A proposito di un “100 nodi”: una barca idrovolante?
Ho concluso l’intervista fattami da Antonio Soccol e pubblicata nel fascicolo di febbraio di “Barche” con l’ipotesi che qualcuno, alla luce delle proposte avanzate per realizzare uno scafo di grandi dimensioni capace di filare 100 nodi, possa chiedermi e chiedersi se per caso non stiamo reinventando l’idrovolante.
Così mi sono ritornate alla mente le poche ma basilari nozioni di aerodinamica che fanno parte del conseguimento del brevetto di pilota di aeroplano.
Si era in aula, seduti sui banchi, con un maestro ed una lavagna nera innanzi a noi “pinguini”. Era scontato, in partenza, che l’istruttore chiedesse al più sprovveduto degli allievi di “andare in hangar e di farsi dare, per cortesia, dal capo motorista dell’Aereo Club, un mazzetto di filetti fluidi…”. Così cominciava la lezione di teoria dell’aerodinamica applicata ai piccoli, pazienti ma affidabili aerei del Club e, a distanza di quasi sessanta anni, credo che quella teoria non sia cambiata di molto.
Un’ala genera il sostentamento (P) non solo grazie alla sua incidenza nel flusso dell’aria, ma principalmente per la pressione provocata dallo scorrimento dei “filetti fluidi” sul suo dorso.
Tutti sappiamo, più o meno, che genere di profilo ha un’ala: un dorso arcuato e più pieno che il suo ventre o corda.
“Sonny” Levi si meraviglia spesso che gli attuali catamarani offshore non sfruttino questo elementare principio di fisica. Quasi tutti quegli scafi hanno, infatti, una coperta assolutamente piatta e il sostentamento è dovuto solo all’effetto “ram”, cioè alla pressione che si crea nel tunnel tra i due scafi, mentre un profilo alare sul ponte di collegamento tra i due galleggianti, aggiungerebbe un considerevole effetto “wing” di sostentamento. Quindi “minor” peso da trasportare e di conseguenza maggior velocità. Evidentemente, in alcuni progettisti, le cognizioni di aerodinamica sono nettamente inferiori a quelle di idrodinamica.
L’effetto di portanza di un’ala era per me, drammaticamente evidente, quando nel mio aeroplano risultava associato all’effetto “ram” (fenomeno che oggi possiamo chiamare anche effetto suolo o “ground effect”).
Per spiegarmi: quando ero alle prime armi come allievo pilota e mi accingevo a riportare a terra il piccolo FL3 sul prato dell’allora aeroporto dell’Urbe, arrivavo in finale e, a un paio di metri di altezza da terra, toglievo motore in attesa del “bum” di contatto delle ruote mentre tiravo a me la cloche per far perdere ulteriore velocità al velivolo (75 km/h in atterraggio). Ebbene succedeva che, anzichè i previsti 150 metri di prato, mi mangiavo tutta la lunghezza del campo prima di ri-congiungermi alla madre terra!
L’FL3 (con motore da 75 cv, senza freni alle ruote e senza flaps ) “galleggiava” con i suoi 500 kg (me compreso), sostenuto dalla grande ala bassa di 15 mq., a causa della compressione dell’aria che si creava tra l’ala e la pista. Così, pedalando a destra e sinistra, mentre il filare di pioppi alla fine del campo si avvicinava sempre di più, riducevo ulteriormente la velocità e con un rumoroso schianto, mettevo le ruote a terra e terminavo il mio felice volo.
Certo: il piccolo FL3 perdonava tutto, anche le mie scomposte imbardate. Per tutto questo credo che, alle attuali velocità di oltre sessanta/settanta nodi, in mare, si potrebbero realizzare importanti e significative riduzioni della superficie bagnata e quindi della resistenza di carena con adatte superfici di sostentamento aerodinamico.
E credo, altresì, che il monocarena sia ormai al limite delle sue possibilità in fatto di velocità.
E’ necessario proporre, quindi, nuove valide geometrie per poter dare “ali” alle imbarcazioni, anche se corriamo il rischio di proporre forme nuove non in linea con l’evoluzione di un mal inteso concetto di design.
