Sommergibile Nessie – 1a puntata
di Franco Harrauer
La Spezia: notte del 29 Aprile 1945
Il piccolo gozzo di legno fendeva le acque tranquille del Golfo di La Spezia illuminato dalla luna piena sotto la spinta dei quattro remi manovrati con energia da due giovani uomini, il suo moto di beccheggio era il ritmo della vogata. Sergio remava in piedi e Augusto di spalle seduto sul banco di prora. Da poco avevano lasciato silenziosamente il piccolo molo di Portovenere e stavano doppiando Punta di Torre Scola, nella vicina isola Palmaria. La rada della Spezia spiccava in tutti i suoi contorni stranamente illuminata oltre che dalla luna, anche da tutte le luci della città e dei borghi vicini. Dopo anni di oscuramento di guerra era tornata la luce e le truppe americane, entrate in città alcuni giorni prima, avevano portato la sensazione della fine della guerra. I tedeschi avevano ritirato le loro forze verso Genova oltre l’Appennino, ripiegando su una nuova linea di resistenza nella valle del Po, preludio di una estrema lotta sui contrafforti alpini.
Il completo dominio del cielo da parte dell’aviazione alleata rendeva insignificante il pericolo di incursioni aeree, permettendo alle prime navi americane di entrare tranquillamente nel Golfo per scaricare rifornimenti alle truppe in rapida avanzata, ancorandosi prudentemente fuori dalla diga foranea, in attesa dello sminamento del porto e dell’apertura dei varchi ostruiti da navi affondate dalle forze tedesche in ritirata. Da pochi giorni la popolazione aveva ripreso la vita normale rientrando dalle campagne ove si era rifugiata, cercando di ricostruirsi un’esistenza tra le macerie della città.
I pescatori avevano varato le barche rimaste inattive da tempo, salpando di notte per gettare le reti alla luce delle lampare… per loro la guerra era finita, ma non per Sergio ed Augusto. Il Tenente del Genio Navale Sergio Pucciarini e il Tenente di Vascello Augusto Jacobacci, doppiata la punta di torre Scola, rallentarono il ritmo ai remi ed accostarono verso la riva rocciosa, che in quel tratto di costa dell’isola formava degli strapiombi. Per Sergio ed Augusto piloti dei mezzi d’assalto della X Flottiglia MAS la guerra continuava. Dopo il ritiro degli ultimi reparti della Marina Repubblicana con il Kriegsmarine ed il minamento delle istallazioni militari, si erano nascosti in un casale di campagna sopra Portovenere dove erano vissuti in isolamento per alcuni giorni in attesa di sferrare l’attacco per il quale si erano sottoposti a molteplici severe e dure esercitazioni.
Quella sera, scesi a notte fonda sino al porticciolo, avevano preso il piccolo gozzo lasciato all’ormeggio in precedenza e nei dimessi abiti dei pescatori, ma con i gradi militari sulle maniche rimboccate sulle tute di lavoro della Marina, erano pronti per l’azione. Sergio con un’occhiata rapida valutò la distanza ed il carico di uno dei due mercantili tipo “Liberty”, che all’ancora presso la diga foranea scaricavano attrezzature militari su dei mezzi da sbarco a loro affiancati. Le navi erano completamente illuminate, mentre le barche dei pescatori approfittavano della forte luce per attirare i pesci nelle loro reti. Ripreso il ritmo ai remi proseguirono ancora per un centinaio di metri rasentando le rocce a picco della Palmaria, poi procedendo d’abbrivio girarono con alcuni colpi di remo attorno ad un grande scoglio che si ergeva come una pinna dal mare. Ormai potevano toccare con le mani la roccia e si incunearono nell’angusto spazio sino alla imboccatura di una profonda fenditura che in pochi metri di larghezza si inoltrava nella parete.
La volta di pietra si riduceva in altezza ed entrambi dovettero abbassare il capo per poter avanzare nell’oscurità. Sergio a bassa voce innescando l’eco sulle pareti della grotta disse ad Augusto:“Toma, tonato!“ ed alla fioca luce di un fiammifero fece seguito quella un po’ più forte di una lampada a benzina, sostenuta da un uomo in piedi su un piccolo ripiano, a pochi centimetri dall’acqua tranquilla che disse: “Finalmente Signor Tenente, siamo pronti!“. Una seconda figura si delineò nell’ombra ed era anch’essa vestita con una muta in gomma nera. Gli occhi pian piano si abituarono a quella luce che con il movimento delle lampade creava veloci ombre.
Al centro della caverna nel piccolo specchio d’acqua trasparente, due giganteschi siluri neri della lunghezza di circa otto metri galleggiavano affiancati e trattenuti da un paio di cime legate a spuntoni di roccia, tanto da sembrare due grandi cetacei addormentati. Sulla piccola piattaforma rocciosa al loro fianco erano ammucchiate casse con attrezzature, bombole e vari materiali tra i quali un telefono da campo. Pucciarini e Jacobacci ancorarono la loro piccola imbarcazione e saltarono a terra nella loro ultima “base segreta“. Era stata un’idea di Pucciarini.. nella primavera del 1945 il fronte della linea gotica stava cedendo e ben presto le linee di resistenza avrebbero sorpassato La Spezia, ultima base a mare della “X MAS“ e della agonizzante Repubblica Sociale Italiana. Dopo non ci sarebbe stata più l’occasione di attaccare il nemico sul mare, rimaneva solo la resa con onore… Perché non attaccare con gli ultimi mezzi rimasti e destinati all’autodistruzione, le navi nemiche che si sarebbero a breve ancorate nella rada de La Spezia?
Fu così che, quando il 22 aprile la base dei mezzi subacquei di Punta Castagna, all’estremità occidentale del golfo, fu smobilitata e le istallazioni furono fatte saltare, i due piloti con i loro secondi portarono due siluri semoventi tipo SSB e le loro attrezzature di appoggio in una piccola grotta marina che avevano scoperto durante le loro esercitazioni sulla costa orientale della Palmaria. Approfittando delle vecchie linee telefoniche che collegavano le postazioni difensive dell’isola, avevano fatto deviare una linea con un filo volante dal vecchio semaforo dove un marinaio della “X MAS” sarebbe rimasto al suo posto di osservazione per segnalare l’arrivo delle navi agli assaltatori, evento verificatosi nel pomeriggio di quel giorno, quando quattro navi americane erano entrate nel golfo e si erano ancorate iniziando le operazioni di scarico. Anche i due giovani ufficiali le avevano viste dal loro rifugio osservatorio sopra Portovenere e non appena scese l’oscurità, si erano affrettati a raggiungere la loro base. .
I semoventi tipo SSB erano l’ultimo perfezionamento dei famosi SLC che tanti successi avevano colto durante la guerra ad Alessandria e Gibilterra… si trattava di un semovente subacqueo nel quale, a differenza degli SLC, gli operatori, sempre muniti di autorespiratori ad ossigeno quindi a circuito chiuso anziché a cavallo, stavano all’interno del mezzo in un abitacolo sempre aperto ma protetto e quindi potevano sostenere una maggior velocità. Il progetto fu elaborato su direttive della X, dal Capitano del G.N. Travaglini e il prototipo fu costruito nella tarda primavera del 43 dalla CABI ove l’ing. Cattaneo di Milano costruiva con Baglietto i barchini siluranti ed esplosivi.
