Gregorio di Cojimar
di Carlo Marincovich
Cojimar – L’aria fresca dell’oceano entra nella piccola rada di Cojimar, a pochi chilometri da La Habana. Scavalca il molo di stile liberty, tutto pitturato di azzurro, ed entra nella calle Pasuello. Superata la vecchia cattedrale, la brezza scivola frusciando davanti alla veranda di una piccola casa verde pastello. Al numero 311 la porta è socchiusa. Dentro, nella stanza in penombra, tra poltrone di vimini e una brandina sdrucita, un uomo di 84 anni sta incollato al televisore. Fidel Castro, in grande uniforme, parla da almeno un paio d’ore e il padrone di casa non perde una sola parola.
È molto invecchiato, povero Fidel, da un anno in qua: sono le preoccupazioni
Gregorio Fuentes Betancourt, nato alle Canarie, coetaneo di Hemingway è l’uomo che ispirò la figura di Santiago, il vecchio pescatore de il Vecchio e il mare, il libro uscito esattamente trenta anni fa con un lancio speciale in molti milioni di copie sulla rivista Life. Come Santiago, anche Gregorio ha un giornale aperto sul letto. Un giornale che parla di baseball, ma non dei grandi match americani, dei Di Maggio e degli altri divi di questo sport. Parla, il foglio de La Habana, di una gazzarra scoppiata pochi giorni prima sul «diamante» della capitale tra i Metropolitanos e gli Habaneros. Insulti, offese, botte, risse. Dalle colonne di piombo fioccano reprimende terribili, qualcuno perderà sicuramente il posto perché a Cuba la sacralità dello sport è molto più sentita che in Italia.
Gregorio conobbe Hemingway nel 1925 e da allora gli restò sempre al fianco nelle scorribande di pesca. Prese in consegna il Pilar, il motoryacht dello scrittore, e ogni anno per decenni lo puliva, lo armava, teneva in ordine le cose di bordo. Hemingway quando aveva ospiti, allargava le braccia:
Chiedete a lui, io non so neppure dove sia il rum.
Tutti avete scritto – racconta Gregorio – che Ernest era un ubriacone, ma non è vero. Ingannava molto bene il prossimo. Io ricordo che stava sempre col bicchiere in mano, questo è vero, ma beveva con una lentezza esasperante. Gli altri riempivano due, tre, quattro volte mentre lui era sempre lì, col bicchiere incollato nel palmo della mano
L’uomo buono, generoso, amante della non violenza ricorre spesso nel racconto di Gregorio, ma più prepotente affiora il ricordo dell’ultimo giorno in cui lo vide vivo. «Si fermò qui davanti con la Cadilac e scese a salutarmi. Ripartiva per la Spagna e sarebbe stata l’ultima volta. Gli dissi: Ernest, non andare da solo, io lo so quello che ti succederà: tutte le sere a cena con donne e toreri, gente che ti ama, che ti travolge e tu che non riuscirai a stare a dieta, ti lascerai andare. Mi rispose: sta tranquillo, so badare a me stesso. Ma io sapevo che non era vero e lui sapeva che io sapevo».
Poi tutti sappiamo come andò. Dovette tornare negli States, in quella piccola casa di cui era ancora proprietario, la clinica, le crisi e quel colpo di fucile che segnò la parola fine. Ricevetti qui il telegramma. Non riuscii neanche a piangere.
Avrei tanto voluto, ma quasi me l’aspettavo. Volevo partire subito per andare a vederlo l’ultima volta, ma fui richiamato nella Milizia. Erano brutti giorni, la revolucion era in pericolo, la “baia dei porci”, l’antiamericanismo, come potevo?
Gregorio, nonostante l’età, sembra Spencer Tracy nella parte di Santiago. La stessa camicia azzurrognola consumata da mille e mille lavaggi, i pantaloni accorciati al polpaccio. Nelle foto ancora oggi appese ai muri della Terrazza il ristorante dove Hemingway mangiava i gamberetti vivi con l’aperitivo e dove avveniva la «pesa» dei marlin appena pescati, Gregorio, ossequioso e fedele dietro le spalle del padre-padrone, portava il cappello da marinaio, blu con visiera. Oggi indossa quello con visiera extralunga che nelle foto calcava lo scrittore. A ventuno anni dalla morte di Hemingway, Gregorio porta ancora e sempre quel berretto rimastogli per ricordo.
