Comprare una barca non e’ come comprare un’auto (II puntata)
di Antonio Soccol
Una barca si divide in due parti: sotto alla linea di galleggiamento si chiama “opera viva”, sopra al pelo dell’ acqua si chiama “opera morta”. Chi oggi compra una barca, al solito, si occupa dell’ opera morta e quindi compra una “casa al mare”. Chi invece vuol navigare si deve occupare dell’opera viva, cioè di tutto quello che sta nell’acqua e serve ad affrontare il mare. Parliamo allora di opere vive e specificatamente di carene. Di quelle ormai oggi più comuni.
Quando apparvero, le chiamarono “carene a dislocamento planante”: una espressione che non vuol dire niente “per la contradizion che nol consent” (Dante Alighieri, “La divina commedia”, Inferno, XXVII, 120). L’ aveva inventata, la definizione, l’ ufficio marketing di un cantiere: l’ Italcraft di quegli anni (primi Sessanta), quando presentò il suo cabinato “X-1”, ispirato (molto ispirato- “forse sin troppo”, direi) alle prime carene di quel genere studiate negli Usa da Raymond Hunt.
In Italia, opere vive di quel tipo, le produceva, allora, solo la Navaltecnica di Anzio, detta anche Canav, perchè queste erano ideate e progettate da Renato “Sonny” Levi.
Chi dei due (Hunt o Levi) fosse (sia) stato il vero genitore/inventore di quell’idea, a noi qui interessa poco, anche se la storia ha poi dimostrato che ciascuno dei due progettisti aveva, praticamente e quasi in assoluta contemporaneità, seguito sentieri di pensiero totalmente differenti. Hunt, in America, voleva, infatti, con quella carena farci una barca a vela: non funzionò e allora ne fece una a motore da sette metri. Il 18 luglio del 1958, a Newport, gironzolava con questo suo barchino attorno alle barche a vela che erano in attesa di prendere il via alle regate di selezione Usa per la America’s Cup: il mare era agitato e da bordo del <Vim>, uno dei 12 metri impegnati in quelle prove, tale Dick Bertram notò la straordinaria capacitè dello schizzetto nel saltare tranquillo sulle onde create da un vento di oltre 20 nodi. Nacque un amore fra Hunt e Bertram che portò alla costruzione di un cantiere, a molte vittorie eccetera eccetera.
Renato Levi, invece, la sua carena a V l’aveva studiata e realizzata in India per la FAO “ sempre nel 1958- per una imbarcazione da pesca per i popoli orientali (Levi è nato a Karachi, allora India oggi Pakistan) da alare facilmente sulle spiagge tropicali.
1.e 2.) Questa è la prima imbarcazione con carena a V profondo studiata da Renato “Sonny” Levi nel 1958 per la FAO.
Come si può notare l’opera viva aveva già un notevole diedro allo specchio di poppa ed erano già presenti i pattini longitudinali da poppa a prua.
(Disegni e foto per gentile concessione della Fao, ripresi da ” Barche da pesca nel mondo”, volume II°, pag. 594 e segg., 1960).
LA PRIMA IMBARCAZIONE A V PROFONDO DISEGNATA DA RENATO “SONNY” LEVI
Entrambe queste carene erano poi finite sugli scafi a motore veloci e sulle barche da corsa in mare aperto. Un articolo determinante di Carlo Marincovich, uno dei pochi giornalisti che, prima di venir travolto dal clangore e dal fumo della F1 automobilistica, capivano e hanno capito di nautica da diporto, spiegò agli appassionati i vantaggi di questi nuovi, nuovissimi, tipi di carena.
In soldoni, il bravo Carlo disse:
Prendete un coltello e provate ad affondarlo nell’acqua. Se lo mettete di piatto, in modo che a toccare il liquido sia la lama nella sua larghezza, avrete una certa resistenza, un impatto e un contro rimbalzo. Se lo mettete di taglio, penetrerà facilmente e, soprattutto, senza controreazioni
Non era proprio quel che si dice una spiegazione scientifica ma rendeva l’ idea. Una carena piatta (com’ erano tutte a quell’ epoca) se sbatte sull’ acqua (onda di mare) vi fa saltare la dentiera. Un’opera viva a V profonda (come appunto erano le carene di Hunt e di Levi) affonda nell’ onda senza darvi dolori. Ergo: la navigazione risulta più confortevole (“molto” più confortevole) anche con mare formato.