All’atto dell’armistizio dell’8 settembre 1943, erano operativi presso la base della Spezia tre SSB dei quali uno era smontato per essere portato clandestinamente nella base segreta stabilita nella stiva del piroscafo “Olterra“ ad Algesiras nella baia di fronte a Gibilterra. L’ SSB (Siluro San Bartolomeo), dal nome dell’officina armi subacquee della Marina Militare che si trovava in località S. Bartolomeo, poteva essere dotato di doppia testa esplosiva per un totale di 400 + 300 Kg di esplosivo ed in tal modo la lunghezza totale raggiungeva gli otto metri.
La procedura di impiego era analoga a quella degli SLC. Arrivati in immersione sotto la nave nemica, gli operatori avrebbero staccato la testa esplosiva e l’avrebbero sospesa sotto la chiglia mediante una cima tesa tra le due alette di rollio, presenti in quasi tutte le navi. Una volta eseguita l’operazione ed avviata la spoletta ad orologeria, questa procedura sarebbe stata ripetuta sotto il successivo obiettivo. Il motore elettrico da 5 Kw permetteva una velocità di quattro nodi ed il peso totale superava le due tonnellate.
Sergio e Augusto si tolsero le incerate e i maglioni da pescatori, per indossare sopra la tuta da lavoro, aiutati dai due marinai, la pesante muta in tela gommata. Finita la laboriosa vestizione indossarono i respiratori, il cui sacco polmone era collegato alla maschera subacquea mediante un tubo corrugato, la cintura con i piombi di zavorra ed il pugnale. Dopo una breve esposizione del piano di attacco e le ultime raccomandazioni d’uso, Pucciarini, prese il piccolo stendardo del reparto subacqueo della “X MAS”, un teschio con una rosa tra i denti, lo piegò e lo mise sotto il sacco polmone. Bonato e Toma, i due “secondi“ erano già scesi in acqua accanto agli SSB e li scioglievano dagli ormeggi. Jacobacci, in acqua, faceva uscire 1’aria rimasta nella muta attraverso il collare di gomma che aveva allentato con le dita. Pucciarini fu l’ultimo ad entrare in acqua. Ora erano tutti e quattro a bordo dei loro mezzi in affioramento, pronti ad uscire cautamente dalla caverna e mentre Jaconacci per primo indossava la maschera, si udì il gracidare insistente del telefono da campo ampliato dalla bassa volta rocciosa. Pucciarini disse al suo “secondo”: “Vai a vedere se ci sono novità dell’ultima ora“. Bonato rapidamente raggiunse la riva e grondante d’acqua, afferrò il microfono rimanendo alcuni secondi in ascolto. Poi con voce bassa e rotta dall’emozione disse: “Signor Tenente, ci segnalano che l’osservatorio ha intercettato un messaggio in chiaro PAPA (precedenza assoluta su precedenza) nel quale si dice che poche ore fa è stato firmato l’armistizio… La guerra è finita!
Nel 1968 lavoravo con la SAI Societa’ Aereonautica Italiana ing. Ambrosini, per la progettazione di imbarcazioni in lega leggera, lavorazione nella quale la SAI eccelleva per l’esperienza acquisita nel periodo bellico con la costruzione di aerei da caccia. Ad oltre trenta anni di distanza, con il placet degli interessati, posso raccontare e immaginare un episodio che in qualche modo mi lega con quanto avvenne in quella notte del 29 Aprile del 1945, permettendomi di conoscere il Tenente del Genio Navale, ingegnere Sergio Pucciarini, un simpatico e tranquillo signore che in quella notte, non per colpa sua, aveva mancato la sua grande occasione.
Pucciarini mi raccontò che quella notte portò con Jacobacci in acque profonde i due SSB e li affondò consegnandosi prigioniero agli americani, ma la grande occasione doveva essere rimasta nel cuore dell’ingegnere perché nel dopoguerra fondò a Livorno la COSMOS, (Costruzione Motoscafi Sottomarini a Livorno). A quell’epoca la SAI ing. Ambrosini, nel suo stabilimento di Passignano sul Trasimeno costruiva su mio progetto il “Blue Shark “, un piccolo sport-fisherman di 8 metri e 80 cm in lega leggera, che fu esposto al Salone Nautico di Genova, dove vinse il premio “Mondo Sommerso”, attirando l’attenzione dei militari per i quali la SAI stava costruendo imbarcazioni per il Genio Pontieri ed altri natanti speciali.
La SAI era un moderno complesso che, forte delle tecnologie aeronautiche, come la costruzione su licenza dei caccia Macchi 200 e 205, successivamente produceva componenti per l’elettronica, missilistica e difesa in collaborazione con la OTO Melara, oltre ad aerei da turismo. Il lungo periodo di lavoro e collaborazione con la SAI è stato per me uno dei più ricchi di esperienze, nuovi apprendimenti e conoscenze. La poliedrica SAI era un po’ come il miele per le mosche.. un richiamo irresistibile per geni e gli inventori che guadagnavano facilmente la fiducia dell’ ing. Ambrosini con idee strane, comunque nuove e proiettate nel futuro.
Un giorno arrivò l’ingegner Glauco Partel, un simpatico triestino esperto di missilistica, con il progetto di un razzo propulso da una misteriosa miscela messa a punto dall’inventore stesso. Glauco trovò subito terreno fertile ed ampia collaborazione per realizzare la sua idea. Furono costruiti un banco prova e un paio di prototipi di missile di circa tre metri di lunghezza, con relativa rampa di lancio. Le prime prove al banco si svolsero in assoluta riservatezza, proprio a causa della misteriosa miscela propellente e notai che il razzo veniva riempito d’acqua prima dell’introduzione di una grande fiala di vetro, piena di un sinistro liquido verdastro, fiale che Glauco custodiva gelosamente come reliquie… Il procedimento doveva essere il seguente: l’acqua a contatto con il liquido verdastro reagiva vaporizzandosi sino a far saltare il tappo dell’ugello di scarico, in modo da generare una forte spinta propulsiva. Uno dei punti da sperimentare era proprio il tappo. Chiarito il principio di funzionamento del missile, battezzato “grillo“, ma non la natura del liquido misterioso, fummo tutti pronti per il giorno del lancio.
Il missile si ergeva maestoso sulla sua rampa di lancio, inclinato in direzione del lago prospiciente lo stabilimento, le cui maestranze partecipavano allo storico evento. La gittata prevista da Partel, dopo interminabili calcoli fatti sul suo grande regolo calcolatore era di 15500 metri, per non superare prudentemente il diametro del lago. Ci allontanammo tutti a distanza di sicurezza, meno Glauco che dietro al suo razzo diede uno strattone ad una funicella che partiva dal “tappo“. Lo spago si spezzò e rimase tristemente penzolante dalla mano del novello Von Braun, mormorando una irripetibile frase in dialetto triestino. Dopo una frettolosa riparazione del tecnologico apparato ed un nuovo strappo, iniziò il conto alla rovescia: “meno 5 – 4 – 3 – 2 – 1 – 0! Eravamo tutti con gli indici infilati nelle orecchie, ma non accadde nulla… Dopo una quindicina di minuti di trepida e silenziosa attesa, Partel si avvicinò all’ordigno con passo deciso, sacramentando a denti stretti come un turco… Era seguito prudentemente dai più coraggiosi, tra i quali per buon ultimo il sottoscritto. Dopo un po’ eravamo tutti tranquilli attorno alla rampa, facendo le più disparate ipotesi sul mancato decollo. Intanto uno strano e sinistro gorgoglio, proveniente dall’infernale aggeggio iniziava a farsi sentire, prima appena percettibile, poi sempre più forte… fu il panico. Ci guardammo tutti in faccia, poi fu un fuggi fuggi generale… Troppo tardi, il razzo partì all’improvviso con un sibilo lacerante mentre tutti noi venivamo investiti da un tornado di vapori ammoniacali.
