“Se ho potuto vedere piu’ lontano e’ perche’ stavo sulle spalle dei giganti”.
(Isaac Newton)
di Francesco Fiorentino
Qualche tempo fa guardando un documentario su un noto canale satellitare sono rimasto affascinato dalla bellezza delle navi del passato; ciò che più mi ha colpito e mi ha fatto riflettere è stata la loro forma slanciata, filante pensata per offrire la minima resistenza all’avanzamento pur conservando dei volumi interni a volta anche importanti per caricare merci o imbarcare truppe.
Gli esiti di molte tra le più importanti battaglie sui mari dell’antichità, come anche dell’epoca moderna, si sono delineati proprio grazie alla tecnologia navale dei contendenti. Ai tempi degli egizi, dei greci, dei romani o dei vichinghi, come ai tempi delle guerre tra le grandi Repubbliche Marinare o delle grandi potenze coloniali del 1700 ancora non esistevano metodi matematici per prevedere il comportamento e le performances delle navi prima della loro costruzione.
I progetti venivano concepiti da esperti ingegneri o comandanti, uomini di mare che traevano dal bagaglio tecnico acquisito nel corso dei loro viaggi, esperienze, talvolta semplici intuizioni per migliorare le tecniche e le tecnologie già acquisite.
Catturare una nave nemica non costituiva solo un semplice bottino di guerra ma voleva dire procurarsi una banca dati importantissima per conoscere e comprendere lo stato dell’arte del nemico per sfruttarlo a proprio favore: insomma quello che noi oggi chiameremmo “reverse engineering”.
Da sempre i progettisti navali di tutte le epoche hanno combattuto per vincere in tutti i modi la sfida con il mare sperimentando e proponendo nuove soluzioni per “spendere” meno energia e “guadagnare” più rendimento. Basti pensare alla varietà degli armi velici che nel corso dei secoli si sono sviluppati, spesso pietre miliari della storia della nautica.
La ricerca non si è fermata solo al mezzo propulsivo, ha coinvolto anche l’aspetto strutturale e tecnologico della costruzione navale ricercando tra i materiali che la natura offriva e studiando il modo migliore per ottenere il massimo rendimento dalle loro caratteristiche meccaniche sempre più al limite. Oggi è uso comune pensare che costruire una barca sia semplice senza rendersi conto che dietro vi sono secoli di storia della tecnica, della tecnologia e dell’arte navale.
Un progresso che è avvenuto lentamente considerando che fino a poco tempo fa non c’erano calcolatori e probabilmente anche le tecniche di calcolo non erano poi così accurate come quelle odierne. Ogni nave o natante doveva essere resistente, veloce, ma soprattutto affidabile, non esistendo i bollettini meteo ogni mezzo doveva essere in grado di saper fronteggiare la bonaccia come la tempesta più dura.
Insomma, il lavoro del progettista navale è stato sempre molto difficile. Molte di quelle magnifiche opere sono arrivate fino ai giorni nostri intatte o quasi, nonostante alcune di esse abbiano oltre duemila anni di storia! Forse non è un caso. Forse il fato ha voluto che certi tesori non andassero perduti ma presi come monito imperituro a non dimenticare che per meglio comprendere il futuro bisogna essere pienamente coscienti del passato.
Con l’avvento della propulsione meccanica si è dato il via alla prima rivoluzione del mondo dei trasporti marittimi che iniziavano a divenire non solo mezzo di commercio e di comunicazione tra terre e culture lontane, ma anche mezzo di trasporto prima per le classi d’elite e poi per la massa, fino a divenire già dalla metà del XIX sec. quello che oggi chiamiamo diporto nautico.
Il 900 è stato un rincorrersi di innovazioni tecnologiche, tanto per citarne alcune tra le più comuni la costruzione in fibra di vetro rinforzata, le carene a spigolo, le eliche supercavitanti, le costruzioni in lega leggera e tutte le evoluzioni tecnologiche che oggi si sono sviluppate da esse. La ricerca chimica sui materiali ha fatto passi da gigante negli ultimi cinquant’anni proponendo materiali sempre più leggeri con caratteristiche meccaniche sempre migliori: la fibra di carbonio, le fibre aramidiche, le leghe di alluminio e di titanio.
L’ingegneria meccanica ha fatto progressi enormi dai primi motori a vapore al common-rail.
L’architettura navale ha accolto sempre queste innovazioni come spunti per migliorarsi e spingersi oltre. L’informatica ha unito al già creativo e potente cervello dell’uomo la potenza di calcolo del chip che ha velocizzato ogni operazione dandoci la possibilità di fare previsioni con approssimazione sempre migliore. Dalla lastra piana di Sir. William Froude passando per il metodo di Savitsky ne abbiamo fatta di strada! Ma forse in tutto questo fiorire di tecnologia che ha aperto ai progettisti nuove e più veloci strade da percorrere si è persa quella capacità di osservazione critica dei fenomeni fisici: la capacità di sentire ciò che accade sotto la carena come se accadesse sotto i nostri piedi, di essere un tutt’uno con la barca, di leggere nelle scie come scorre l’acqua sullo scafo.
