SUEZ – quarta puntata: Il CAIRO “Gezira Club“
di Franco Harrauer
Il fumo aromatico passò gorgogliando nell’ acqua di rose e fresco arrivò nel bocchino di ambra che Osama mordicchiava da più di un’ora.
Era un vecchio e prezioso bocchino al quale il Maggiore Osama Ab del Hack era particolarmente affezionato e che suo padre gli aveva donato come simbolo di maturità al compimento del diciottesimo anno di età. Ricordava con piacere e tenerezza quel giorno e ricordava anche il malcelato disappunto del padre che passandogli l’indice sul labbro superiore, come ogni anno gli diceva “ma quando ti lascerai crescere i baffi?”
Ma Osama che a quei tempi frequentava l’Accademia Militare di Batrusth in Inghilterra, si radeva accuratamente proprio per distinguersi dagli altri allevi egiziani che avrebbero fatto carte false per farsi spuntare quella peluria sotto il naso. Per lui la virilità aveva altre più piacevoli manifestazioni. Allora era considerato un “outsider“ ed anche ora come vice capo del servizio informazioni militari della Polizia Egiziana, quella qualifica gli era rimasta addosso procurandogli nemici implacabili, ma anche molte solide e piacevoli amicizie. Reclinò il capo contro il poggiatesta della comoda poltrona di paglia di Vienna e fece uscire lentamente il fumo dal naso guardandole stelle e la luna che occhieggiava tra le palme.
Il grande giardino vicino alla piscina del Gezira a quell’ora non era ancora molto affollato. Lo sarebbe stato più tardi con un crescendo che raggiungeva il suo culmine dopo mezzanotte, quando i cairoti e gli ufficiali britannici uscivano dai teatri e dai ristoranti e dopo essere passati al Caffè Groppi in Midam Talat, avrebbero attraversato il Nilo per raggiungere l’isola di Zamalek ed il Club. Era un ”rito“ che si ripeteva da anni e nemmeno, le panzer divisionen di Rommel che distava ormai meno di trecento chilometri, riuscivano a turbare. Fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere quasi vuoto e decise che il prossimo drink lo avrebbe pagato il suo amico Smith. Fece cenno al boy di ritornare più tardi e si domandò cosa mai volesse sapere il maggiore Smith, che in quel momento vide avvicinarsi.
Osama sapeva che quando un amico ti chiede delle informazioni è il momento giusto per farsi fare delle confidenze. Verso l’una di notte Smith non aveva saputo nulla di più di quanto sapesse già, al contrario di Osama che riusci a farsi raccontare tutta la movimentata giornata del maggiore inglese. Certo è che il miglior carburante per mettere in moto le notizie è una bottiglia e mezza di scotch. Quando si lasciarono Osama pensò che aveva fatto bene a non parlare di quanto aveva saputo dai suoi informatori.
Quella stessa mattina il tenente di polizia di Fayum aveva segnalato che verso mezzanotte, sull’oasi era stato segnalato il passaggio di un grosso aereo a grande altezza diretto ad Est e nel tardo pomeriggio dal posto di polizia di Kabrit era giunta una singolare notizia: un bambino figlio di un pescatore locale aveva visto sulla sponda del piccolo lago una strana imbarcazione nascosta nei canneti ed il padre era corso alla stazione di polizia per segnalare il fatto. Adesso Osama vedeva chiaramente una connessione tra gli episodi a lui noti e le confidenze di Smith: un gruppo di italiani intendevano sabotare in qualche modo il Canale.
Avevano già superato le difese esterne ed erano pronti a colpire. Pochi giorni prima avevano colpito ad Alessandria. Rommel era ad El Alamein e proprio quella sera Smith gli aveva detto che il quartier generale britannico al Cairo era in procinto di trasferirsi in Palestina e che una nuova linea di difesa, dopo l’abbandono di Alessandria e del Cairo, poteva essere allestita al Canale. L’Egitto era ancora formalmente neutrale e gli ambienti militari egiziani erano fortemente anti inglesi con ampie frange il cui atteggiamento era filo tedesco, dopo le assicurazioni che promettevano la completa indipendenza dell’Egitto e l’insediamento di un nuovo governo in cambio di una fattiva collaborazione militare con le forze dell’Asse.