Diradatasi la nebbia tutti guardarono in alto con occhi lacrimanti non per l’emozione, ma a causa della grande scia di vapori che con elegante traettoria si era innalzata nel cielo e che perdemmo di vista in direzione sud, mentre Partel tra il felice e il costernato consultava il suo grande regolo calcolatore sotto lo sguardo preoccupato dell’ ingegner Angelo Ambrosini che per inciso, avevo conosciuto anni addietro. Forse alcuni ricorderanno il nome del velivolo “l’Angelo dei Bimbi“ che portò in Sud America la voce dei mutilatini di Don Gnocchi alcuni anni prima, quando assieme all’amico Piero, per comperare un piccolo aereo, il “rondone F 4 prodotto dalla SAI, firmammo un pacco di cambiali dal peso di alcuni chilogrammi… ma questa è un’altra storia.
Proprio il piccolo sport – fisherman BlueShark” mi diede l’occasione di conoscere il Maggiore Miglioranza, del reparto incursori paracadutisti dell’esercito. Infatti, per questa specialità, allestimmo un paio di esemplari con radar di ricerca, sonar e camera di decompressione Galeazzi.
La progettazione di mezzi per le forze armate e l’accesso a settori dove avvenivano studi, esperimenti e costruzioni di tipo classificato, mi diede il temporanea diritto al NOS da parte dei servizi di sicurezza militare. Suppongo che, di riflesso a questa qualifica, alcuni anni dopo fui avvicinato da Miglioranza che conosceva la mia esperienza nel campo delle imbarcazioni velici e per la mia qualifica NOS, proponendomi una consulenza a carattere progettuale con una non bene identificata industria che lavorava in modo estremamente discreto per le Marine Militari di diversi paesi e della quale Miglioranza era consulente.
Dopo una serie di incontri preliminari che avevano il sapore di interrogatori, più che colloqui, che si svolsero nelle località più disparate, presso la SAI negli uffici di Passignano, La Spezia e Roma, rispettivamente in un caffè di via Chiodo e di via Veneto, fui finalmente “portato“ in uno stabilimento dell’entroterra livornese. Tutto questo alone di segretezza e mistero si risolse tempo dopo in un curioso episodio tipicamente italiano. Di passaggio a Livorno e avendo necessità di consultare alcuni tecnici del misterioso stabilimento, non ricordavo più la strada per arrivarci. Dopo aver girato in lungo e in largo, nei pressi della stazione, unico punto di riferimento certo, mi feci coraggio e con strani giri di parole, tra il dire e il non dire, chiesi indicazioni ad un gruppo di persone sedute ai tavoli di un bar. Ovviamente, dato il clima da 007, non volevo “sbottonarmi troppo” e le vaghe e sfumate richieste che davo ai miei interlocutori, circa 1’attività dello stabilimento, non aiutavano l’indagine. La situazione era imbarazzante e alla fine, spazientito, azzardai a mezza voce un nome “……“ Tutti i volti all’unisono si illuminarono… ma perché non l’ha detto subito? Quel matto dell’ingegnere che costruisce i sottomarini è qui dietro la stazione.. Comunque, alla COSMOS iniziai con Renato Levi la progettazione di una delle più fantastiche ed incredibili imbarcazioni che siano state fino ad orarealizzate. La Cosmos produceva mezzi d’assalto del tipo “SDW Class” e “CE 2 F X 100”, che sembravano usciti di fresco dalla Cabi Cattaneo o dall’Officina di S. Bartolomeo e sommergibili da 70 tonnellate, della rispettabile lunghezza di 75 metri per il trasporto di questi mezzi e di incursori subacquei. La Cosmos forniva questi mezzi alla Cina Nazionalista, ora Taiwan, al Pakistan, alla Columbia e per non far torto a nessuno, alla Marina Israeliana, ex cliente della CABI ed a quella Egiziana.
L’obiettivo di Pucciarini era quello di realizzare un “DSV” o mezzo di penetrazione occulta, per effettuare delle ricognizioni o incursioni, in grado di navigare a 40 nodi in avvicinamento, con capacità di trasporto di sei incursori, più due piloti.
Le caratteristiche subacquee dovevano essere:
- velocità 6/8 nodi
- autonomia di 4 ore
- profondità di collaudo 30 metri
- L’autonomia in superficie non inferiore alle 250 miglia e ciò, oltre ad altri requisiti, ci lasciava supporre che le ricognizioni avessero come obiettivo le basi in caverna delle motosiluranti missilistiche jugoslave, sulle isole del litorale della Dalmazia… a questa mia inopportuna domanda, gli interessati “glissarono” con diplomatico silenzio.
Discutemmo a lungo sui vari aspetti che potevano insorgere nella realizzazione di questo mezzo anticonvenzionale ed arrivammo così all’ipotesi di un “Wet Offshore”. Infatti, come spesso avemmo occasione di constatare contrariamente ai postulati matematici, “invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia”, è più facile far andare sott’acqua un motoscafo offshore a 7 nodi, che un sottomarino in superficie a 40 nodi. Per suggerimento di Renato Levi nacque cosi “Nessie“, che è il nomignolo del Mostro del lago scozzese di Ness.. Un vero mostro di 16 metri in lega leggera, con eliche di superficie azionate da due motori BPM o IF da 500 CV cadauno, sistemati in un contenitore stagno munito di “snorkel“ e da un motore elettrico in bagno d’olio azionante un’elica intubata a forte diametro e basso numero di giri e serbatoi carburante in tessuto gommato. L’equipaggio, anch’esso in ambiente wet, era munito di autorespiratori ARO connessi anche ad un impianto autonomo di bordo. Il mezzo era completamente allagabile, ma con un galleggiamento leggermente negativo, dotato di casse di assetto e compenso, oltre a riserve d’aria compressa e pompe per esaurimento e travaso. Il drenaggio del mezzo in affioramento avveniva dinamicamente, quando i motori endotermici, muniti di grandi silenziatori, facevano entrare lo scafo in planata.
Nessie in quegli anni, non superò la fase di progetto preliminare. La SAI incaricata della costruzione di un prototipo in scala 1:2, per sperimentare le dinamiche di immersione e di emersione, dopo la morte dell’Ing. Ambrosini, versava in gravi crisi finanziarie ed organizzative. La Cosmos era oberata di lavoro e forse il committente, in quel momento non aveva più interesse a quell’impiego così specifico.
Il “progetto Nessie” mi diede l’occasione di collaborare e di conoscere uomini eccezionali dei quali avevo sentito parlare, avendo letto delle loro imprese in guerra, ma devo evidenziare che il rapporto personale nel lavoro li rivelava di una modestia ed umiltà pari al loro valore ed alla loro professionalità..
Il Comandante De la Penne, medaglia d’oro per aver affondato ad Alessandria una corazzata con il suo mezzo d’assalto subacqueo, non mancò mai di darmi preziosi suggerimenti, oppure di venire al Salone di Genova, dove sapeva di trovarmi, per parlarmi dei problemi di Nessie e di quelli del motore da 5 CV (che non funzionava) del suo piccolo gozzo, che teneva ormeggiato a Portofino sotto il costone roccioso della piccola chiesa di S. Giorgio. Ora riposa nel piccolo cimitero accanto alla chiesa e ogni volta che mi trovo a Portofino non manco mai di andare a trovare un vecchio amico.