Nello studio prioritario dell’obiettivo “cento nodi”, la logica geometria dell’ “Arcidiavolo” dal punto di vista aerodinamico potrebbe presentare uno squilibrio di assetto qualora fosse spinta ad una velocità superiore a quella ottenuta durante il suo primato mondiale realizzato sulla base di Sarnico (velocità max stabilita: 67,694 nodi =125,447 km/h ).
Con la sua ala sostenuta dai tre galleggianti, o meglio: con i tre galleggianti “appesi” all’ala, è subito evidente che il dorso dell’ala ha un Centro di Portanza (P) molto avanzato rispetto al suo delta (?) che possiamo stimare posizionato tra i due posti dell’equipaggio. Quindi, considerato il profilo dell’ala, essi sono molto distanti l’uno dall’altro mentre, aerodinamicamente parlando, dovrebbero essere quasi coincidenti o vicini. Ciò può essere spiegato dalla necessità di avere un P in corrispondenza del transom dei due galleggianti anteriori per alleggerire al massimo il carico idrodinamico ed esaltarne la sola funzione di stabilizzazione.
Elemento che presuppone una accurata analisi progettuale dei carichi e delle sollecitazione aereo e idrodinamiche, analisi che, vedi caso, è anche la base per la progettazione di un idrovolante!
E’ sicuro l’amico Soccol (padre spirituale dell’ “Arcidiavolo”) che, se a Sarnico si fossero superati i 67,694 nodi, quell’imbarcazione “non” sarebbe decollata? In ultima analisi, partendo del principio che l’aerodinamica è un elemento primario nel progetto “100 nodi”, l’aspetto dell’imbarcazione (se riterremo di chiamarla ancora così) potrebbe variare sensibilmente dagli schermi iniziali proposti.
Comunque sia, è mia opinione che una progettazione pragmatica abbia sempre in sé tutti gli elementi per soddisfare il naturale senso di equilibrio estetico dell’uomo.
Al momento della determinazione della posizione del P e del ?, nello studio di un ipotetico scafo da 100 nodi, il baricentro potrebbe essere nell’identica posizione che aveva su “Arcidiavolo”, sempre se si adottasse la stessa geometria, ma la portanza P dovrebbe essere un po’ a poppavia di ?. Pertanto la piattaforma alare dovrebbe essere ridotta rispetto alla lunghezza fuoritutto, come nello schema A, ma sempre con una superficie aerodinamica di controllo in posizione anteriore come in un “canard”. Probabilmente, così facendo, il profilo alare non risulterà l’ideale a causa delle sovrastrutture e dei volumi interni che si prolungheranno sino al bordo di uscita B.
In tal caso si potrà avere una notevole riduzione dell’area (volume) di pressione D, con conseguente perdita di portanza P. Ma si potrebbe ipotizzare l’aspirazione delle gas turbine di spinta per contrastare questa area (volume) D di sovrapressione.
Uno sviluppo di una carena a triciclo rovesciato sulla lunghezza di 43 metri, ipotizzato da Franco Harrauer per controllare una velocità di progetto di 100 nodi.
Un “artistic impression” immaginata da Franco Harrauer di come potrebbe essere uno scafo da circa 40 metri di lunghezza con una carena a Y (triciclo rovesciato). Data l’alta velocità risulta inevitabile non avere, in assetto di marcia, superfici aperte (pozzetti, prendisole eccetera) che creerebbero fortissime turbolenze.
Articolo apparso sulla rivista Barche del mese di marzo 2008 e pubblicato per g.c. dell’autore
Altomareblu – Tutti i diritti riservati Note Legali
si sono d’accordo che si deve ridurre al minimo la superfice bagnata per avere meno attrito con l’acqua, ma andando oltre il consentito si rischia di non avere più la possibilita di governare in sicurezza, se vogliamo superare i 100 nodi con un mono carena io sarei propenso di lavorare sulle superfici che stanno a contatto con l’aria.
Cordiali saluti,
Pietro