Il Colonnello Naguib che Osama ben conosceva e dal quale era molto stimato, era a capo di questa fazione ed erano noti ad Osama, proprio per questa sua posizione, alcuni episodi di aperto appoggio in favore di azioni di sabotaggio e possibili penetrazioni di nuclei di forze d’attacco.
Quella stessa notte, verso le sei di mattina, Smith e Osama furono svegliati da due telefonate provenienti da Ismailia e da Kabrit. Il Canale era bloccato! Quattro navi in transito erano affondate dopo misteriose esplosioni forse attribuibili a mine magnetiche ed avevano ostruito il canale nei pressi di Serapeum.
Smith pensò subito che le mine magnetiche non c’entravano affatto, ma ciò che gli dava più fastidio era il pensiero che tra poco avrebbe dovuto salire di nuovo su quel maledetto puzzolente Lysander e decise che tanto valeva farsi una doccia e prepararsi per andare in ufficio prima di ricevere la telefonata del suo giovane pilota Osama sapeva che la stretta di Seraprum era molto vicino a Kabrith e fece tre telefonate. La prima al quartier generale egiziano, sollecitando un colloquio urgente con il Colonnello Naguib. La seconda al posto di polizia di Kabrith e dopo un po’al numero corrispondente ad una abitazione privata di Suez.
Francesco nuotava silenziosamente in superfice seguito a breve distanza da Gigi Bertone e Corti sapeva che con la resistenza del rspiratore e dei due bauletti esplosivi, con una “pinnata“ poteva percorrere circa tre metri. Quindi per raggiungere l’obiettivo distante circa due chilometri, avrebbe dovuto pinneggiare circa trecento volte..
Questa la teoria che aveva appreso al corso sommozzatori Gamma a Livorno, ma in realtà duemila metri era un limite oltre il quale l’ efficienza fisica decadeva rapidamente ed oltretutto la teoria poteva valere per la sua età e la sua prestanza fisica o per Gigi che lo seguiva. Francesco sorrise serrando i piolini del boccaglio e pensò che per Bertone bisognava aggiungere la resistenza addizionale della sua prominente pancetta.
La notte era fonda e la luna non era ancora sorta, i fanali delle boe sui quali Francesco contava di orientarsi erano spenti, così come le altre luci che aveva preso come riferimento. Forse la zona era in allarme? Comunque anche se fossero state accese non avrebbero potuto essere viste a meno di una cinquantina di metri a causa di un leggera nebbia che si era levata e Francesco dopo un centinaio di metri si fermò raggiunto da Sauro. Levata dal volto la maschera guardò la rosa della bussola che aveva al polso: 270° Ovest – perfetto.
Poco dopo furono raggiunti da Bertone e Corti la visibilità era pessima a causa della nebbia che adesso la luce della luna piena trasformava in una lattiginosa opaca luminosità. “Siamo sulla rotta giusta, ma ho timore che possiamo separarci e perderci“ disse Francesco. “Forse è meglio che nuotiamo in linea di fila tenendoci a questa sagola sino che non siamo in vista dell’obiettivo“.
“D’accordo Attanasio, faccia lei la rotta”. Francesco dipanò una ventina di metri dalla sagola che aveva con se e la cordata proseguì.
Si erano mossi appena fatto buio e nel tardo pomeriggio Bertone, in piedi sul ponte dell’MTL aveva dato un’ultima occhiata all’ obbiettivo. Quattro grosse motonavi a pieno carico, appena arrivate all’ ancoraggio di Kabrith, basse sull’ acqua per il carico e con le stive piene di carri amati ed autoveicoli e le coperte ingombre di grandi cassoni entro i quali erano smontati i bombardieri e i caccia per la RAF.
L’ormeggio era sorvegliato da un paio di motovedette armate he pattugliavano sistematicamente il recinto delle reti.
Bertone assegnò i bersagli e diede disposizioni affinché Krause, pilotando il mezzo dopo averli portati fuori dal canneto, si trovasse tra le 23.00 e le 24.30 ad aspettare gli operatori per il recupero, pendolando al minimo della velocità in una zona a 3.000 metri a nord dell’ormeggio, quasi sulla riva occidentale del lago.