Ricordo con grande stima ed affetto Roberto Frassetto, altra medaglia d’oro.. l’uomo che per primo si lanciò con il suo barchino esplosivo contro gli sbarramenti del porto di La Valletta a Malta, per aprire il varco ai suoi compagni.. Roberto nel dopoguerra si occupava di oceanografia al “Woods Hole Institute” e poi al CNR di Venezia aveva collaborato con me e con Thor Haierdhal, il barbone del Koon Tiki, nel progetto di allestimento della nave oceanografica “GR First”, da me progettata e costruita a Viareggio da Codecasa. Con lui effettuai un paio di uscite in mare a La Spezia, con il pontone Gis, per mettere a punto e ancorare fuori della Palmaria una boa oceanografica per conto del Saclant.
Ambrosini, Pucciarini, De la Penne, Frassetto:
- Ambrosini, che prima dell’Angelo dei Bimbi, faceva partire di notte dal vecchio aeroporto di Castiglion de Lago i suoi vecchi aerei per portare clandestinamente gli ebrei nel loro “exodus“ verso la Palestina e che dava retta ai sogni dei progettisti navali ed a quelli degli scienziati missilistici.
- Pucciarini che con Jacobacci giocava una partita ormai persa con il suo indomito senso del dovere ed il disinvolto senso degli affari
- De la Penne, con la sua goliardica ironia…
- Frassetto e Ambrosini con i suoi sogni…
La conoscenza di questi quotidiani “antieroi“ ha avuto per me un profondo significato che trascende dalla loro immagine ufficiale. Mi ha incuriosito ed ho sempre ricercato i particolari del lato umano e tecnico di queste imprese del tempo di guerra, delle quali ormai si è impadronita la storia. I miei colloqui con De la Penne, Frassetto e Pucciarini, prescindendo da questi aspetti ormai conosciuti, vertevano quasi sempre su questioni marginali, su dettagli che io ritengo sempre più importanti. De la Penne mi disse che durante il forzamento di Alessandria, essendo in anticipo sulla tabella di marcia, emerse e si fermò a poche centinaia di metri dal faro di Ras El Tin e in affioramento, sul mare tranquillo fece colazione con i dolci ed i biscotti che portava nel tubo porta viveri. Poi, per calmare l’arsura della respirazione ad ossigeno, si scolò una intera bottiglia di acqua minerale. Più tardi, già in vista delle ostruzioni retali, in immersione a dieci metri, sotto lo stimolo dei liquidi bevuti, della pressione e del freddo, gli si presentò la “drammatica” necessità di scaricare il suo liquido organico ed impossibilitato a farlo, lo scaricò deviandolo nel calzone sinistro della muta gommata che lo rivestiva.
Alla mia legittima curiosità circa la scelta del calzone, l’Ammiraglio Marchese Luigi Durand De la Penne mi disse ridendo che in fondo a quello destro, come tutti gli operatori de mezzi d’assalto, teneva nella tasca della tuta regolamentare i documenti comprovanti la qualifica di ufficiale della Regia Marina Italiana. Roberto Frassetto mi raccontò che nella notte del 26 luglio del 41, nell’angusto posto di pilotaggio del suo barchino esplosivo, durante la navigazione a rimorchio di una silurante, giunti verso l’obiettivo di Malta, si addormentò riposando tranquillamente per un paio d’ore… “Mai dormito più scomodo” concluse. Quali sentimenti albergavano nell’animo di questi uomini? Quali emozioni, preoccupazioni, ricordi? Un eroe ha fame? Quando deve fare la pipì, pensa alla Patria? La storiografia ufficiale e la retorica, raffigura questi uomini come distanti dalle cose terrene, ma sono questi episodi marginali piccoli e sconosciuti che dovrebbero essere rivelati per rendere gli eroi un po’ meno eroi, per avvicinarli più a noi e farci comprendere cose e sentimenti nascosti per comodità in fondo al nostro animo e soprattutto per esorcizzare quella malattia endemica che colpisce periodicamente l’umanità: la guerra! In realtà alcuni anni dopo, Nessie fu realmente costruito ed impiegato. Questa è la sua storia fino al momento nel quale lo vidi uscire su un semirimorchio targato “MM “ dal portone dello stabilimento SAI di Passignano sul Trasimeno!
La costruzione di Nessie
Il 1970 fu per me un anno un po’ agitato… avevo in costruzione in vari cantieri italiani cinque imbarcazioni da seguire, ma quasi settimanalmente passavo a Passignano facendo tappa a Livorno. Alla SAI portavo avanti lo studio del catamarano “Squid Bone“, un cat dal quale sarebbe poi derivato l’Alia di 25 metri, poi costruito a Tacoma negli USA. Inoltre seguivo la costruzione del secondo esemplare del “Tiger Shark“. Ma quando finiva la parte ufficiale del mio lavoro, mi recavo all’estremità occidentale dello stabilimento ove in riva al Trasimeno vi era un grande capannone, un vecchio hangar molto isolato e ben chiuso. Per quanto fossi ben conosciuto per entrare dovevo tirar fuori il tesserino che mi aveva aperto le porte della Cosmos a Livorno. Il progetto del Dsv era stato completato e la costruzione era stata ripresa segretamente con grande rapidità, saltando la sperimentazione di un dimostratore in scala per le dinamiche di immersione. La ripresa del progetto era dovuta all’acuirsi della tensione internazionale e alla curiosità di vedere oltre e sotto la Cortina di Ferro.
Nel capannone vi era lo scalo lungo quindici metri necessario per la costruzione di “Nessie” che, anche senza fasciame, rivelava alla luce lampeggiante delle saldatrici le sue eleganti e profilatissime forme. Al suo fianco era stata costruita una grande vasca di identica lunghezza dove collocavamo tutti i sistemi per il loro collaudo, cioè il complesso stagno dei motori termici e quello delle batterie. Avevamo già collaudato il grande contenitore per i due BPM con il sistema di aspirazione snorkel e quello di scarico con i silenziatori. I due motori funzionavano molto bene nella vasca, ma l’inconveniente si verificava quando, fermati i motori e chiusi i valvoloni di ammissione e scarico, questi cominciavano ad irradiare il calore residuo con conseguente aumento della pressione interna del contenitore che infine decidemmo di scaricare all’esterno con una valvola appositamente tarata. Ma il fenomeno inverso si verificava poi in fase di raffreddamento, quando per effetto della contrazione del volume d’aria si verificava una depressione che aspirava acqua dall’esterno se i condotti non erano ben serrati ed i valvoloni non erano a tenuta perfetta.
Studiammo un sistema di immissione di aria compressa mediante una elettrovalvola a capsula barometrica di controllo. Il motore elettrico in bagno d’olio non diede nessun inconveniente, anche grazie alla competenza del Comandante Frassetto che aveva collaborato con Piccard per i motori del batiscafo Trieste. Funzionava tutto bene anche se il contenitore delle batterie, che in navigazione di superficie poteva essere ventilato, in immersione doveva essere saturato con un gas neutro per prevenire esplosioni dell’idrogeno che si generava durante la ricarica delle stesse. Finalmente dopo parecchi mesi di lavoro, Nessie fu sollevata con un carroponte ed immersa nella vasca per determinare:
- gli assetti
- la verifica dei calcoli di idrostatica
- il collaudo di tutti i sistemi
Come mia abitudine prima che lo scafo toccasse l’acqua, misi un rametto d’olivo nell’anello di traino all’estrema prua… Credo che abbia portato fortuna.
Il bilanciamento in affioramento con carico simulato fu perfetto e bastò mettere solo un po’ di zavorra a prua. Nei giorni successivi facemmo le prove di immersione statica che dovevano essere eseguite da Pucciarini, ma essendo a letto per una forte influenza, l’onore dei primi collaudi d’officina toccarono al sottoscritto.