Ma, una barca che “affonda” (sia pure di poco e solo nelle sezioni di poppa), già dalla definizione, non funziona bene e conviene magari anche toccarsi gli amuleti. Così, sia negli Usa che a Anzio, Hunt e Levi, sempre ognuno per conto proprio, pensarono che fosse opportuno diminuire drasticamente questi “affondamenti” della carena mettendo, lungo tutta l’ opera viva, dei pattini longitudinali. Da poppa a prua. Che sono poi quei “baffoni” che caratterizzano ancor oggi questo tipo di carena.
Le cosiddette “carene a dislocamento planante” si diedero battaglia nelle prime “Miami-Nassau, “Cowes-Torquay” e “Viareggio-Bastia-Viareggio”, le gare offshore dell’ epoca: parlo del 1962/63. E dimostrarono, assolutamente e senza alcuna ombra di dubbio, che erano largamente superiori a tutto quello che sino a quel momento c’ era stato in circolazione.
I soliti “professori bastian contrari” argomentarono subito che ci voleva più potenza (balle) e che, in acque riparate e tranquille (lagune, laghi, fiumi e… mare, nelle giornate di calma), le carene a fondo piatto erano ancora preferibili.
Un prestigioso cantiere come Riva continuò, ahimè, a produrre i suoi motoscafi “Florida”, “Ariston”, “Aquarama” eccetera a fondo rigorosamente piatto sino agli anni Ottanta… Capita, capita anche ai migliori di sbagliare: Enzo Ferrari, per esempio, per anni si rifiutò di installare i motori “dietro” al posto di guida perchè, sosteneva: “S’è mai vista una carrozza a cavalli con i cavalli dietro al calesse?” e c’è voluta tutta la pazienza dell’ ing. Chiti per fargli capire quale maggior efficienza ci fosse in quella soluzione.
Sulla falsa riga della famosa gara automobilistica “24 ore di Les Mans”, si svolgevano in quegli anni, bellissime gare motonautiche sui circuiti chiusi: la “Sei ore di Parigi” sulla Senna e proprio sotto alla torre Eiffel e la “Sei ore di Milano” all’Idroscalo di Segrate (Mi). Sul fiume francese, ok., un filo di corrente e di onda ci possono talvolta anche essere, ma all’idroscalo milanese le onde proprio non ci sono mai essendo stato costruito proprio per questo (per farvi tranquillamente ammarare gli idrovolanti…) Ebbene, proprio in queste due competizioni, le carene, erroneamente dette a dislocamento planante, dimostrarono di essere in assoluto le più veloci e quindi le più efficienti.
Un po’ alla volta la definizione cadde in disuso e venne sostituita con una più semplice: “carena a V profonda”, dove la V indica il diedro allo specchio di poppa.
Cos’è il diedro? Secondo lo Zingarelli è “la porzione di spazio compresa fra i due semipiani aventi origine dalla stessa retta”. Capito niente? Io poco. Proviamo allora a migliorare il vocabolario: il diedro di cui si parla è l’ angolo che crea, al punto centrale della chiglia, il fondo della carena (che sale verso le fiancate della barca) con una linea parallela a quella del galleggiamento (la superficie dell’ acqua). Il disegno che mi ha regalato ad hoc Franco Harrauer, comunque, è molto chiaro.
COS’E’ E COME SI MISURA IL DIEDRO ALLO SPECCHIO DI POPPA (disegno dell’arch. Franco Harrauer – 2006)
Carena a fondo piatto avrà un diedro allo specchio di poppa pari a zero. Una carena a V profondo avrà , invece, un diedro che, potrà oscillare (variando da progetto a progetto), da pochi gradi sino ad un massimo di 30 gradi (un “V” così drastico si trova quasi esclusivamente solo nei catamarani). D’ abitudine è compreso fra i 20° e i 25°.
Sotto ai 20° l’ effetto comodità di navigazione praticamente non si avverte, sopra ai 30° la barca “affonda” troppo. C’ è una balla colossale che da anni circola nel mondo della nautica da diporto a motore: la prima volta che l’ ho sentita era nel 1962, a Milano, in via Santa Sofia dove c’era un negozio che vendeva barche; l’ ultima è stata pochi anni or sono, per bocca del responsabile dell’ ufficio tecnico di un importantissimo cantiere di Gaeta (vedi anche “Barche”, n.8/2006, agosto, a pagina 176). La balla è che le barche per essere sicure devono avere una carena a prua con molto V per tagliare meglio l’onda mentre a poppa devono essere piatte per avere più sostentamento e quindi maggior facilità di planata e maggior velocità.