L’ MTL avrebbe dovuto trascinare dietro di se il lungo cavo galleggiante di recupero.
Dopo circa un’ora di nuoto Francesco percepì il rumore di un motore in avvicinamento, diede un leggero strattone alla sagola come segnale di fermarsi ai compagni dietro di lui. Improvvisamente vide innanzi a se la prua affilata della motovedetta che navigava a bassa velocità sciabolando l’acqua con il raggio di luce azzurrina del proiettore e puntava dritta su di lui.
Fece appena in tempo ad azionare la valvola che gli permetteva si respirare dall’ esterno, a far uscire un po’ d’aria dal sacco polmone immergendosi dopo aver dato due strappi alla sagola in modo che anche i compagni eseguissero la stessa manovra. L’acqua era torbida e Francesco scendendo percepì solo l’aumento di pressione finché non toccò con le pinne il fondo sabbioso.
Dalla pressione sui timpani aveva compensato solo due volte, stimando di essere sceso per almeno dieci metri, sentì lo scafo della vedetta inglese passare sopra di lui. Decise di proseguire in immersione e risalito di un paio di metri dopo aver verificato la rotta sulla bussola, pinneggiò per un centinaio di metri nell’ oscurità finché non urtò contro la rete e con le mani sulle maglie di filo d’acciaio, risalì verso la superficie ed emerse cautamente tra due grossi galleggianti cilindrici di sostegno allo sbarramento.
Il rumore della motovedetta era appena udibile e volgendosi verso l’interno dell’ormeggio vide sfumata nella nebbia l’alta prua della prima motonave. Sauro e Corsi emersero silenziosamente e Bertone per ultimo indicò subito a gesti per ciascuno il proprio obiettivo.
I detonatori ad elichetta erano già stati regolati e Bertone assegnò a Francesco, con i suoi due bauletti, l’attacco alla nave che presumibilmente si sarebbe mossa per prima, cioè quella più a Nord. Francesco passò agevolmente nel breve varco tra un galleggiante e l’altro. Prima che la motovedetta ritornasse verso la rete, tutti erano già dentro il recinto.
Una cinquantina di metri separava la rete dalla prima nave e Francesco li percorse con la testa appena affiorante, poi non appena arrivato a contatto con la murata si immerse per raggiungere l’aletta di rollio dove poter applicare il bauletto.
Nel buio totale la individuò con le mani ed appoggiato il grosso cilindro esplosivo nel vano tra l’aletta e la carena, con l’ogiva volta verso prora cominciò a serrare il morsetto di attacco. Quando fu ben certo che l’ordigno era solidamente ancorato svitò il cappuccio all’ ogiva e sentì l’elichetta libera di girare non appena la nave si fosse mossa.
Ripeté l’operazione sull’ altro lato della nave dopo essere passato sotto la carena. Con cinquanta chilogrammi di alto esplosivo serrati ai fianchi al centro nave ed in corrispondenza del locale motori, la struttura probabilmente avrebbe ceduto e lo scafo si sarebbe spezzato in due.
Guardò il suo orologio subaqueo, erano le 22.20 e in una ora sarebbe arrivato comodamente all’appuntamento con Ktause. Si sllontanò dalla nave nuotando ad un paio di metri sotto la superfice e raggiunto lo sbarramento attese l’allontanamento della vedetta e si diresse in superfice verso Nord.
Dopo una quarantina di minuti si liberò della maschera del respiratore e della cintura della zavorra che affondò. Nuotando sul dorso rallentò il ritmo delle pinnate guardando un alto la Polare , adesso che la nebbia si era diradata, gli diede la giusta rotta.
L’acqua era calma e relativamente fredda, ma Francesco anche attraverso la sottile muta di gomma, a causa della stanchezza cominciava a sentire feddo.
