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Calipso di Alberto Cavanna

26/07/2010/0 Commenti/in Alberto Cavanna, Poesie e racconti di mare/da Alberto Cavanna

Ma quando Mercurio arrivò nell’isola lontana
e dal livido mare giunse al lido
raggiunse la grande dimora della Ninfa
dagli splendidi capelli e vide che era in casa.

Un gran fuoco ardeva nel focolare
e odore di cedro e di tuia il vento spandeva
profumando tutta l’isola.

Lei, dentro, tesseva sul telaio, la ninfa immortale…

 

Alzò gli occhi dal libro e guardò fuori dalla finestra: le voci dei soldati che stavano stendendo i reticolati intorno all’isola la raggiunsero.
“Sono arrivati i tedeschi…”, pensò. Ne vide uno nei pressi del giardino: era giovanissimo. Lui le sorrise, lei abbassò lo sguardo e tirò la tenda.
La guerra andava male, anche sull’isola lo si sapeva.

Per quanto la propaganda cercasse di negarlo, quando le madri le accompagnavano i figli fino alla piccola scuola si finiva di parlare della guerra e di quando sarebbe finita.
Si sedette e cercò di riprendere la traduzione del verso dove l’aveva lasciata ma ormai l’incanto si era rotto.
Lo chiuse.

Vicino alla finestra uno specchio: si osservò. Alcuni capelli bianchi spuntavano dalla crocchia.
“Le ninfe delle isole dovrebbero tutte avere il dono dell’eterna giovinezza…”, pensò.
Guardò il piccolo alloggio che l’amministrazione militare dell’isola le aveva messo a disposizione per il suo lavoro di insegnante del presidio e nel quale viveva sola.

Il fuoco era spento, la legna era stata razionata: il cesto del cucito ordinatamente chiuso vicino alla stufa.
Prese l’ Odissea e la mise via dopo averne lisciato con cura la copertina, come faceva ancora dai tempi del liceo.
Poi si sdraiò sul letto e si mise a piangere.

La guerra andava sempre peggio.

Se prima era solo una chiacchiera, ora invece era una certezza e neppure le mogli degli ufficiali lo nascondevano più: gli americani si erano attestati sulla linea del Cinquale e dall’isola, ogni tanto, partivano le salve dei grossi cannoni diretti alle loro trincee.

“I colpi cadono tutti sbagliati”, aveva spiegato sottovoce un giorno la giovane moglie di un ufficiale di artiglieria, “così evitiamo rappresaglie aeree”.

Anche a terra le cose andavano male se non peggio. I paesi delle valli erano quasi tutti in mano ai ribelli, i partigiani si facevano chiamare, rise con disprezzo la moglie del colonnello, ma dovette ammettere che lì almeno la roba da mangiare c’era.

Lei ascoltava senza capire e, onestamente, non le interessava: lei era sull’isola.

E l’sola proteggeva tutti: i soldati seppelliti sotto al cemento armato dei forti, i civili estraniati dal resto del mondo sulla striscia di terra ai piedi delle collina, al riparo dei bunker e delle batterie che erano sulle cime.

La terraferma era lontana.
Forse anche la guerra era lontana.
Ma per lei tutto era lontano e andava bene così.

Cosa sarebbe successo dopo la guerra? Questo invece sì che la tormentava. Quando l’esercito sarebbe stato smobilitato, quando le caserme e i forti sarebbero stati chiusi… Cosa ne sarebbe stato di lei?
L’avrebbero mandata via dall’isola, ecco cosa sarebbe successo…
Dall’isola, dal suo piccolo guscio, dal suo mondo di piccola, solitaria, ninfa zitella.

La prospettiva della solitudine in un piccolo appartamento alla periferia della città, dove il tempo avrebbe ripreso a scorrere inesorabile sui suoi capelli, la sgomentava.
I giorni si succedevano senza che nulla di particolare succedesse: tutti aspettavano.
Anche lei aspettava ma non la turbava: tutta la vita aveva aspettato. Qualcosa, qualcuno… Non la faceva vivere male l’attesa: l’attesa fa male a chi ha un senso del tempo.

E sull’isola lei non lo avvertiva: la ingannava, l’attesa, con i riti quotidiani.
Le lezioni ai figli dei soldati nella piccola scuola, i lavori domestici, il cucito, la lettura della sua adorata Odissea, vicino alla finestra e con il rumore delle onde nelle orecchie.

Una sera dell’ultimo inverno di guerra sentì bussare alla porta.
Era in vestaglia e si coprì con un vecchio cappotto rivoltato: riconobbe la divisa nera della milizia, le mostrine da ufficiale con le foglie di quercia scintillavano nell’oscurità.

“Sembra che ci sia un ribelle in giro, signorina…”, le aveva detto l’uomo.
“E’ scappato dalla caserma del Decimo Fanteria, ha preso una barchetta al porto ma sembra che la tramontana lo abbia spinto sull’isola.”

Lei si strinse il cappotto sul collo.

“Faccia attenzione e avvisi se nota qualcosa di strano.”

Era un bell’uomo, l’ufficiale.

Lo aveva ascoltato con attenzione, aveva sentito il suo odore di grasso per le armi e di caserma: avrebbe voluto offrirle un nocino ma poi non era riuscita a dare nulla e alla porta lo aveva salutato con gli occhi bassi.