Forse è stato più semplice chiedere ed ottenere maggiore potenza dai motori piuttosto che capire come ottenere meno resistenza da uno scafo con tutto ciò che ne consegue. Ultimamente pare che la tendenza si sia invertita grazie alla consapevolezza che inquinare la nostra “casa” è controproducente.
Negli ultimi anni ai saloni nautici si è dato notevole risalto alle iniziative di costruttori di barche e di propulsori che hanno proposto soluzioni alternative alla propulsione con motore a combustione interna e sulla scia commerciale di quanto accade con successo nel campo dell’automotive si è pensato di applicare il concetto della propulsione ibrida per muovere le barche a motore senza però tenere conto che, per ovvi motivi di masse e resistenze in gioco, per una barca diventa molto più difficile ottenere risultati commercialmente ed ecologicamente accettabili.
Non di poco conto è il “dettaglio” che a molti è comodo omettere che questa energia dev’essere immagazzinata e ciò si traduce in numerosi e pesanti pacchi batterie per ottenere autonomie accettabili ma che gravano inevitabilmente sul peso della barca stessa e che alla fine della loro esistenza in qualche modo andranno smaltiti. Certo il peso delle batterie è in parte compensato dalla presenza di un motore diesel di potenza minore e che abbia solo la funzione di ricaricare le batterie ed al massimo che funga da motore ausiliario in caso di avaria al sistema elettrico.
In linea di principio è tutto giusto, ma quello che purtroppo ancora differenzia la nautica dall’automotive è la ricerca da parte dei costruttori su come migliorare i rendimenti mediante l’ottimizzazione dei “consumi” dovuti alle resistenze che l’oggetto nave incontra nel suo avanzamento. Nel campo automobilistico la ricerca in questo senso è giustificata e supportata dai volumi di mercato, dall’elevato grado di concorrenza, dalla diffusione del mezzo e dal grado di industrializzazione del prodotto ormai molto elevato anche per le piccole utilitarie.
Nella nautica siamo ancora all’età del ferro sotto questo punto di vista, innanzitutto per il posizionamento merceologico di un mezzo che è pensato e costruito prevalentemente per il diporto e che come tale è sempre più comprensibilmente “contaminato” da ogni comfort a cui siamo abituati sulla terraferma.
Un altro fattore è legato alla ricerca “sul campo”: le grandi case automobilistiche utilizzano i campi di gara, stradali o meno, per testare materiali e soluzioni tecnologiche che poi andranno ad equipaggiare la produzione di serie; la nautica si limita a mutuare queste tecnologie da altri settori mentre i campi di gara vengono presi in considerazione esclusivamente come vetrina. Basti pensare a come la presenza della cantieristica italiana, un tempo all’avanguardia mondiale, nelle competizioni motonautiche si sia annullata.
La grande tradizione della produzione motonautica che ha visto contrapposte Europa ed USA e ha visto i nostri cantieri grandi protagonisti negli anni d’oro dell’offshore dal 1950 alla fine degli anni 80, purtroppo è solo un ricordo “ormeggiato” in qualche filmato dell’epoca o abbandonato al proprio triste destino in qualche rimessaggio.
Molte delle innovazioni tecnologiche che hanno permesso alla motonautica da diporto di raggiungere standard di prestazione sempre più elevati sono nate e pensate sui campi di gara avendo come obiettivo la prestazione per mezzo del miglioramento dei rendimenti di carena e propulsivi.
Facile pensare alle carene a V profonda che sono alla base di tutte le barche plananti, alle eliche di superficie che ebbero la loro massima espressione nel diporto nautico negli anni 70’ con il Drago di “Sonny” Levi un mezzo che rimarrà nella storia della motonautica mondiale come la prima imbarcazione da diporto di serie con motori diesel anche di serie ad andare oltre il muro dei 50 nodi grazie ad un mix di leggerezza e resistenza strutturale, studio delle linee d’acqua e della propulsione ad eliche supercavitanti per ridurre al minimo gli attriti pur garantendo la tenuta di mare in condizioni avverse (il nome “Drago” è un acronimo di Drag = 0 : resistenza = 0).
Proprio in questo senso si concentrarono tutti gli sforzi dei padri della motonautica moderna come: Renato “Sonny” Levi, di Dick Bertram, di Raymond Hunt, di Don Aronow, tutti i grandi pionieri di una nautica ormai quasi scomparsa. Partendo dallo spirito di osservazione e da un’innata sensibilità da attenti tecnici e collaudatori delle loro creature, questi grandi progettisti hanno maturato nel corso degli anni una filosofia progettuale innovativa, spesso comune, che ha regalato alla nautica mondiale autentici gioielli di tecnica, a volte estremi, spesso criticati, ma sempre efficaci nel loro intento tanto da appassionare, come nel caso di Levi, i grandi del jet set mondiale nautico e non solo come Giovanni Agnelli.