Si fermò cercando di capire attraverso i vaghi rumori che giungevano alle sue orecchie, se i compagni erano nelle vicinanze. Il silenzio era rotto solo dal tenue sciacquio dei movimenti di Francesco. Improvvisamente sentì il tenue ronzio del motore elettrico del suo MTL, era un rumore in allontanamento. Poi si sentì toccare la schiena da un oggetto in movimento. Dopo un attimo di irrazionale paura capì che era uno dei piccoli galleggianti di sughero della lunga sagola che l’ MTL rimorchiava a poppa. Afferrò saldamente il galleggiante successivo e si sentì trascinare via. Poco dopo la trazione diminuì… evidentemente Krause aveva avvertito che uno dei suoi pesci aveva “abboccato“ ed aveva poi fermato il motore.
Francesco tirandosi sulla sagola raggiunse la poppa del battello e mentre si liberava delle pinne ormai inutili, sentì dietro di se le voci appena sussurrate di Corti e Bertone che erano già a bordo.
[quote]“Dai Attanasio sbrigati a salire che stiamo morendo di freddo“.
“Ma porca miseria, siete già qui?“
“Ma certo e tu come al solito sei sempre l’ultimo”.. disse sottovoce Sauro.
“Io sono arrivato terzo”.. e con voce ancor più bassa terminò dicendo… “dopo i vecchietti!”
[/quote]Si liberarono delle mute e rimasti con le tute regolamentari cercarono alla meno peggio di riscaldarsi avvolgendosi nei teli di copertura dell’imbarcazione.
“Se proprio volete fare una classifica voi giovani dovreste vergognarvi di fronte a noi “VECCHIETTI“ disse Bertone facendo circolare un gavettino pieno di cognac nel quale tutti inzupparono grosse zollette di zucchero. “Alla salute di noi del Tappo!” fu l’unanime brindisi, poi Krause mise in moto sulla nuova rotta per Ovest. Il convoglio PS16 ebbe l’ordine di muovere dall’ormeggio di Kabrith alle ore 02,30 del giorno 20 dicembre 1941 diretto ad Ismailia – Port Said. Precedute dai dragamine magnetici MMS 1400 e MMS 1014 e seguiti dal rimorchiatore di salvataggio “Hercules“ uscirono dal recinto retale del Piccolo Lago Amaro nel seguente ordine:
- Motonave “Clan Morgan“ di 12000 tonnellate carica di carri armati tipo Sherman, autoveicoli, munizioni e dodici bombardieri bimotori B25 smontati. In coperta
- Motonave “City of Cowes“ di 16.000 tonnellate carica di carri armati auto blinate tipo Cadillac Cage, Jeep e materiali vari.
- Motonave “Empire Pride“ di 15000 tonnelate con venti aerei da caccia tipo Curtiss40 imballati in coperta e in stiva, autoveicoli e mateiale aereonautico.
- Motonave “Empire Glory“ di 10000 tonnellate carica di obici di artiglieria, munizioni e camion da 3 tonnellate.
Il convoglio si ordinò in linea di fila con le navi distanziate non meno di duecento metri e procedendo a cinque nodi di velocità. Le ancore erano appennellate e pronte a dar fondo in caso di necessità. Tutte le navi procedevano a luci spente con i soli fanali di coronamento accesi in modo da essere visti solo dalla nave a poppavia.
Ma verso le cinque, quando le navi erano nella stretta di Serapeum, la nebbia si era già diradata e dissolta e le prime luci dell’alba permettevamo una discreta visibilità. Fu allora che si verificarono le prime due esplosioni, quasi contemporanee. La “Clan Morgan“ fu scossa da due violente detonazioni che sollevarono ai suoi fianchi alte colonne d’acqua. Subito dopo le sue strutture cedettero in un prolungato gemito di lamiere lacerate e la prua e la poppa cominciarono ad alzarsi mentre la parte centrale sprofondava. D’abbrivio la nave procedette di un centinaio di metri, ma non appena la sua chiglia toccò il fondo si arrestò di traverso nel canale.
Dalla parte del ponte prodiero proteso verso il cielo cominciarono a cadere in acqua i primi aerei rompendo le ritenute, mentre i due dragamine invertita la rotta tentavano di accostare la “Clan Morgan“ per portare i primi soccorsi all’equipaggio che stava abbandonando la nave.