Ecco. Se qualcuno ve la racconta questa teoria, ditegli tranquillamente che di barche non capisce nulla di nulla e di parlarvi d’ altro, per esempio, della diffusione della alfabetizzazione nel Burkina Faso (dove gli analfabeti sono il 74% della popolazione), o (a sua libera scelta) del drammatico annuncio che nell’isola di Zanzibar le autorita’ hanno vietato la produzione e l’importazione degli shopper (le borse) di plastica: le pene previste per i trasgressori vanno da 6 mesi di prigione a 2000 euro di multa; nei casi piu’ gravi si rischia sia la galera che la multa. Oppure, se il vostro “esperto” insiste nelle sue argomentazioni, chiedetegli brutalmente se, per puro caso, ha qualche interesse economico in una società di pompe funebri, per la quale sta cercando clienti… Vi spiego il perchè.
Potrei sommergervi sotto un diluvio universale di formule matematiche con tanti seni (no, non quelli là… ), coseni e logaritmi per dimostravi che questa “balla” è proprio una balla ma voi, giustamente, girereste la pagina e andreste a leggervi altre cose.
Allora vi racconto un fatto: le gare offshore, quelle di una volta, erano degli ottimi test per studiare soluzioni nuove atte a garantire una più confortevole navigazione in mare. Come in ogni settore agonistico, ci sono stati degli incidenti. Talvolta mortali. I primi ad aprire questo tragico elenco furono i due fratelli Val (43 anni, 6 figli) e Paul (39 anni) Carr, pluri campioni nazionali australiani, che, il 26 marzo 1972, fecero “spin out” con il loro Cigarette 36′ e morirono sul colpo.
CARENA TIPO DELTA
Carena tipo Delta (molto slanciata a prua) quando entra nell’ onda aumenta la sua lunghezza bagnata e diminuisce drasticamente la possibilità di creare “spin out”.
CARENA TRADIZIONALE
Carena tradizionale (soprattutto con mare in poppa), quando si infila in un’ onda, subisce con la sua prua pronunciata, un effetto “timone” che la mette in condizione di subire pericolosissimi “spin out”.
“Spin out in italiano si dice straorzata ed è parola ancor più astrusa dell’ inglese per chi non ha storia e esperienza nel settore velico. Comunque sia, significa che lo scafo infila la prua in un’ onda e, se le sezioni prodiere non hanno sufficiente portanza, la barca cambia direzione in modo violentissimo (qualcosa di molto vagamente simile ad un “testacod” in auto).
E sapete cosa lo provoca uno “spin out”? Un diedro troppo pronunciato nelle sezioni prodiere, una prua troppo affilata che non ha alcuna “portanza”, insomma.
Renato “Sonny” Levi ha scritto a questo proposito:
…il primo Cigarette da 36′, che vinse una infinità di gare in tutto il mondo, aveva troppo diedro nelle sezioni di prua: questo comporta due effetti: 1°) riduce il sostentamento a prua, 2°) aumenta, quando lo scafo sta navigando con mare di poppa, l’ immersione delle sezioni prodiere: ciò crea un “effetto-timone a prua” che, se l’ impatto con l’ onda non è perfettamente dritto, impone allo scafo una violentissima virata da un lato o dall’altro. Da qui i frequenti “spin out” di quella barca sino a quello mortale.
E’ tanto vero che il successivo Cigarette, modello 35′, realizzato alcuni anni dopo da Don Aronow, aveva un diedro nelle sezioni prodiere assolutamente minore dei primi 36′. Insomma anche il pilota-costruttore americano aveva capito che cosa aveva aperto l’ elenco dei morti noffshore e io non mi sono più sentito una carogna per aver battezzato la prima versione di quello scafo (pur tanto osannato da tutti) una “bara volante”. (Alla luce di questo, ripensate ora anche all’orrore progettuale che ha rappresentato, quasi quaranta anni dopo, “Wally Power cui degli incoscienti hanno pure dato un premio…).
Ecco come il disegnatore americano Richard Merchan ha “descritto” l’ incidente che, nel 1972, uccise per uno spin out con il loro “Cigarette 36”, i due fratelli australiani Val e Paul Carr.