Basti pensare al ricco palmares di successi ottenuti dalle sue carene in competizioni come la mitica Cowes-Torquay-Cowes, dove non conta avere più potenza degli altri ma è indispensabile essere affidabili e veloci e soprattutto duttili poiché, come dovrebbe essere in tutte le competizioni che vogliano definirsi di Endurance (durata), le condizioni del mare sono mutevoli. Ancora oggi carene come quella della serie Speranzella, Speranza, Super Speranza, Corsair, Drago e Minidrago etc… regalano ai propri possessori e ad alcuni armatori, spesso ignari di possedere una carena Levi, prestazioni entusiasmanti testimoniando come la tecnica del passato sia quanto mai attuale e futuribile!
Ecco quindi che il passato torna prepotentemente a galla! Le esperienze di chi ci ha preceduto devono essere prese ad esempio per innovare veramente concentrando gli sforzi sul miglioramento del prodotto e della sua funzionalità, cercando non di “non inquinare” ma di inquinare il meno possibile pur non rinunciando alla sicurezza ed alle prestazioni.
Ricerche in questo senso sono state fatte mediante l’utilizzo di geometrie multiscafo, in particolare i “wave piercer” o i trimarani, che sono stati utilizzati anche in parte nel diporto nautico ma che, in quanto soggetti a forme estreme nella necessità di riduzione dei volumi e delle aree bagnate, hanno delle forti limitazioni in abitabilità interna.
Lo stesso Levi con le sue carene a triciclo rovesciato ha raggiunto ottimi risultati in termini di prestazioni in questo senso. Potremmo fare centinaia di esempi recenti che sicuramente ben avvalorano la volontà di perseguire la ricerca del rendimento ma purtroppo tutti più o meno lontani dalle richieste del bacino di utenza da soddisfare ovvero quello dei diportisti. Forse si è guardato troppo in avanti senza accorgersi che in realtà le soluzioni erano proprio a portata di mano, o forse ci si è lasciati prendere la mano troppo dalla “moda” o dall’entusiasmo, chissà… tendendo a dimenticare che: “la barca non è un’auto” (grazie Antonio per avercelo sempre ripetuto) e che quindi va pensata e progettata tenendo conto della complessità dell’elemento in cui si muove.
Sempre più si persegue una logica commerciale a discapito di una logica tecnica e le carene sono sempre più frutto di studi di marketing piuttosto che di prove in vasca o di esperienze in mare, come anche i sistemi propulsivi pensati più per sopperire alla carenza di pratica di manovra dell’armatore, piuttosto che alla riduzione degli attriti e delle parti sotto carena che generano attriti.
Si accetta che le prestazioni di una barca finora concepita in linea d’asse possano essere migliorate da un pod che comunque è sotto carena e genera necessariamente attrito e non si prende in considerazione che a parità di velocità sviluppata si sprecherebbero ancora meno cavalli utilizzando un sistema trimmabile ad eliche supercavitanti che consentono di navigare anche a basse velocità ed in mare formato senza perdere spinta propulsiva, al contrario di quanto accadeva in passato grazie all’evoluzione delle tecnologie e dei profili.
Si cerca di inventare dei “giocattoli” che facciano sempre più sensazione stando a discutere se l’elica debba “tirare” o “spingere” piuttosto che concentrarsi su ciò che sia più redditizio (ovviamente in termini idrodinamici)! Abbiamo la tecnologia giusta a disposizione ma la ignoriamo chiudendo gli occhi ed andando alla cieca in cerca di soluzioni che di certo hanno un carattere innovativo e risolvono alcune problematiche legate alla manovrabilità, ma in molti casi sono solo specchietti per le allodole.
Si costruiscono barche in infusione per limitare i pesi della struttura portante e poi le si riempie con tonnellate di teak, acciaio ed accessori: tutti controsensi paragonabili al comprarsi una GT per poi metterci un bel portapacchi sopra e farci la vacanza fuoriporta con la famiglia con una roulotte al traino.
Solo pochi “temerari” ancora investono e credono in quelle soluzioni oggi riservate ad alcune nicchie di mercato ma che sono state frutto di intuizioni e studi approfonditi; innegabilmente la storia ci rivela quanto siano state utili e quanto ancora potrebbero esserlo se inquadrate in un’ottica di ricerca e sviluppo in tempi moderni.
E’ finita l’era dei grandi velieri e al pari di come sempre meno gente va in biciletta preferendo la macchina incurante del danno ambientale che provoca, così i costruttori fanno barche sempre più simili in massa e superfici a ville naviganti senza curarsi di quanto ciò impatti sull’ambiente. E’ facile comprendere come l’equazione
meno resistenza = meno potenza = meno consumo di carburante = meno inquinamento
sia di aiuto per raggiungere quegli obiettivi di eco-sostenibilità a cui tutti ormai dovremmo tendere e dovrebbe essere di ancor più immediata comprensione anche l’equazione
meno potenza = meno costo di produzione = meno costo di acquisto
che in tempi di crisi non può altro che rilanciare un mercato ormai statico e bersagliato da numerosi fattori contrari dal punto di vista delle vendite e delle vere innovazioni.
Articolo apparso in “NauTech” di Aprile 2012 e qui riprodotto p. g. c. dell’autore.
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