Il Comandante della “City of Cowes“ che seguiva ordinò subito un “macchina indietro tutta“, ma la massa delle sue sedicimila tonnellate proseguì per inerzia la sua inesorabile corsa verso la “Clan Morgan“ ormai ferma e semi sommersa ed il tentativo di dar fondo alle sue due ancore per fermare l’abbrivio fu frustrato dall’ esplosione simultanea dei due bauletti applicati da Sauro poche ore prima.
Ormai la distanza tra le due navi era ridotta a poche decine di metri, quando il comandante ordinò in extremis “barra tutta a dritta”. La nave che cominciava ad appruarsi per effetto dell’acqua che stava invadendo le sue stive ubbidì al timone e la sua prua si arenò sulla sponda del canale, ma il suo scafo ruotando come la lancetta di un gigantesco orologio si traversò e urtò contro la poppa del “Clan Morgan“ ancora affiorante e poco dopo si adagiò sul fondo sabbioso.
Il rimorchiatore di scorta superò le ultime due navi ed a tutta forza risalì il canale per portarsi al fianco delle due navi colpite e prestare il soccorso, ma mentre doppiava la terza nave, l’Empire Pride fu scossa da due esplosioni successive e virò a sinistra senza governo sbarrando la rotta al rimorchiatore, che ne investi la murata.
Gli striduli ululati delle sirene dei dragamine si univano al basso e vibrante suono delle sirene delle navi in agonia, un lugubre segnale di “abbandonare la nave”. L’Empre Pride con i suoi centodieci metri di lunghezza messi al traverso nel Canale lo ostruiva quasi completamente.
Il caos era completo e gli equipaggi delle prime navi colpite, non riuscendo a calare le scialuppe o gli zatterini si erano gettati in acqua ed avevano già raggiunto le rive del Canale dove si erano raggruppati storditi dall’ improvvisa sciagura.
Per effetto dell’esplosione dei due bauletti che Bertone aveva applicato sotto l’aletta di rollio di sinistra, la nave cominciò ad inclinarsi finché, sotto il peso del suo notevole carico si adagiò con un fianco sul fondo emergendo solo con la murata del lato dritto.
Tutto accadde nello spazio di quindici – venti minuti e l’ Empire Glory, ultima nave del convoglio, quasi attendendo il suo destino riuscì a fermarsi dando fondo alle sue ancore prima di essere squassata ed affondare con i fianchi squarciati dai bauletti di Corti.
Il Canale di Suez per la lunghezza di meno di un chilometro era bloccato da un gigantesco ammasso di rottami. La “squadra del tappo” questa volta aveva lavorato bene ed i Sottotenenti di Vascello Francesco Attanasio e Luigi Sauro ripensarono al vecchio “Araxos“ che arrugginiva già da un anno sul fondo del golfo Saronico, a poche centinaia di metri dall’imbocco del Canale di Corinto.
Quella mattina il Generale Horatio Campbell appena varcò la sommità dell’argine del “suo“ Canale vide, materializzato 1’incubo che aveva turbato i suoi sonni da quando aveva l’incarco e la responsabilità della Difesa del Canale di Suez.
Quattro navi emergevano con le loro sovrastrutture dalle acque, una era spezzata in due, un’altra era completamente sommersa, con la prua contro la scarpata dell’argine, una terza era coricata su un fianco con timone ed elica in aria, e l’ultima con le sole alberature visibile.
Il sole si era appena levato ed illuminava tutto quel disastro che poteva essere abbracciato in un solo sguardo.
Campbell era stato svegliato alle 02.00 da una concitata telefonata proveniente dal posto di guardia numero 35, presso la stretta di Serapeum. Telefonata che, sia pure in una confusa relazione, dava un’idea del disastro.
Dopo essersi vestito e di aver messo in allarme tutto il dispositivo di difesa telefonò al Quartier Geneale al Cairo e ordinò che gli fosse approntata una macchina per raggiungere il posto con il suo aiutante. Mentre percorreva la strada parallela al canale pensò con rabbia alla visita del Maggiore Smith e alle spiacevoli conseguenze che avrebbe dovuto affrontare nei giorni a venire..