Poi era tornata al cestino del ricamo pensando che quella era la prima volta, da quando era giunta sull’isola, che un uomo aveva bussato alla sua porta dopo il tramonto.
Passò qualche giorno, uguale agli altri.

Il tempo era brutto e la sera era venuta presto: aveva finito di mangiare un poco di minestra, aveva cucito un poco e se ne stava per andare a letto intirizzita quando udì un rumore secco dalla cucina.

Prese la candela, aprì la porta e se lo trovò davanti.

Non fece in tempo a urlare: lui l’aveva presa stretta e le aveva messo una mano sulla bocca.

“Ho fame… Ho solo fame, non voglio farti del male…”

Aveva sentito il freddo dei suoi vestiti, i calli della macchia e aveva capito chi era quell’uomo.

Le diede da mangiare e del vino. Lui mangiò con la testa nel piatto e non disse nulla, lei lo guardava in silenzio al lume della candela.

Fuori diluviava.

“Posso dormire per terra in cucina?”, le aveva chiesto.

Lei lo aveva accompagnato dal divano, poi aveva fatto per tornare in camera sua e chiudersi a chiave.
Era stato allora che le aveva messo una mano tremante sulla spalla e lei si era fermata.

Lui la aveva stretta nello stesso modo di prima perché non urlasse.
Forse avrebbe anche voluto urlare ma poi scoprì che non sapeva più cosa voleva esattamente: stava per graffiargli la faccia ma invece lasciò fare.

Poi abbandonò le sue braccia e il resto del suo corpo a movimenti sconosciuti che un istinto nuovo le suggeriva.
I giorni continuavano a passare: l’inverno e la guerra stavano finendo.

Lui continuava a rimanere nascosto in casa sua, cenava con lei, divideva il suo letto: parlavano poco.
L’unica cosa che lei aveva capito è che, sulla terraferma, lui era sposato e aveva dei figli. Era un partigiano, un ribelle.

Ma niente contava.
Andarono avanti così fin quasi ai primi di marzo: la gente aspettava la fine in un tramonto di sangue.

“Devo tornare a terra”, gli disse lui una sera davanti al piatto della minestra, guardandola attraverso la luce della candela.
“Perché?”, aveva chiesto lei quasi senza accorgersene.
“Perché c’è chi mi aspetta. I miei compagni, la mia famiglia…”, e aveva abbassato gli occhi.
“Non potremmo continuare così?”, aveva detto lei mentre sentiva le lacrime che le salivano dalla gola.

La aveva guardata a lungo.

“La guerra ormai è quasi finita. Tutto tornerà come prima… Deve tornare come prima.”
Lei abbassò la testa.
“Qui è come se il tempo si sia fermato”, gli disse finendo il piatto.
“E’ stato bello. Mi hai salvato… Ma ora devo riprendere la mia vita di tutti i giorni. E’ là: mi sta aspettando.”

Lei non disse nulla: rigovernò i piatti mentre lui si scaldava i piedi dalla stufa e poi andarono a letto.
L’indomani lei uscì presto e rientrò che non era ancora mezzogiorno: non era la sua ora.

“Questa notte, dopo che il posto di guardia avrà dato la diana delle due vai alla spiaggia”, gli disse senza togliersi il cappotto, “troverai uno dei barchini degli acquaioli. Non sarà sorvegliato. Dentro ci sono viveri, coperte e dei soldi.”

Uscì di nuovo e tornò a scuola come se nulla fosse successo.
Quella sera lui mangiò poco e non toccò il vino.

Non andarono a letto: rimasero insieme sul divano fino a che non suonò la diana attesa.
Lui si vestì in silenzio, guardandola. Poi la abbracciò e si salutarono. Aprì la porta per vedere se ci fosse qualcuno: ancora un’occhiata e sparì nel buio.

Lei chiuse la porta a chiave e tirò i paletti: fuori era freddo.
Poi prese dalla scansia l’Odissea, la aprì alla Zattera di Ulisse e iniziò a leggere mormorando i versi a bassa voce.

“Prudente Ulisse, dunque tornerai tu alla tua famiglia..”

Dall’esterno si udì un rumore concitato, come dei passi di corsa. Voci.

“Ebbene che tu sia felice…”
Qualcuno urlò: “Eccolo là… E’ là, svelti!”
“Ma se sapessi a quanti mali andrai incontro Prima di tornare a casa”
Stivali e scarponi che correvano.
“se tu fossi rimasto con me avresti abitato la mia casa…”
Una voce più vicina: “Attenti! Sta tornando indietro…”
“E immortale allora tu saresti stato, o mio Ulisse…”

Ma ormai le lacrime non le permettevano più di leggere i versi e provò ad andare a memoria.
E fu proprio allora che lo sentì urlare attaccato alla porta: “Aprimi… Ti prego, aprimi… Per l’amor di dio! Mi hanno visto!”.

Lei non si mosse dalla poltrona mentre lui tentava di aprire la porta chiusa e continuò, inutilmente a cercare i versi tra le lacrime.
Un respiro ansimante, il rumore dei calci dei fucili, le urla disperate.

Quando sentì che trascinavano via il corpo lasciò cadere il libro.
Si gettò per terra, si infilò le mani in bocca e strinse i denti…

Li strinse fino a che non sentì le ossa scricchiolare e il sapore salato del suo sangue e delle lacrime.

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Tags: Alberto Cavanna, Racconti di mare
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