Ero tranquillo perché conoscevo bene tutti gli impianti e le manovre, inoltre la vasca era profonda solo quattro metri, appena sufficiente per sommergere completamente l’imbarcazione. Tuttavia, quella notte non dormii tranquillo… la visione dei marinai intrappolati nei sommergibili, così come li vediamo nei film, sudati, con l’acqua alla gola, con l’aria sempre più pesante, mi turbava il sonno.. Quella mattina faceva un freddo della malora e con addosso una muta da sommozzatore nella quale faticai mezz’ora per entrare, indossai un autorespiratore ad ossigeno con maschera e stringinaso. La mia poca dimestichezza con tutti quegli apparati provocava sorrisi e battute dette sottovoce dai presenti, tra i quali alcuni incursori della squadra di Miglioranza che per telefono mi aveva detto poco prima:“Vai tranquillo che l’acqua è bassa ed ho inviato qualcuno per ripescarti… Ricordati di fare pipì prima di indossare la muta“… Così paludato e tranquillizzato salii la scaletta per scavalcare l’orlo della vasca e vidi Nessie che galleggiava sorniona e tranquilla, ondeggiando in segno di saluto appena posi il piede sul suo ponte.
Aperto l’abitacolo mi calai entro lo scomodissimo posto di pilotaggio al quale mi vincolai con gli spallacci e la cintura, come nel nostro Rondone, quando si voleva fare un po’ di acrobazia. Prima di infilarmi maschera e boccaglio, mi feci leggere ad alta voce la chek list delle manovre e ad ogni voce toccai il comando corrispondente. Poi misi in moto i motori. Al loro miagolio iniziale fece seguito uno sbuffo di fumo nero e da un possente rombo che riempì con un eco pauroso tutto il capannone…
Tirai la leva della valvola deviatrice dei silenziatori e senza registrare calo dei giri sentii che il potente urlo si era ridotto ad un sussurro. Inoltre, la temperatura dei gas di scarico all’ uscita delle marmitte era nei valori richiesti per una bassa segnatura all’infrarosso. Feci girare i motori per una ventina di minuti, prendendo nota delle temperature e pressioni del contenitore scambiando impressioni e dati con i tecnici ella BPM affacciati all’orlo della vasca, poi li spensi, aprii la valvola della capsula barometrica e quella dello sfiato. Aprii i commutatori del circuito elettrico delle pompe e provai i comandi: timone di direzione e alette di profondità, come sul nostro piccolo aereo, pedaliera e volantino. Poi feci cenno che volevo immergermi… qualcuno dall’orlo della vasca rise e disse qualcosa che non capii. Forse era un augurio, oppure una battuta spiritosa. Risposi con un gesto che fa capire dove mio nonno teneva l’ombrello e mi sistemai bene sul sedile stringendo gli spallacci. Chiusi con le apposite leve i valvoloni si aspirazione e scarico. Spinsi con la mano sinistra le due leve gemelle che aprivano le valvole di allagamento dello scafo…
Bene! Tutto come da manuale e da chek list scritta da me e da Pucciarin. Poi aprii gli sfiati delle casse di compenso anteriori – posteriori e vidi l’orlo della vasca alzarsi lentamente mentre sentivo il sibilo degli sfiati e il gorgoglio dell’acqua che invadeva lo scafo sotto di me. Una strana sensazione… un dubbio mi attanagliò il cervello non appena sentii l’acqua fredda che raggiunti i piedi saliva alle gambe, al punto di vita, al petto.. fui preso dal panico. Avevo dimenticato qualche cosa? Tentai si svincolarmi dal sedile, ma ero inchiodato dalle cinghie degli spallacci e dalla cintura che avevo ben serrato, come da chek list.. Poi sentii una voce: “Architetto, ha deciso di morire? Si metta la maschera ed il boccaglio e aggiungiamo un’ultima voce alla chek list“. Afferrai maschera e boccaglio, mentre l’acqua raggiungeva il mio collo. Un attimo dopo, attraverso il vetro della maschera, vidi l’acqua che sommergeva me e la mia creatura.. Con un colpo sordo sentii che lo scafo aveva toccato il fondo della vasca.. Alzai il capo e oltre la superficie vidi le figure deformate degli operai e dei tecnici che mi osservavano.
Ripresi la calma e dopo aver ringraziato S. Francesco, patrono dei collaudatori distratti, feci un cenno di “tutto bene“. Cominciai a prendere nota mentalmente i tutte le operazioni ed osservazioni per il collaudo.
Provai tutti i comandi ed osservai tutti gli strumenti.. riemersi con una manovra impeccabile dopo circa venti minuti e con aria di sufficienza, ma battendo i denti, ricordo che dissi: “Per le prossime prove vorrei l’acqua a venti gradi!“… Non feci altre prove di immersione con Nessie, ma solo delle “basi di velocità” sul lago e di affioramento, sempre come copilota ed istruendo gli operatori. Naturalmente queste prove erano fatte con una barca appoggio che navigava al nostro fianco e stentava a stare al passo..
Un giorno di primavera gli uomini del Comsubin di La Spezia, con il Maggiore Miglioranza e Pucciarini portarono via Nessie su un grosso semirimorchio targato MM.
Quando aprirono il portone dell’hangar era tutta coperta da un grosso telone, ma la sua forma slanciata ed elegante era ben visibile. Le diedi un pensiero di addio come faccio sempre con le mie barche…
Taranto: Primavera del 1971
Il rombo sommesso dei motori del piccolo quadrimotore “Heron“ dell’Itavia si attenuò e fu superato dal sibilo dell’aria sulle ali. Francesco si destò dalla sonnolenza che lo prendeva ogni volta che viaggiava in aereo. Un potente raggio di sole riflesso dall’ala metallica dell’aereo in virata lo aveva colpito. Represso uno sbadiglio si raddrizzò sulla poltroncina e riassettandosi la giacca di tweed volse lo sguardo verso il finestrino. L’aereo planava in una larga spirale sul Golfo di Taranto. Francesco riconobbe il vecchio e familiare ponte girevole che divide le due città ed i due mari: il piccolo ed il grande. Poi l’Arsenale con poche navi alle banchine. La nuova Vittorio Veneto, il ricostruito Garibaldi, accanto alla vecchia nave da battaglia Duilio in attesa di demolizione.
Tra le piccole unità ed i sommergibili in disarmo, credette di riconoscere la Cassiopea, la torpediniera sulla quale aveva fatto le “ossa da marinaio“ in Egeo nel 41 con il suo amico Gigi Sauro. Adesso era in viaggio verso Taranto per partecipare ad una cerimonia alla quale la Marina lo aveva invitato. L’Ammiraglio Forza gli aveva spedito una lettera ufficiale, ma il suo Comandante Drago, ora anche lui Ammiraglio, aggiunse un sibillino bigliettino in cui era scritto: Caro Francesco, dopo la cerimonia vorrei farti vedere un nuovo giocattolo che credo ti interesserà.