Dopo una mezz’ora di strada cominciò a vedere sull’argine un assembramento di soldati, civili, marinai, molti dei quali evidentemente recuperati dal mare. Intravide le alberature di una nave che spuntavano oltre il ciglio dell’argine in posizione inusuale. Scese dalla macchina e salì sulla scarpata di sabbia con il tetro pensiero di ciò che avrebbe visto.
Quella mattina il maggiore Smith, dopo aver telefonato in ufficio, di malumore si recò direttamente all’aeroporto di Al Maza dove lo attendeva con il motore già in moto il suo “maledetto aeroplano“. Aveva appena avuto il tempo di bere una tazza di the caldo, ma il beneficio della bevanda era scomparso non appena il Lysander nella fredda mattinata si mise in rotta per Est con il sole appena sorto che traeva bellissimi riflessi sull’ elica metallica.
Infagottato nell’ormai familiare, puzzolente ed abbondante tuta di volo, Smith poco sensibile alle bellezze dei panorami africani ed ai colori dei riflessi del sole, meditava su quanto era successo nelle quarantotto ore e sopratutto sull’irritante colloquio con Campbell che inevitabilmente si sarebbe ripetuto nelle ore successive. Gli Italiani dell’aliante avevano completato la loro missione e adesso erano probabilmente già sulla via del ritorno… ma chi li stava aiutando?
Ciò che lo lasciava molto perplesso e dubbioso era lo sterile colloquio avuto la sera prima con il suo “amico“ Osama, solitamente cordiale, loquace e ben informato, questa volta era stato molto parco nel parlare e Smith ricordò che tutte le volte, alla vigilia di avvenimenti importanti nei quali era stato preavvisato o avuto sentore, il suo “amico“ era stato sempre reticente o vago sull’ argomento, quasi che ne fosse pienamente informato o addirittura partecipe. Cullato dal ron-ron del motore, come una tartaruga, si calò la visiera del berretto sugli occhi, ritirò la testa entro la tuta cercando di recuperare un po, di sonno perduto. Tuttavia, l’incontro con Osama lo turbava e professionalmente lo incuriosiva.
Quella mattina verso le 08,30 l’ingegner Hussein Martin percorreva a buona andatura con il camion Peugeot del cantiere la strada che costeggia la riva Ovest del canale, da Suez a Ismailia. Il vecchio camion sollevava un fitto polverone dietro di se. La strada era stata chiusa al traffico civile già all’inizio della guerra, essendo nella zona di sicurezza contollata dalle truppe britanniche, ma Hussein con i suoi mezzi poteva percorrerla, essendo repnsabile dei lavori di dragaggo del canale.
Dopo il villaggio di Ksbrith aveva già sorpassato due posti di blocco istituiti dalla polizia egiziana, blocchi che aveva passato senza nessuna difficoltà, essendo conosciuto ed avendo la documentazione necessaria. Poco prima di Serpeum fu fermato nuovamente, questa volta da una pattuglia di soldati inglesi che con i poliziotti egiziani avevano istituito un nuovo posto di controllo.
Non si poteva passare oltre ai reticolati mobili messi di traverso come la loro jeep.. questi erano gli ordini. Il sergente britannico era irremovibile, anche di fronte ai lasciapassare del comando di difesa inglese di Ismailia. Hussein aveva capito il perché di quegli ordini: gli italiani erano riusciti a bloccare il canale. Un polizotto egiziano preso in disparte gli spiegò sommariamente, con il tipico gesticolare degli egiziani, ciò che era successo nella notte e suggerì di far telefonare dal vicino posto di guardia al comando di Ismailia.
Una lunga fila di autoambulanze militari proveniente da Suez venne fatta passare e Hussein poco dopo notò un aereo da ricognizione, un Lysander, che volava basso sul canale. Dopo mezz’ora il sergente inglese fece accostare di lato il reticolato che chiudeva la strada e Hussein poté prosegure sino alla stretta di Serapeum dove dall’ alto dell’argine vide tutto ciò che doveva vedere.
