccolta tanti entusiasti vogliosi di “recuperare” un pò di venezianità ma che non l’avevano nel sangue da sempre. Perchè, sì è vero che la manifestazione non è assolutamente competitiva ma si sa com’è l’essere umano: arrivare fra i primi è più bello, no? E perchè vi siano dei primi devono esserci degli ultimi… che, nel nostro caso, erano i meno bravi, i meno “veneziani”.
La manifestazione ebbe un successo travolgente. La seconda edizione vide il doppio delle barche iscritte: oltre mille. E poi ancora di più l’anno successivo sino ad arrivare a superare quota duemiladuecento. Si rispolverarono vecchie barche, alcuni “squeri” (cantieri) specializzati ripreso a costruir barche a remi, la data della manifestazione inizialmente legata alla cerimonia antica del “matrimonio di Venezia con il mare” venne svincolata da questa per non creare troppa confusione; si allungò con un 8 il percorso perchè c’erano punti dove duemila barche tutte assieme facevano troppa fatica a passare se arrivavano ancora compatte; vennero barche a remi da ogni parte d’Italia: gozzi dalla Liguria, dalla Campania, dalla Sardegna, pedalò dalla Romagna, e kaiak da ogni nazione d’Europa… Era diventata la festa del remo, l’Università della navigazione tranquilla.
Un anno ci fu una “sburianata” tremenda, un maltempo orrendo: vento e pioggia. Qualche barca affondò, qualcuno fu ricoverato per precauzione in ospedale (niente di grave) ma questo invece che deprimere mise ancor più frenesia alla gioia dei partecipanti che continuarono ad aumentare.
Ed era stupendo vedere il Bacino San Marco brulicante di barche. A remi. E poi la lunghissima fila indiana di tutti questi scafi che si allungava nello scenario della laguna più bella del mondo, con queste infinite sagome umane che sembrano camminare sull’acqua.
Si aggiunsero altri protagonisti: da Arrigo Cipriani, titolare del leggendario Harry’s Bar, a Ezio Lazzarini, pianoforte e celesta dell’orchestra del Teatro “La Fenice” che, incurante delle sue preziose mani, volle cimentarsi nella folle impresa. C’era una lotta accanita per avere il pettorale numero 1 fra i frati della chiesa del Redentor, l’avvocato Marco Salvadori e l’avvocato Marco D’Elia con appostamenti, davanti alla sede del comitato organizzatore, che duravano tutta la notte precedente l’apertura delle iscrizioni. (Qui io avevo gioco facile perchè Silvana otteneva sempre il “nostro” numero, quel 111 che era stato il numero di gara di “Surfury” la più straordinaria barca da corsa offshore che sia mai esistita e che poi vuol anche dire “tre volte uno, cioè tre volte primo”).
Per me la notizia più importante era riuscire a sapere con anticipo la data esatta della manifestazione, per organizzarmi ed esser sicuro di poterci essere. Per non tradire al giuramento mai pronunciato ma sempre rispettato. Per tornare, almeno per un giorno, ad esser Veneziano.
Un anno mi capitò di fare la “Vogalonga” e il giorno seguente, il trofeo Napoli di offshore con una barca da 50 nodi di velocità . Un’altra volta presi quattro aerei pur di arrivare in tempo e venivo dall’altra parte del mondo. Qualche volta ignorai una bronchite di quelle da chiamar il prete per l’Estrema Unzione. Ne feci di ogni tipo e riuscii a non mancare mai. Era troppo bello. Troppo importante. Troppo affascinante. Troppo unico. E, dopo la lunga vogata, andare tutti a mangiare al “baccaro” della Lucy in “fondamenta della Sensa” (a Venezia le “fondamente” sono semplicemente tutte quelle strade che hanno da un lato un edificio e dall’altro un canale) assieme a mia madre che guardava dall’alto dei suoi novant’anni, questi due figli pazzi pazzi e un po’ incoscienti.
Negli anni arrivò anche Albino Busatto, titolare della “Fiaschetteria Toscana”, altro oggi famoso e davvero ottimo ristorante veneziano ma dove da ragazzo, quando il locale era ancora e solo un “baccaro” (osteria) mi son mangiato tanti di quei “cicchetti” (stuzzichini: un “folpetto”, una seppiolina, tre gamberi fritti, un fettina di cotechino con una porzioncina di polenta, una polpetta di carne, un piattino di “sarde in saor”, dei boccocini di grana eccetera) e bevuto tante di quelle “ombre” di vino che metà bastano. L’elenco sarebbe infinito (quello dei personaggi, intendo). Ma non posso non citare anche Valentina Gottipavero e Roberto Fagarazzi che, sia pure a fasi alterne e con barche differenti, sono ormai vicini a quota 25 partecipazioni… il che non guasta affatto se tenete conto che un anno sono riusciti a far fare la stupenda manifestazione persino a Gaetano “Ninì” Cafiero, napoletano verace ma altresì poco confidente del remo “veneziano”.
Finché non iniziò il declino che si manifestò quando il numero delle barche “straniere” (gozzi, dragoni, kaiak) superò quello delle barche veneziane.
La manifestazione non perse fascino ma perse protagonisti. Si svolgeva a Venezia ma non la facevano i veneziani: la maggioranza vogava seduta e non in piedi, il miracolo di camminare sull’acqua si “sfantava” come succede al “caligo” (la nebbia della laguna) quando inizia a soffiare un filo leggero di brezza.