A Genova il nuovo aeroporto in costruzione era già attivo con una pista di ottocento metri, sufficienti a far decollare i piccoli aerei del locale Aereo Club e del quadrimotore Heron dell’Itavia per la linea con Roma. Prima di imbarcarsi aveva visto gli amici Piero e Franco in ammirazione del loro nuovissimo aeroplano SAI Rondone I-ZENE. “Bel giocattolo” disse Francesco congedandosi dagli amici. Quando rientrò mi farebbe piacere fare un voletto sulla Riviera. Già bel giocattolo, ma Drago quale tipo di giocattolo mi farà vedere? Poi imbarcandosi sull’aereo pensò allo strano saluto di Franco: “Ciao Francesco, è probabile che ci rivediamo a Taranto”. Nella breve sosta a Roma Ciampino, sull’Heron si era imbarcato un altro passeggero diretto a Taranto, l’Ammiraglio Luigi Duran De la Penne che entrando a capo chino nella bassa fusoliera dell’aereo aveva riconosciuto Francesco. “Attanasio sapevo che lo avrei rivisto a Taranto, ma questo viaggio mi darà la possibilità di conoscere le vicende della sua missione a Genova sotto l’Aquila che conosco solo attraverso la lettura delle scartoffie del ministero. Belin! Se non sbaglio l’ultima volta che ci siano visti era di notte sulla spiaggia di Paraggi, disse ridendo l’Ammiraglio allacciandosi la cintura di sicurezza.
Dopo due ore di racconto movimentato e turbolente avventure sotto la portaerei Aquila di Francesco, l’Heron stava planando nell’aria tranquilla dell’aeroporto Grottaglie di Taranto, scosso solo da qualche leggera turbolenza di calore. Appena fuori dall’angusta fusoliera Francesco si ricordò che il sole di Taranto era sempre implacabile, mentre una fiammante Aurelia blu calda come un forno, targata MM attendeva fuori dalla piccola aerostazione. “Ammiraglio De la Penne – Tenente Attanasio?“ chiese formalmente un giovane guardiamarina irrigidito in un impeccabile saluto. “Prego accomodatevi“. Il percorso fu breve e veloce, l’autiere evitò l’abitato di Taranto che si espandeva sempre di più e percorrendo la vecchia strada di San Giogio Jonico, raggiunse Capo San Vito. La rada del Mar Grande non era più gremita di navi come in tempo di guerra. Al lato del portone nel muro di cinta accanto alla sentinella si leggeva ancora la scritta “Marina Militare Italiana MARIASSALTO”. De la Penne rispondendo al saluto del picchetto d’onore che attendeva gli ospiti sul piazzale della palazzina comando disse a Francesco: “Tra poco si chiamerà COMSUBIN e parte delle attrezzature e delle imbarcazioni sono già state trasferite a La Spezia presso il forte del Varignano assieme a quelle recuperate a Venezia S. Andrea dai nostri amici della X. Forza e Drago fecero gli onori di casa ai pochi ospiti che erano arrivati quasi tutti in borghese:Frassetto che lavorava al SACLANT; Birindelli comandante della Prima Divisione Navale; Straulino comandante della Vespucci; Martellotta Ferraro Conte, industriale della subacquea, Manisco, Faggioni che riconobbe Francesco, allora guardiamarina sul Crispi diretto al forzamento di Suda, Marceglia che disse a Francesco: “Toh!, il mio pilota di Porto Buso ed il mio compagno di volo sullo Stork di Lauri“. “Bella squadra a diciotto carati“, commentò Forza. Manca il “Comandante” che vi ha mandato una lettera da Cadice e vi abbraccia tutti.
Francesco si scostò da1 gruppo delle medaglie d’oro. Lui in fin dei conti era solo d’argento e accompagnato da Drago si accostò al gruppo in borghese composto da Ferraro, Nesi, Arillo e gli ingegneri Cattaneo e Baglietto che discutevano animatamente di eliche e carene. “Ricordi il Comandante Nesi? Chiese Drago a Francesco. “Certo Comandante!”. Devo ringraziarla per l’assistenza che l’amico Sauro mi ha concesso alla vostra base di Brioni. “Già, povero Gigi… ha difeso sino all’ultimo la sua terra d’Istria e poi e finito con un colpo alla nuca in una foiba. Forse un giorno qualcuno si ricorderà di onorarlo come suo zio Nazario, proseguì Drago.
“Adesso come allora, i potenziali nemici sono oltre l’Adriatico, la cortina di ferro passa a metà strada tra la costa italiana e quella jugoslava“. “A proposito Francesco, ti posso presentare l’ingegner Pucciarini?” E si diresse verso un signore basso e tarchiato, con un simpatico sorriso sul volto abbronzato. “L’ingegnere è dei nostri, anche se era dall’altra parte della barricata nel ’45…è quello che ha fabbricato il tuo giocattolo“, concluse a bassa voce.
Francesco rimase un po’ perplesso a quel “tuo“, ma non disse nulla. Più tardi possiamo farglielo vedere quando un po’ di “diciotto carati “ se ne sono andati… prosegì Pucciarini rivolto a Drago che assentì.
La vecchia base di Mariassalto a Capo S.Vito era in fase di smantellamento, ma la Marina aveva voluto fare questa riunione con i vecchi operatori dei mezzi d’assalto che avevano prestato servizio in questa base dopo l’armistizio dell’8 Settembre assieme agli operatori che avevano militato e combattuto nella Marina della Repubblica Sociale Italiana al Nord e sotto le insegne della X MAS durante tutta la guerra.
Tutti erano riuniti sotto un grande tendone che li proteggeva dal sole ed ospitava anche una grande tavolata imbandita e pronta a riceverli. Una gradevole brezza soffiava dal Mar Grande e l’atmosfera, trascorsa l’ufficialità dei primi minuti era arrivata ad una naturale informalità.
Dopo il pranzo la cerimonia terminò con la consegna di un modellino in argento di un SLC Siluro a Lenta Corsa, il famoso “maiale“, al suo costruttore l’ing. Cattaneo che nel riceverlo lo dedicò spontaneamente alla memoria di Teseo Tesei, l’ideatore del mezzo con il quale cadde a Malta. Un modello di un barchino esplosivo MTM fu consegnato a Pietro Baglietto, che ricordò assieme a Faggioni e Frassetto, le imprese di Suda e Malta.
Nelle prime ore del pomeriggio tutti si congedarono e presero la via del rientro. Rimasero solo: Forza, Drago, Pucciarini e Francesco, quest’ultimo incuriosito dalla possibilità di vedere il famoso giocattolo… Aveva il presentimento che Forza e Drago volessero coinvolgerlo ancora una volta in un “gioco“. D’altronde aveva anche la certezza che una volta visto il giocattolo sarebbe stato molto difficile fare marcia indietro e non stare al gioco e se qualcuno aveva deciso di farglielo vedere, quel qualcuno aveva anche la certezza che Francesco non si sarebbe tirato indietro.
Tutti e quattro si recarono nella Palazzina Comando e Forza, dopo essersi seduto dietro la scrivania che Francesco ben conosceva, esordì dicendo: “Attanasio, abbiamo bisogno di lei per un breve periodo, disse in tono rassicurante guardando fisso negli occhi di Francesco, come per leggerne il pensiero, ma l’ammiraglio non riuscì a leggere il… “porca miseria! Tocca un’altra volta… sempre a me! che emerse da un mare di ricordi affollati nel cervello del Ten. di Vascello Francesco Attanasio.
“Le sue azioni di ricognizione per l’azione contro la portaerei Aquila a Genova, per il recupero del Maggiore Marceglia.. Le sue azioni offensive nel litorale Dalmato, la sua esperienza come pilota di MTSM e come operatore subacqueo lo resero insostituibile per una missione che la situazione politica e strategica di quel tempo che si rese estremamente urgente“.
Forza riprese fiato e abbassò il tono di voce… Lei conosce bene le isole del litorale dalmato e abbiamo bisogno di sapere cosa si nasconde dietro di esse”. “Attanasio, Lei è in congedo, ma è sempre un ufficiale di Marina, tuonò l’Ammiraglio terminando il suo pistolotto rimanendo in silenzio. Si sentiva solo il frinire delle cicale attraverso le finestre aperte sull’uliveto che circondava la palazzina. La voce di Drago ruppe il breve silenzio prima che Francesco dicesse semplicemente: “agli ordini Ammiraglio“ per poi far riemergere dal mare in tempesta che si agitava nella sua scatola cranica, la frase che poco prima era momentaneamente affiorata: “porca miseria..“Forza sorrise e concluse”: La ringrazio Attanasio, ci vediamo più tardi per cena, adesso vada pure con Drago all’Isola”.