Quella mattina Francesco si svegliò con le ossa rotte ed i muscoli indolenziti, dopo la lunga nuotata notturna, a causa della scomodità del duro giaciglio di terra e canne che non aveva contribuito al suo riposo, fu svegliato da Bertone, il quale gli disse che verso le 05,00 aveva udito lontani echi di esplosioni.. “I nostri bauletti hanno funzionato bene“ disse soddisfatto, “adesso dobbiamo prepararci a tagliare la corda”, abbiamo appuntamento con l’ingegner Hussein sulla strada del canale tra le 11.00 e mezzogiorno. Dobbiamo avvicinarci alla strada che dista circa un chilometro e nasconderci in attesa del suo passaggio. Un rumore di foglie mosse fece volgere lo sguardo a Francesco che stiracchiandosi tentava di mettersi in piedi. Tra le folte canne si avvicinarono a carponi Sauro e Corti, seguiti da Kraue. “Bene, noi siamo pronti.. mi pare di sentire il rumore di un aereo in avvicinamento!“, disse allarmato Corti.
Francesco fece appena in tempo a desistere dal suo tentativo di stiracchiamento e si gettò a terra quando rombando passò basso uno strano e brutto aeroplano diretto a Nord.
Erano approdati dopo mezzanotte sulla sponda occidentale del piccolo Lago Amaro e non appena messo piede a terra tra la folta vegetazione, Bertone e Krause avevano messo in moto alla minima velocità l’MTL, bloccando il timone in maniera che si dirigesse verso Est, dopo aver attivato le cariche di autoaffondamento in modo che esplodessero dopo cinque ore. La distruzione del mezzo sarebbe avvenuta sulla sponda orientale del lago, in modo da disorientare le eventuali ricerche che si sarebbero inevitabilmente scatenate dopo l’attacco.
Poi tutti e quattro si erano concessi un po’ di riposo nascosti nel canneto, mentre
Bertone approfittando del buio si era spinto in ricognizione verso la strada. La missione era compiuta, sembrava con successo e Hussein lo avrebbe confermato, adesso non rimaneva che affidarsi a lui per tentare un allontanamento dalla zona ed un rientro in Italia.
Bertone sapeva che per De la Penne, Maceglia e Martellotta, dopo l’azione di Alessandria, era stato disposto un tentativo di recupero con un sommergibile che avrebbe atteso gli operatori al largo di Rashid, alla foce del Nilo, ma il piano evidentemente non aveva funzionato perché tutti erano stati catturati.
Comunque non ci sarebbe stato nessun sommergibile per i cinque del tappo. Bertone aveva saputo da Hussein che, raggiunto il Cairo, essi sarebbero stati aiutati ad attraversare il terribile Mare di Sabbia del Western Desert, nel tentativo di raggiungere le linee italo / tedesche che erano prossime ad El Alamein, cioé a meno di cento chilometri da Alessandria.
Quella mattina il Maggiore Osama Abd El Hack non si mosse dalla sua casa del Quartiere di Zamalek, ma attese nel suo studio un paio di telefonate che non voleva ricevere nel suo ufficio nel grande palazzo di piazza Tahir, sede del comando centrale della Polizia. Fece una doccia e più tardi, indossati anonimi ma eleganti abiti borghrsi, uscì di casa e raggiunse la non lontana sponda del Nilo sulla “CornicheOvest”, nei pressi del ponte che collega il quartiere di Zamalek con quello altrettanto elegante di Inbaba .
Sulla sponda del fiume erano ancorate numerose case galleggianti, eleganti villette anche a due piani, autentiche “house boats” adibite a club nautici o abitazioni di lusso.
Passeggiando lentamente sul lungofiume, all’ombra di grandi acacie fiorite, si guardò discretamente intorno, non c’era traffico, solo qualche carrozzella trainata da magri cavalli e pochi passanti. Il sole preannunciava il caldo del pomeriggio. Seguendo la siepe fiorita al lato della riva entrò rapidamente in un cancelletto che diede in apertura un lieve e discreto tintinnio di una campanella ad esso collegato, scendendo in un giardino pieno di fiori, imboccò una passerella che collegava la sponda ad una piccola ma graziosa casa galleggiante ancorata all’ ombra dei salici. Bussò tre volte.. poco dopo la porta si socchiuse ed un viso apparve: capelli biondi e sottili baffetti sotto i quali Osama vide un breve sorriso.. “Good morning mister Appler“, disse il maggiore Osama Abdel Hack infilandosi rapidamente nella porta semiaperta.“Guten tag!“, rispose l’oberleutnant John Appler.