Qualcuno potrà dirvi che bisogna saperle prendere le onde. Come no! Ogni onda è eguale alla precedente e alla sua successiva, vero? Soprattutto sono facilmente controllabili quelle che bisogna affrontare con mare da poppa… quelle così belle che sembrano allegre e trascinano la barca in un improvviso surf.
Ma suvvia!, facciamolo un piccolo sforzo di serietà e ammettiamolo che il mare non è una autostrada e la barca non è una automobile. Nella mania di fare confronti con il mondo delle quattro ruote, qualcuno una volta scrisse che una gara offshore era come un Grand Prix di Formula 1 automobilistica. E subito un altro corresse: “Grand Prix di F1 no, piuttosto rally”.
In realtà , no questo no. Il mare è mare e basta. Ha leggi e impone capacità tutte per se.
Alla “Bahams 500” (il numero significava 500 miglia, sia pure terrestri, di percorso; in realtà erano 539 pari quindi a ben 468,37 miglia marine o, se preferite a 867,43 chilometri!) del 1968, era il 9 di giugno, il famosissimo pugile Rocky Marciano (campione mondiale dei pesi massimi: 45 incontri di cui 43 vinti per ko, l’ unico nella storia della boxe a ritirarsi imbattuto) chiese, dopo un’ ora di gara, di scendere dallo scafo (il Formula 31 denominato “Thunderbird V” di Dick Genth) sul quale aveva tentato di partecipare e giurò ufficialmente no man alive could get me back into a racing boat, che non avrebbe mai più messo piede su una barca da corsa… perché aveva preso troppe botte! Ecco cos’è il mare. Uno potrebbe pensare che Genth non fosse un buon pilota e invece no: era uno dei migliori della sua epoca e aveva vinto un sacco di gare.
Sotto la loro imbarcazione da gara “Thunderbird V” Formula 31
DUE CAMPIONI
Anche sul navigare con mare di poppa ci sono grandi e drammatiche leggende: !E’ più comodo, dicono gli ignoranti e questo solo perchè gli schizzi che arrivano da prua sembrano meno violenti. “E’ più facile suggeriscono gli stupidi. Ma, come ben sappiamo, “uno stupido è una persona che causa danno ad un’ altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per se addirittura subendo una perdita (Terza legge sulla Stupidita umana di Carlo M. Cipolla).
E’ certo che se filate appena sette o otto nodi con la vostra bagnarola tutto è facile ma se appena volete/dovete andare vicino ai venti, venticinque nodi non così. Provate. Provate ad affrontare per un certo lasso di tempo, che ne so…facciamo solo per dieci minuti, lo stesso mare anche appena appena formato: prima di prua e poi tornate indietro sulla stessa rotta e prendetelo di poppa. Tra una prova e l’altra controllate i vostri interni, anche le cose più banali tipo i cuscini che stanno sulla dinette o lo spazzolino da denti che sta nel bagno. Con il mare di prua li troverete un po’ spostati, con quello di poppa li recupererete a distanze incredibili dal posto originario… E’ la barca che reagisce alle botte che prende. Quelle che voi, su mare appena appena formato, quasi non sentite ma che vi possono anche ammazzare. Se avete una barca con una carena sbagliata.
INCIDENTE DOVUTO ALLA POCA MANOVRABILITA’ DI CERTE IMBARCAZIONI
Nella foto lo scafo “The Blonde” del texano Roger Hanks ha speronato la barca della Giuria nella partenza della “Sam Griffith Memorial Race”, a Fort Lauderdale, nel 1973.
Ma quale carena non è sbagliata? Gli autori più saggi sostengono che “la carena ideale per ogni circostanza e’ solamente una pia illusione”. Giusto. Il mare cambia continuamente di forza e di direzione, altresì cambiano i pesi su uno scafo (il carburante che si consuma, l’ acqua potabile che si beve, la cambusa che si riempie o si svuota in funzione della fame dell’ equipaggio, il movimento stesso all’ interno della barca dell’ equipaggio: chi pisola in cuccetta a poppa e chi si arrostisce al sole in coperta a prua eccetera). Troppe varianti perchè esista una sola, unica, indiscutibile soluzione.
