Dirty jobs, ancora senza regole… di Tealdo Tealdi
Già diversi anni or sono, (nel 2012), ci eravamo occupati in un articolo dello smantellamento delle navi, principalmente sulle spiagge asiatiche Dirty jobs, senza regole.
È sembrato giusto controllare dopo qualche tempo se la situazione è cambiata, ma vi tolgo subito il dubbio: no non è migliorata, tranne un poco che in Europa.
Nel nostro continente, sotto la spinta di movimenti ecologisti, soprattutto in Francia, si è proceduto ad alcuni interventi più rispettosi dell’ecologia e dei lavoratori, che comunque fanno un lavoro pericoloso e inquinante, nonostante tutte le precauzioni possibili.
Questo ha calmato le acque ma, passato il momento ci siamo però poi dimenticati del problema, che salta fuori solo di fronte a situazioni eclatanti, sotto gli occhi di tutti, come nel caso della Costa Concordia.
In effetti di situazioni a rischio c’è solo l’imbarazzo della scelta e chiusa una crisi se ne possono aprire altre infinite.
Vediamo pertanto la situazione attuale.
Sono 50.000 le navi che solcano gli oceani, vera colonna vertebrale del commercio mondiale e la demolizione di quelle vecchie rappresenta un business enorme, di cui l’Associazione Robin Hood monitora l’andamento.
Si pensi che solo dal 2006 ben 8.000 navi hanno intrapreso il viale del tramonto, un convoglio virtuale di 1.400 km, che rappresentano 64 milioni di ton di metallo da riciclare e 3 milioni di ton di rifiuti, spesso speciali, da trattare.
Certe hanno rappresentato un simbolo, come la ex portaerei Clemenceau, il vecchio piroscafo France, orgoglio dei nostri vicini francesi, le petroliere Knock Nevis, allora la più grossa al mondo con i suoi 458 metri e la Exxon Valdez, tristemente conosciuta per la marea nera del 1999 in Alaska. Solo nel 2006 oltre 1.000 navi sono state demolite, ma quelle di cui si era a conoscenza erano in effetti solo 300.
Nel 2009, con la crisi mondiale esplosa quell’anno, si raggiunse il numero riconosciuto di 1.000, e addirittura 1.300 nel 2012.
Nonostante questi numeri importanti, la demolizione è appannaggio dei cantieri del sud est asiatico, che lavorano in condizioni spesso estremamente pericolose, con prezzi assolutamente competitivi, impossibili da battere. Cinque paesi si dividono il 95% del mercato mondiale delle ferraglie, India con Alang (36%), Bangladesh con Chittagong (26%), Cina (16%), Pakistan (13%), Turchia (4%).
Per quello che riguarda le diverse specializzazioni, la Cina offre praticamente gli stessi prezzi, ma ora si sta concentrando essenzialmente su navi cinesi e nord coreane, il Pakistan si è specializzato nei grossi porta container, la Turchia ferries e cargo che operano nel Mediterraneo e alcune navi della Royal Navy.
È un business mondiale, con grossi problemi d’inquinamento, di sicurezza dei lavoratori e sanitari.
Anche se ci sono state delle migliorie, la maggior parte delle navi sono smantellate sulle spiagge, dove si arenano dopo un ultimo sussulto d’onore dei loro motori, senza alcuna precauzione per contenere i residui di carburanti e altri liquidi inquinanti, contenuti al loro interno. Gli operai, spesso molto giovani e inesperti, lavorano in condizioni terribili, rischiando la loro vita in ogni momento, con norme di sicurezza praticamente inesistenti.
In certi paesi un vero dramma umano, che sfrutta la miseria delle popolazioni locali, dove solo alcuni si arricchiscono, ma in fin dei conti nemmeno tanto.
Anche la Convenzione di Hong Kong che avrebbe dovuto inquadrare il riciclo dei paesi membri dell’Organizzazione Marittima Internazionale (OMI) non ha raggiunto il suo scopo, nonostante sia stata adottata già nel 2009, dopo aver fissato diversi punti importanti:
- quadro giuridico sulle modalità di lavoro
- responsabilità degli Stati proprietari
- obbligo dell’armatore di fornire la lista dei prodotti pericolosi.
In realtà questa Convenzione non potrà entrare in vigore che dopo due anni dopo la ratifica di almeno 15 paesi, che rappresentino il 40% della flotta mondiale.
Difatti solo la Norvegia, la Francia e il Congo l’hanno approvata e vi sono forti dubbi, vedi praticamente una certezza, che lo sarà mai: l’ennesima presa in giro.
Gli interessi sono enormi e non bastano certamente le dimostrazioni di alcune centinaia di dimostranti, come è stato per la Clemenceau, a bloccare una pratica scellerata, che fa comodo a tutti e che non suscita sdegno più di tanto, avvenendo lontano e non sotto i riflettori dei social o del politico di turno che vuol farsi della pubblicità.
Solo una trasmissione delle Iene, nel 2009, aveva fatto un vero servizio sul posto e di cui purtroppo si è persa ogni traccia, non suscitando comunque lo stesso sdegno che avrebbe sollevato una notizia sul calciatore o politico nostrano. Non per essere pessimista in momenti tremendi come questi, ma non credo che la situazione possa cambiare più di tanto, visti gli interessi in gioco.
Basti pensare che nel primo trimestre 2017 su 240 navi, ben 225 sono state mandate tra India, Pakistan, Cina o Turchia, 44 con bandiere fasulle, finanziarie o diplomatiche, come Saint-Kitts-e-Nevis, Palaos, Togo, Niue o Mongolia e 76 erano state costruite in Europa con acciaio europeo e amianto russo o canadese. Solo 5 sono state indirizzate verso cantieri europei, dove i costi sono molto più alti.
In effetti sono spesso le bandiere registrate nelle liste grigie e nere del Memorandum di Parigi che vengono utilizzate dagli ultimi proprietari di navi alla fine della loro vita. Un terzo delle barche ha cambiato bandiera nelle settimane precedenti il loro arenamento.
La pratica generalizzata è difatti cambiarla poco prima, in modo da falsare le statistiche e sviare le indagini, in barba a ogni regolamento, buone pratiche ecologiche e rispetto dei diritti umani.
Anche la Ong Shipbreaking Platform è molto attiva nel monitoraggio e ha visto che nel primo trimestre del 2017, tra le navi inviate verso la demolizione, 16 erano riconducibili a proprietà tedesche, 12 di Singapore, 9 greche e 9 sud coreane.
In totale un quarto delle navi bloccate nel sud-est asiatico erano controllate da interessi situati nell’Unione europea, anche se solo quattro di esse sono effettivamente segnalati.
Limitandoci al periodo aprile/giugno e solo a Chittagong si sono registrati quattro incidenti mortali e due feriti gravi, che coinvolgono in particolare un minore di 15 anni, rimane quindi ancora più valido il ricordo di Taiber Khan, vedi prima puntata dell’articolo Dirty jobs.
Where Ships Go to Die, Workers Risk Everything | National Geographic
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