Il tratto di strada tra Suez ed Ismailia costeggia per una decina di chilometri il grande ed il piccolo lago Amaro e diviso da essi da folti canneti e rade palme imbiancate dalla polvere, sollevata dallo scarso traffico che vi si svolge da quando la strada era stata chiusa al transito civile. Sul lato ovest costeggia il deserto pietroso. Hussein guidava a velocità moderata il suo vecchio camion e osservava con attenzione sul lato destro della strada i pali in legno della linea telefonica che si susseguivano ad intervalli regolari.
Infine, notò uno straccio grigio annodato al palo, a meno di due metri di altezza. Rallentando e dando due brevi colpi di clacson proseguì per un centinaio di metri e si fermò presso il palo successivo. Era solo sulla strada, cinque individui sbucarono di corsa dal canneto e salirono rapidamente sul pianale del camion nascondendosi sotto il telone che copriva cinque grossi cassoni. Hussein ingranò subito la prima e con uno stridulo gemito il veicolo ripartì verso Suez. Percorse poche migliaia di metri rallentò, voltò decisamente a destra per una pista che si inoltrava nel deserto.
Dopo un paio di chilometri di strada sconnessa e piena d i buche percorsi ad una velocità ridotta per non sollevare polvere, il camion si fermò. Spento il motore Hussein scese dalla cabina e inerpicatosi sul pianale sollevò il telone dal quale emerse la testa di Bertone. “Complimenti Comandante! Vengo ora dallo stretto di Serapeum ed il Canale è bloccato da quattro navi affondate“.
“Adesso possiamo fermarci un po’… vi ho portato qualche cosa da mangiare e posso darvi le istruzioni che ho avuto stamane per il proseguimento del vostro viaggio. Qui siamo un bel pezzo fuori dalle strade e possiamo stare tranquilli. “Grazie ingegnere“, disse per primo Bertone scendendo dal pianale, mentre gli altri concitatamente chiedevano ad Hussein particolari di ciò che aveva visto. La pista proseguiva rettilinea verso occidente in un paesaggio leggermente ondulato di sabbia fine, pietrisco e radi magri cespugli.
Ad oriente l’orizzonte ormai lontano era segnato dalla sottile e bassa linea verde di vegetazione che costeggiava i laghi ed il canale, si sedettero tutti a terra intorno ad Hussein e Bertone che seduti sul predellino del camion, esaminavano una carta geografica.
Tutti addentarono le “pite“ riempite di fave e uova fritte che l’ingegnere aveva estratto da un cesto di paglia. A Francesco questo cibo ricordava molto le piadine romagnole… con la differenza che le pite, il comune pane egiziano a forma di disco, potevano aprirsi come una tasca e potevano essere imbottite con carne, verdure e quanto altro…
“Tra una ventina di chilometri incroceremo la strada che da Ismailia porta al Cairo”. Poi vi sono altri centoventi chilometri e credo che arriveremo verso mezzanotte“, disse Hussein, poi proseguì: “Non spaventatevi se alla periferia del Cairo, ultimo posto di blocco, sarete presi in consegna dalla polizia egiziana. In questo caso sono degli amici che vi nasconderanno e vi faranno poi proseguire“.
“E’ probabile che durante il percorso vi siano altri posti di controllo egiziani o inglesi e quindi ad un mio segnale dovete infilarvi nei cassoni che sono sul pianale. Sono cinque cassoni per i motori Caterpillar che normalmente portiamo al Cairo per le revisioni o riparazioni e che ho attrezzato con dei pagliericci, così da chiudere i coperchi stando all’ interno“.
Dopo essersi scolati un paio di bottiglie di the alla menta, su consiglio di Hussein, i cinque allineati sul bordo della pista scaricarono le loro vesciche….
“Chi non p….a in compagnia …….”, i soliti lazzi da marinai conclusero la sosta; anche Krause disse ridendo qualcosa, ma nessuno capì, ormai non aveva più importanza ed il giovane pilota tedesco faceva parte della banda dei “cinque del tappo“.
Fine quarta puntata
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!