Ma, un conto è cercare una perfezione purtroppo inesistente e altro è evitare quanto si sa che è “sbagliato”. Abbiamo già visto il problema del diedro a prua e a poppa. Valutiamo un altro elemento: i fondi delle carene possono essere concavi o convessi. I primi hanno un “gusto di mare” che non vi dico: ricordano le barche d’antan e esprimono un grande fascino. Ma sono una chiavica assoluta. In linguaggio tecnico il motivo è questo: la carena concava diventa più piatta verso i lati esterni, produce progressivamente più spinta e quando, con lì aumento della velocità , si solleva perde rapidamente la superficie di alto sostentamento delle fasi iniziali. Quanto rimane di operativo in acqua è una figura inefficiente a cuneo concavo che ha ben poca portanza. Inoltre, dal punto di vista strutturale, una carena concava ha ben poca rigidità e non permette, in fase di costruzione, strutture leggere.
Al contrario una carena convessa anche se spinta ad alte velocità , mostra una riduzione di superficie bagnata con ottime qualità di alzamento dinamico e molta larghezza (quindi maggior stabilità laterale).
Ci sono naturalmente anche i fondi di carena dritti che non hanno i difetti di quelli concavi ma nemmeno i pregi di quelli convessi. Sono una soluzione senza arte nè parte che si usa(va) soprattutto nelle costruzioni in compensato marino e/o in alluminio e quindi che oggi non hanno grande mercato.
Altro elemento ancora: i famosi pattini longitudinali (quelli che ho definito “baffoni”). La loro funzione è di incrementare il sostentamento dinamico e di ridurre la superficie bagnata. Nessuno è capace di guardare sotto ad una carena che fila a, facciamo, 25/30 nodi, ma se si potesse farlo si noterebbe che i pattini giocano un ruolo di controllori del flusso diagonale che una carena planante inesorabilmente produce e lo raddrizzano flettendolo infine verso il basso. Per esser meno difficili diciamo che si comportano come delle rotaie sulle quali la barca procede con maggior stabilità sia di direzione che trasversale.
Noterete che parecchie carene di barche interrompono questi pattini all’ altezza della sesta ordinata di calcolo, cioè verso poppa. Chi produce questo tipo di opere vive sostiene che nelle sezioni poppiere i pattini creano solo attrito e turbolenza. Falso. E’ vero il contrario. I pattini devono arrivare sino allo specchio di poppa. , si lo so che qualcuno vi ha detto che tagliandoli la sua barca ha migliorato la sua velocità . Questo significa una sola cosa: quella barca navigava troppo piatta sullacqua. Bastava banalmente spostarne il baricentro più verso poppa che la sua velocità sarebbe aumentata proprio grazie all’azione dei pattini lunghi sino allo specchio.
E allora, come si valuta una carena?
Io capisco che voi non possiate andare in giro con un goniometro a misurare i diedri di prua e di poppa, né con una “livella” da muratore per valutare la convessità o concavità dei fondi di carena. Lo capisco perché ai Saloni nautici le carene non si vedono e perché quando andate in cantiere vi stordiscono con la comodità della dinette e la spaziosità del prendisole…
Posso darvi alcuni consigli pratici: prima di tutto pretendete sempre di vedere l’ opera viva del vostro “scafo da sogno: fate alzare la barca con una gru e guardatele il culetto. E già questo mette sul chi vive i venditori. Poi chiedete di vedere i piani di costruzione (no, non quelli di compartimentazione interna con il salotto da loft industriale e il letto matrimoniale a forma di cuore; parlo del piano dei quinti) e preparatevi alcune domande facili facili: che diedro ha questa carena a prua e che diedro ha allo specchio di poppa? Quale che sia la risposta, chiedete perchè è stato fatto cosi. E quali sono i motivi tecnici che hanno suggerito quella soluzione. Registratevi il tutto e tornate a casa e rileggetevi questo articolo…Troverete da soli la risposta.
Ah, dimenticavo un dettaglio: se la barca non ha un bel paio di flaps, ovviamente a poppa, non perdete tempo a far troppe domande. E’ una barca inutile per navigare. Ma di questo parleremo la prossima volta.
PS: Ho letto un titolo su una rivista di settore: “I motori idrogetto”. Non ho letto l’ articolo: basta il titolo, visto che gli idrogetti non sono motori… ma trasmissioni.