Solo le mani sono diverse da ciò che uno immagina. Corrugate dal sole e dal mare, ma affusolate, prive di nodi. Dita agilissime nel manovrare ami ed esche. Gregorio non patì le pene di Santiago che a remi cercava di rimontare la «corriente» verso le luci de La Habana mentre gli squali divoravano il gigantesco spada appena pescato. Le lancette di Cojimar sono sempre quelle di Santiago, ma entrano ed escono dalla baia con vecchi diesel che ronfano sotto i paglioli.
Gregorio ricorda con un luccichio negli occhi i tempi in cui le lenze si tenevano in mano.
Era un filo diretto col pesce, la scossa che ti dava la loro prima toccata era inebriante. Col mulinello mi sembrava che quel filo fosse interrotto
Quando Hemingway «lavorava» un’aguglia con frizione e manovella, Gregorio puntava gli occhi penetranti sul nylon e il cavo diventava per lui un televisore sul cui schermo apparivano tutte le astuzie del pesce e a mezza voce, perché non osava di più, impartiva degli ordini facendo finta di parlare col vento:
molla adesso, fallo andare
Hemingway se ne accorgeva?
Qualche volta sì, perché faceva l’incontrario, ogni tanto faceva come gli dicevo io
Lascio il vecchio alla sua tivù e salgo verso la Finca Vigia, la fattoria che lo scrittore affittò nel ’39 e che l’anno dopo comprò per cinquemila dollari dai proprietari francesi. Al cancello un posto di guardia. Documenti, numero di targa, foglio di prenotazione per la visita al museo tuttora indicato tra le cose più importanti da vedere a Cuba. Dopo l’ultima curva del lungo viale appare una villa bianca, terrazze piene di piante e fiori, maioliche e grandi vasi. Sul retro la torre dove la leggenda vuole che lo scrittore si chiudesse con la macchina da scrivere.
Ma non è vero. Fu la moglie a farla costruire quella torre, ma lui si rifiutò di usarla come un pensatoio. Al piano terreno sistemò una «locanda» per i suoi cinquanta gatti; di sopra un banco da lavoro con canne e fucili e su in alto ci andava ogni tanto a scrutare il mare laggiù; oltre le «cabanas» di San Francisco di Paula.
Oggi tra i cimeli conservati nella torre, la portatile più piccola del mondo. Misura la metà della più piccola macchina da scrivere ora esistente, ma con la perfetta meccanica di allora, un vero prodigio della tecnica non ancora inquinato dalla plastica. Seguì Hemingway in tutte le avventure di guerra e di caccia grossa. Ma i libri li scrisse con un’altra macchina che sta su uno scaffale vicino al letto. Si metteva lì in piedi e buttava giù pagine meravigliose. Non usava lo scrittoio per lavorare, ma solo per depositarvi ninnoli e ricordi. Libri a migliaia su tutte le pareti della casa, perfino in bagno. Vicino al water spicca un «Italy by motorcar» edito a Boston negli anni Trenta. Pensate: mentre da noi il duce era uno dei pochi a scorazzare in auto nei dintorni di Roma, laggiù qualcuno già stampava una ponderosa guida per il turista che avesse voluto visitare su quattro ruote il Bel Paese.
Hemingway deve averlo letto in lunghe rate a giudicare dalle orecchiette ancora visibili sull’angolo in alto di molte pagine.
Fino a qualche tempo fa, nel giardino della Finca, c’era anche il Pilar, la barca da pesca con cui lo scrittore sognò di compiere, e in parte realizzò, tante scorrerie di guerra all’inseguimento di sommergibili tedeschi. Ora il Pilar non c’è più. È giù in cantiere dove mani premurose lo stanno rimettendo a posto. Costruito nel 1935, lo scafo gode ancora buona salute e a maggio scenderà di nuovo in acqua per il Torneo internazionale di pesca d’altura intitolato allo scrittore. I pescatori di Cojimar lo scorteranno al largo per fargli vedere ancora una volta i grandi marlin che guizzano fuori dall’oceano.
Lui, il grande vecchio del mare, Hemingway, guarderà sornione dal tempietto greco costruito sotto il Castillo, all’imboccatura del porto. Dentro le colonne, lo scrittore col suo maglione da marinaio e lo sguardo beffardo, troneggia sotto forma di un mezzobusto grandezza naturale. Per fondere quel bronzo i pescatori locali offrirono tutto ciò che possedevano in quel metallo a bordo delle loro povere barche. Ma il monumento è sempre lì, pulito e ben tenuto, comunque più grande di quello all’eroe nazionale Josè Marti che si trova a pochi metri di distanza. È l’unico americano, Hemingway, ad avere un monumento a Cuba. E resterà l’unico per molto tempo.
Da “Sesto continente”, numero 21, maggio- giugno 1982. Per g.c. dell’editore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
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