L’ingegner Pucciarini era già sulla motobarca che con il Diesel che borbottava accostata alla banchina della piccola darsena della base di S.Vito. L’isola di S. Pietro con quella di S. Paolo forma il poco conosciuto Arcipelago delle isole Cheradi, che chiude a Sud Ovest la rada di Taranto formando con la penisola di S. Vito e la diga della Rondinella il bacino del Mar Grande.
La motobarca uscendo dalla darsena passò davanti al Varco Sud, dove accanto ai fanali rosso e verde erano accatastate ed arrugginivano con i loro galleggianti, le ormai inutili reti antisom. Sempre costeggiando dal lato interno la diga frangiflutti, superata San Paolo, si avvicinò alla punta Ovest di S. Pietro e dopo averla doppiata Francesco vide una strana nave all’ancora poco distante la punta dell’isola vicino ai resti di una postazione di artiglieria contraerea. La nave era uno specie di scatolone grigio con la sigla “A 5302” in rosso sulla fiancata. “Ecco la scatola del giocattolo“, disse Drago. La scatola era molto appropriatamente la ex nave da sbarco “Quarto“, una unità di settecentosettanta tonnellate destinata dopo i cattivi risultati delle prove a rimanere unica ed essere impiegata, anziché al battaglione da sbarco San Marco, ai più disparati usi sperimentali.
La motobarca con un energico “macchina tutto addietro“, fece squassare con il suo motore diesel le vecchie strutture in legno accostando alla rampa da sbarco di prua verso il Quarto che, con il portellone aperto sembrava un grande ed oscuro antro. Pucciarini, seguito da Francesco e da Drago balzò sulla rampa e si inoltrò nella stiva della nave. Appena gli occhi si abituarono alla semioscurità Francesco intravide una forma estremamente affusolata che si profilava sotto un grande telone. “Scoprite il mezzo ed accendete le luci“, ordinò Pucciarini a un Capo e alcuni marinai che erano scesi nella stiva.
Ecco Nessie, come la chiamano i progettisti! Per noi è semplicemente un SDV (Swimmers Delivery Veicle). In altre parole un vettore di operatori subacquei. Quello che vide Francesco era veramente uno strano oggetto, sembrava un pesce spada con una prua affilatissima e due piccole alette laterali come un sommergibile. La carena era quella di un motoscafo con una grande elica intubata a poppa . Era qualcosa di mai visto… Francesco notò numerosi sfiati ed aperture sui fianchi e sulla carena che poggiava sulle taccate di legno del bacino.. “Ma galleggia con tutti quei buchi?“ domandò ridendo a Drago… “In effetti è una carena completamente allagabile, come il bacino del Quarto, fatto per alare e varare rapidamente il mezzo che in questo caso possiede una piccola riserva di galleggiamento che verrà eliminata quando deciderai di immergerti”.
Questo mostro ha appena superato le prove di collaudo e nei prossimi giorni possiamo consegnarlo alla Marina per le prove di accettazione, disse Pucciarinui. Fila a più di quaranta nodi in superficie e può immergersi sino a quaranta metri. In sostanza, con tutto il rispetto, è un grosso “maiale“, un SLC con i motori di un motoscafo da corsa. E’ stato costruito con la collaborazione della Società Aeronautica dell’ ing. Ambrosini che si trova sul Trasimeno e che costruiva aerei. Infatti, è tutto in lega di alluminio come un caccia e sott’acqua si comporta come un aereo, può portare sino a sei operatori più il pilota.
“Allora ti piace il giocattolo, chiese Drago?” Francesco era affascinato da quella macchina ed osservava attentamente tutti i particolari.. E dove dovrei andare con questo mostro, ammesso che lo impari a condurlo? Questo te lo dirà questa sera Sforza.. Pucciarini, questa sera vai a Taranto e domattina ritorna con Harrauer, uno dei progettisti.
Così imparerai a conoscere la tua “Nessie“. Francesco sentendo quel nome disse:
“Ma è Franco! L’ho visto all’aeroporto di Genova, ma non sapevo che era uno dei progettisti di questo “aggeggio infernale”. Nell’aprile del ’45 faceva la staffetta partigiana e mi ha aiutato per rientrare al Sud…
Forza sedette a capo tavola ed alla sua destra c’era un uomo in borghese che si muoveva e si comportava come se fosse in divisa… il volto abbronzato, impassibile salvo un leggero sorriso iniziale di circostanza. A sinistra Francesco con la sua giacca di tweed e lo spiacevole pensiero del suo poco probabile rientro a Genova in tempi ragionevoli… Dall’altro lato del tavolo c’era Drago.
La piccola saletta da pranzo della foresteria della base di Mariassalto era decorata con quadri di Claudus, il pittore della Marina che aveva rappresentato tutti gli episodi della guerra con dipinti molto realisti, con fotografie e “crest“ di navi che ormai vivevano solo nella memoria… Un grosso ventilatore agitava lentamente le sue pale nel tentativo di mitigare il calore della sera. La cena fu molto frugale e impostata su una conversazione un po’ forzata e senza particolari argomenti di interesse. L’uomo in borghese si era semplicemente presentato con un nome che per Francesco non evocava alcun ricordo o conoscenza. Evidentemente aveva un nome di copertura. Quando i marinai di servizio, dopo aver sparecchiato la tavola e servito il caffè si erano ritirati, l’Ammiraglio esordì dicendo: “Signori, veniamo al dunque”, mentre il signore dal nome di copertura estrasse da una cartella che teneva accanto alla sua sedia alcune carte nautiche e le dispiegò sul tavolo… “La nostra frontiera politica, la “cortina di ferro“ passa ormai in mezzo all’Adriatico. Sappiamo che in Dalmazia la Marina Jugoslava si sta dotando di unità missilistiche veloci del tipo sovietico “Osa“ e “ Shershen“ e ve ne sono una trentina in squadra. Pare che ve ne siano in costruzione numerose altre di progetto jugoslavo con caratteristiche molto avanzate. “Il nostro litorale da Venezia a S. Maria di Leuca non ha sorgitori o difese naturali e tutta la dorsale appenninica e la Pianura Emiliana sono esposte con le loro città e le vie di comunicazione ad una eventuale offesa missilistica”. “Le unità missilistiche jugoslave si appoggiano ad una rete di basi difese dalle isole della Dalmazia, che con la loro configurazione parallela alla costa, permettono lo spostamento delle proprie unità per via, diciamo… interna, mentre i nostri convogli costieri e le nostre unità navali possono venire attaccate con sortite dirette provenienti dai numerosi varchi tra le isole esterne e la costa jugoslava. “Il controllo delle forze potenzialmente nemiche può essere fatto da nostri agenti locali, ma da qualche tempo a questa parte la Marina jugoslava sta scavando dei bacini in caverna in molte località della costa e delle isole, come ha fatto da tempo la Marina Svedese“.
“Gli aero-ricognitori del nostro III Stormo di base a Foggia o Guidonia hanno fatto dei voli fotografici segreti sul litorale, violando lo spazio aereo jugoslavo e rischiando di essere intercettati ed abbattuti, come è successo poco tempo fa ad un nostro “P 38” Lightning di base a Guidonia e comunque di sollevare gravi incidenti diplomatici.