E arrivò l’anno in cui fu giocoforza fermarsi: Silvana scivolò sulle scale di casa, si fece piuttosto male ad una gamba e non era il caso di insistere in quella nostra avventura per la quale eravamo già considerati dei pazzi visto che la somma dei nostri anni superava ormai largamente il secolo e mezzo. Se facciamo un po di conti, fra allenamenti e manifestazione vera e propria, abbiamo dato oltre un milione di colpi di remo. Ci stava di fermarsi. E di andare a vedere quelli che continuavano.
Non l’abbiamo, infatti, mai abbandonata la “Vogalonga”: ogni anno ci infiliamo nell’organizzazione e riusciamo a seguirla con una barca a motore che naturalmente procede al minimo che più minimo non si può e così salutiamo i vecchi amici come il grande Dino Vian o i nuovi protagonisti come la straordinaria Orietta Bellemo (strumentista del reparto cardiologia dell’Ospedale Civile) che voga come una regina, con l’eleganza della Fracci e la potenza di un Nureyev, con un solo remo un “pupparin” che, in mano a lei, sembra uno stradivari.
Ma Orietta è una fuoriclasse assoluta: sappiate che, sempre da sola, s’è fatta da Venezia a Trieste vogandosi il suo “pupparin”, qualcosa di incredibile se appena pensate che è tratta ben lunga persino con una veloce barca a motore.
Quest’anno la “Vogalonga” si è svolta il 27 di maggio. Se volete vedere una cosa comunque ancora davvero bella e unica, andate a Venezia alla prossima edizione di cui vi informeremo preventivamente anche dalle pagine di questo blog.
Altomareblu – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Gentile Luca,
la ringraziamo per il suo commento ed apprezzamento dell’articolo di riferimento scritto da Antonio Soccol.
Circa la sua precisazione sulla “forcola di poppa”, purtroppo Antonio Soccol non le potrà mai rispondere perché non è più tra noi.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Bell’articolo. Una piccola precisazione: la forcola di poppa a due morsi rappresentata in fotografia appartiene ad un natante della famiglia dei sandoli, non ad una gondola come riportato nella didascalia
Ciao Gaetano,
non ci conosciamo e mi presento, sono Giacomo Vitale e sono l’amministratore insieme ad Alex di questo sito. Antonio mi ha parlato di te ed abbiamo anche letto qualche cosa di te su questo sito in passato e per scrivere della tua favolosa Vogalonga del 1994, non devi fare altro che cliccare prima sul titolo dell’articolo in cui ti sto rispondendo ed in basso dopo il sesto commento c’è l’apposito spazio in cui puoi scrivere quello che vuoi e poi inviarlo seguendo le brevissime indicazioni del sistema automatico.
Mi permetto di darti un semplice consiglio: scrivi prima quello che vuoi in “blocco note” (file .txt senza formattazione) poi lo salvi e quando, come sopra detto, dovrai inserire il tuo racconto in questo articolo, basterà copiare il tuo testo realizzato in blocco note ed incollarlo nell’apposito spazio e poi cliccare su invia ed il gioco é fatto.
Scusa se ho risposto io e non Antonio, ma vedendo che lui non c’è per essere più rapidi ho preso l’iniziativa. Quando Antonio aprirà la sua posta elettronica troverà l’avviso del tuo commento che il nostro sistema gli avrà inviato automaticamente e vedrai che ti chiamerà sicuramente.
Io mi trovo nei dintorni di Napoli e presto spero di poterci incontrare personalmente.
Un caro saluto,
Giacomo Vitale
Antonio carissimo,
ho letto per caso (e l’8 dicembre 2008) questa cosa bellissima… Se mi dici come si fa posso scrivere un “link” cui accedere da dove tu mi citi e raccontare la mia favolosa Vogalonga del 1994!
Ad Antonio Soccol,
i miei complimenti! Anche se non sono Veneziana, ma Caorlotta, il suo articolo mi ha fatto sentire una di Voi e poi… saper che Lei è anche amico del mio caro amico e maestro di voga Dino Vian mi fa sentire veramente vicina! Non le so spiegare poi la fierezza di Dino nel mostrarmi il numero di maggio di “Barche” dove proponete l’articolo…lo tiene (come si dice tra di noi) “in soasa”!
Lui è una persona di cuore e Le è molto riconoscente. Non ha la più pallida idea di cosa sia Internet (sicchè non potrà mai commentare questo articolo on-line!) o adddirittura un fax… mi fa impazzire!
Spero di aver l’occasione di conoscerla, magari di vogare insieme nella tranquilla laguna di Caorle con le barche di Dino.
Un caro saluto
Manuela
Ciao Andrea,
ti ringrazio per questi apprezzamenti che giro immediatamente al giornalista Antonio Soccol che è l’autore di questo straordinario articolo e dovrei chiedere a lui l’autorizzazione, ma ti autorizzo lo stesso sicuro che lui apprezzerà e gradirà molto la cosa.
Sempre a Vs disposizione per quello che è nelle mie possibilità.
Un caro saluto a Voi tutti,
Giacomo Vitale
Questo post mi è piaciuto moltissimo e mi sono permesso di linkarlo in un mio post previsto per il 3 settembre.
Ditemi se posso,
un saluto,
Andrea