Un altro articolo invece dice che il Gruppo Ferretti ha annunciato la sua intenzione di ritornare a farsi quotare in Borsa. Il suo Amministratore Delegato, Gabriele Del Torchio, ora “punta alla razionalizzazione delle attività connesse ai vari brand e al consolidamento dei mercati strategici”. Più che giusto. L’ A.D. del noto Gruppo ha, inoltre, dichiarato: “Puntiamo su quattro valori fondamentali: la copertura di tutti i principali segmenti di prodotto, con brand che ci permettono di coprire la quasi totalità del mercato; il posizionamento di tutti i nostri brand nella fascia premium; la massima esclusività dei nostri prodotti; i forti contenuti di innovazione e designi”. La notizia si conclude con l’affermazione che si prevedono nei prossimi tre anni nonsoquante centinaia di milioni di euro di investimenti. Meraviglioso. Siamo tutti molto contenti.
Personalmente la sarei un po’ di più se in questo discorso in puro “finanziese”, pieno di brand e di fasce, ci fosse stata almeno una volta la parola “sicurezza”. Mi diranno che non c’ è perchè è insita nella serietà , nella storia del cantiere e nel concetto di design. Si, forse, non so. Ma perchè non se ne parla proprio mai? E’ così scontata? Come sulle automobili, vero?
Articolo pubblicato sul mensile internazionale di nautica a motore”BARCHE” di febbraio 2007 – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Gentile signor Soccol,
bravo, bellissimo ed interessante articolo.
Purtroppo sono sicuro che la stragrande maggioranza dei lettori della rivista su cui è apparso dopo aver letto le prime righe (o forse solo il titolo), hanno voltato pagina per leggerne un altro corredato di immagini di barche e belle ragazze al tramonto…
Tra l’altro, da “professionista” del settore (sono un broker), posso confermare anche il contenuto della I parte (tristemente spassosa), come potrei aggiungere una serie di racconti di spassosi episodi con clienti capitati a me o a miei colleghi….
Cordialmente
Gentile Dino,
ho letto il tuo commento e se tu potessi inviarci qualche immagine circa il tuo quesito, sarebbe ideale, visto che
ne capisco il senso, ma l’immagine è indispensabile per poter esprimere un corretto parere tecnico.
Le foto puoi inviarle a: info@altomareblu.com
Cordiali saluti
Giacomo Vitale
Ciao Dino,
come amministratore del sistema ti ho pubblicato l’articolo ma ti chiedo di attendere qualche giorno per la risposta alle domande, i diretti interessati sono fuori per ferie. Il sito/sistema, ha comunque avvisato l’autore dell’articolo che leggerà direttamente le tue domande; vedrai, gli “esperti” delle carene a V profondo, risponderanno!
Admin di Altomareblu
Un manuale praticamente.
Vorrei però un consiglio. Posseggo una carena a v profondo con pattini longitudinali (3 x lato mi pare) ma con tratto terminale della carena piatto… in poche parole non finisce a punta la poppa ma presenta una piccola superficie piana dove si congiungono i due lati della carena.
La carena è lunga 4,25 m ed e di un gommone. Che pregi e difetti può avere, in navigazione, una carena con tali caratteristiche?
Anticipatamente ringrazio,
Dino
Caro Luigi,
le sono molto grato per il suo commento al mio articolo. Innanzitutto, grazie per la straordinaria poesia della sua definizione delle prestigiose imbarcazioni dei cantieri Riva. Ho scritto molti articoli su quei natanti e ho persino lavorato, nel lontano 1964, per alcuni mesi come addetto stampa per quell’eccezionale costruttore, godendo del rispetto e della stima di Carlo Riva in persona.
Se lei non ha un copyright sulla sua definizione, la farò mia qualora mi capitasse ancora di parlare di Florida, Ariston e Aquarama. La ringrazio altresì per la battuta finale. Vede Luigi, io amo moltissimo i matti e quindi quelli che fanno “robe da matti”. Penso che senza i matti l’uomo starebbe ancora giocando a fare Tarzan nelle foreste africane.