“Il risultato di questi voli è qui, disse l’uomo, estraendo dalla cartellina alcune foto planimetriche.. Come potete vedere, a parte la localizzazione delle gallerie di accesso e di ventilazione, poco si può capire della loro planimetria ed estensione, anche perché il materiale di scavo è stato scaricato in mare, quindi non può essere valutato dal punto di vista volumetrico.
In questa foto obliqua si possono vedere le due bocche di entrata che, con tutta probabilità sono collegate tra di loro all‘interno. Non vi è alcun tipo di chiusura, salvo una specie di rete parasiluri (si vedono i galleggianti) ed una serie di reti mimetiche.
“Eccezionale questa foto“ disse Drago esaminandola con una lente di ingrandimento.
“E’ stata scattata a bassissima quota a volo radente.. è la base all’estremità nord dell’isola di Dugi Otok, a due miglia dal piccolo villaggio di Bozava. Probabilmente il nostro P 38 è arrivato molto basso nascosto dal vicino promontorio e ha scattato un serie di foto da meno di mezzo miglio. Si vedono bene due sentinelle, due marinai a destra dell’imbocco della galleria… direi che dalla faccia siano un po’ incazzati, disse Drago chinandosi con la lente sulla foto prima di passarla a Francesco. Bel fegato quel pilota! concluse.
Le basi in caverna finora individuate sono le seguenti, disse l’uomo impassibile all’osservazione di Drago e Francesco ebbe il pensiero che il rischio di quel pilota e probabilmente il suo poteva poi essere archiviato assieme a tante scartoffie in qualche cartellina sepolta in un armadio polveroso e blindato dei Servizi Informativi Militari.
L’uomo indicò vari punti sulle carte nautiche:
- Bocche di Catraro
- Stretto di Kumbor,
- Isole di Lastovo e Vis
- Sebenico nel canale di accesso al porto
- Dugi Otok , in vicinanza di Pola nel vallone di Budava.
Purtroppo le foto non rivelano altro che ingressi di tunnel a livello del mare abilmente mimetizzati. I nostri informatori ci hanno segnalato che una grande base sotterranea è stata allestita nell’isola quasi deserta di Kornat, la più grande delle Incoronate e precisamente vicino alla sua punta sud. La particolarità di questa base potrebbe essere quella di avere due uscite, una verso il mare e l’altra verso la costa interna.. Sembra che sia la base principale e oltre ad ospitare moto-missilistiche potrebbe anche accogliere sommergibili e mezzi d”assalto.
Pertanto, noi siamo interessati a sapere cosa c’è sotto l’isola di Kornat, concluse l’uomo allontanando la tazzina del caffè ormai freddo, fissando Francesco che sostenne quello sguardo pensando ardentemente che gli si leggesse nel pensiero. Porca miseria… me la sentivo colar dal naso! Sotto l’isola devo andarci io con quel cazzo di mostro che mi hanno fatto vedere!!
Attanasio intervenne: Forza, “Lei, oltre ai requisiti necessari per portare a termine con successo l’operazione di ricognizione con il mezzo che abbiamo a disposizione, conosce molto bene la zona. Riteniamo che la base possa essere quasi di fronte all’isola di Lavsa, che era la sua base nelle operazioni del ’44“. “Si tratta di fare un rilievo a vista della base in caverna e possibilmente delle fotografie, “soggiunse Drago“. Verranno con lei tre incursori specialisti del Comsubim e prevediamo che l’operazione debba durare un paio di giorni, per cui è necessaria una profonda conoscenza della zona. Domani discuteremo tutta la parte tattica, dopo le prove del giocatolo e stia tranquillo che la Marina ha sempre cura dei suoi bambini e li tira sempre fuori dai guai!
A questo punto Francesco stava per dire: “ma io non vi ho detto ancora di si“, ma il pensiero di provare l’indomani il “mostro“, lo indusse a dire semplicemente: “Agli ordini Ammiraglio… vorrei solo rientrare a Genova per un paio di giorni prima della missione“.
Il moto-trasporto sperimentale “Quarto A 5302“ lasciò il su posto d’ormeggio presso l’isola di S. Pietro all’alba, filò il doppino di cavo che lo teneva vincolato alla sua boa e alla modesta velocità di otto nodi consentita dai suoi tre motori Diesel, uscì dal Mar Grande per portarsi nella zona di esercitazioni dei sommergibili, lungo la “Penisola Salentina” a poche miglia da Capo S. Vito, una zona interdetta alla navigazione ed alla pesca, lontana da occhi indiscreti.
A bordo vi erano Pucciarin, Francesco, Drago, Franco e quattro operatori subacquei del Comsubim, oltre all’equipaggio normale del Quarto composto da dieci uomini al comando di un giovane sottotenente di Vascello. Era ancora notte quando con una macchina proveniente da Taranto, oltre a Pucciarini era giunto a Capo S. Vito anche uno dei progettisti di Nessie che Francesco aveva incontrato a Genova. Ora era a bordo del Quarto e spiegava a Francesco l’idea che aveva permesso la realizzazione di quel mezzo. “Vedi Francesco, Pucciarini ha sempre ragionato in termini di sommergibili e tecnologie subacquee, ma quando si e trattato di un mezzo subacqueo veloce, Levi ed io abbiamo suggerito che era più facile far immergere un motoscafo anziché far planare un carro armato a quaranta nodi”“Un’idea brillante e anticonvenzionale“ disse Francesco, “Spero solo che funzioni“.
“Vai tranquillo, al massimo ti becchi una fucilata dai nostri amici dell’altra sponda”, concluse Franco, mentre il Quarto arrancava verso Sud Est.
FINE PRIMA PUNTATA
Gentile Sergio,
la seconda ed ultima puntata del “Sommergibile Nessie” la può vedere andando al seguente linK:
Sommergibile Nessie Ultima Puntata
Se la legga, forse potrà avere risposte alle sue osservazioni e per qualsiasi domanda ci scriva.
La ringraziamo per averci contattato ed essere entrato in AltoMareBlu.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Gentile Giovanni,
non sappiamo… ma sembrerebbe esistere ancora, ma rimarrebbe come materiale classificato e quindi non si possono diffondere notizie di alcun genere…
La ringraziamo per averci contattato.
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Ma le altre puntate.. sono andate come il genovese Cristoforo Colombo.. quasi più conosciuto in America come una leggenda più che di vera storia.
Ed i sommergibili o bombardieri, fatto ha vinto poi il niente.. ed oggi se ne vedono i negativi risultati.. Chissà se nelle prossime puntate belin ci sia un risvolto in positivo ma senza guerre.
Sergio Morando
Salve,
un racconto davvero emozionante… mi sorge una domanda che fine ha fatto il Nessie? Esiste ancora? E’ in un museo o è stato smantellato?
Vi ringrazio per qualsiasi info avrete in merito.
Giovanni
Gentile Guido Stanchi,
La informiamo che il racconto di Nessie, pubblicato in due puntate è finito e non ce ne saranno delle altre. L’architetto Franco Harrauer, autore di questi racconti articolati tra il vero e l’immaginario, continuerà con altri pezzi dedicati allo stesso argomento ambientato nel periodo “fine Seconda Guerra mondiale”… Continui a seguirci e prossimamente pubblicheremo un altro episodio articolato su sei puntate… Grazie per averci contattato!
Cordiali saluti,
Giacomo Vitale
Molto interessante. Spero che il racconto non si interrompa e si possano leggere le prossime puntate. Comunque grazie, la conoscenza della storia e dei suoi risvolti anche se non sempre noti è un bene inestimabile