Era certamente matto, infatti, quel primo umanoide che decise di camminare eretto invece che a quattro zampe; era matto Socrate che, per rispettare le leggi della sua città, si bevve tranquillamente un “mezzolitro” di cicuta e se ne andò all’altro mondo parlando di galli e galline; era matto Ulisse che, dopo aver fatto carbonella di una città imprendibile, invece che salire sul primo traghetto “high speed” da Troia a Itaca se ne andò in crociera (per dieci anni!) con veline e ciclopi costringendo il povero Omero a scrivere un diario di bordo infinito come l’Odissea; era matto Gesù Cristo che sperava di redimere l’umanità facendosi inchiodare ad una croce per rimanervi da oltre duemila anni; era matto quel progenitore di “Archimede Pitagorico” che, tanti anni fa, giocando con gli specchi ustori si divertiva a bruciacchiare le navi romane che assediavano Siracusa (chissà che carena avevano quelle barche?); era matto quel ragazzo fiorentino di nome Dante Alighieri che, stufo di mangiare pane senza sale, fece un po’ di jogging entrando in un bosco infernale e uscendone addirittura dopo aver visitato il Purgatorio e persino il Paradiso: come ricorderà, caro Luigi, scrisse che si trattava solo di una “Commedia”; era matto Galileo Galilei che borbottava agli increduli “Eppur si muove” e per questo rischiava di finire sul barbecue dell’Inquisizione; era matto Cristoforo Colombo che con tre barchette e una ciurma reclutata nelle galere spagnole andava alla ricerca di un prete gironzolando dalle parti dell’attuale La Habana ma così facendo “scopriva” un nuovo mondo oltre che il “Cuba libre”; era matto quel gay di Leonardo da Vinci che ha fatto il più famoso rendering di volto femminile noto come “La Gioconda”; era matto Guttemberg che inventando i caratteri mobili pose in “cassa intergrazione” tutti quei bravi monaci che passavano la vita a ricopiare in buona calligrafia i vecchi libri; era matto Behethoven che, totalmente sordo, componeva alcune, diciamo “piacevoli”, sinfonie; era matto Darwin che durante una sua gita turistica alle Galapagos si mise a guardare gli uccelli e scoprì che noi ometti deriviamo dalle scimmie; era matto quel Guglielmo Marconi che sparava fucilate a salve per capire se aveva inventato il telegrafo senza fili cosa utile per salvare un po’ di gente del “Titanic” e anche per darci quindi la radio e quindi la televisione e assicurarci, infine, la gioia quotidiana di ascoltare Emilio Fede, l’autentico inventore dei “reality show”; era matto quel poveraccio emigrante negli Usa di Antonio Meucci che ci regalò il telefono e l’emozione superba di avere un cellulare intercettato a basso prezzo; era matto Einstein che pretendeva con una formuletta di soli quattro (E=Mc2) di rivoluzionare il concetto del mondo; erano matti Enrico Fermi e i ragazzi di via Palisperna che, con un paio di caffettiere e una padella, ottennero la scissione dell’atomo. E assolutamente matta (finalmente una donna) era anche quella tale A. Byron che, partendo dall’abaco cinese, elaborò quegli studi (concretizzati poi nel 1876 da Thompson) che hanno permesso di avere il cosidetto elaboratore elettronico, in arte detto “pc”, con il quale lei mi ha scritto. Tanto per citarne alcuni così, al volo. E tralasciando ragazzi tipo Newton o Bill Gates.
Come lei sa, uno puntapenne di Rotterdam, un tale di nome Erasmo, scrisse (circa 500 anni prima del suo commento al mio articolo) persino un libello dal titolo “Elogio alla pazzia”: opera sconosciuta ai più ma che divenne un “top ten” quando fu citata, ovviamente a sproposito, da un nostro noto uomo d’affari “sceso in politica”. Personalmente ho sempre approvato e condiviso l’incipit di “Herzog”, un romanzo che valse a Saul Below il premio Nobel per la letteratura e che diceva testualmente:
Le confesso che spero tanto di esser anch’io un pò matto e il suo commento al mio articolo aumenta la mia speranza. Vede, caro Luigi, io amo i matti perchè hanno una caratteristica comune: raramente sono ignoranti (dal latino “ignorare”; cioè “non conoscere). Nel senso che non “ignorano” le cose di cui si occupano. Le carene dei Florida, Ariston e Aquarama avevano zero gradi di diedro allo specchio di poppa. I disegni dei piani costruttivi sono disponibili ancor oggi e sono stati pubblicati da molte riviste e su molti libri. E, se non bastasse, vi sono in circolazione ancora moltissimi esemplari di quelle bellissime barche, costruite come degli stradivari e perfette in ogni dettaglio. E le cui “opere vive” era proprio piatte come quelle delle tavole da surf. Si armi di goniometro e controlli.
Un cordiale saluto,
Antonio Soccol
I Riva Florida, Ariston, Aquarama sono delle tavole da SURF senza vela?
Robe da matti!
Luigi…