Ol’Man River: viaggio alla ricerca dell’anima del Mississippi
di Antonio Soccol
Prendete la canzone “Ol’ Man River”, così come la canta Ray Charles. Prima c’è un coretto che racconta quasi tutta la storia, ed coretto un pò melensoromaticosdolcinato. Poi attacca lui, con quella sua voce inconfondibile: aspra, anzi “acre e grinzosa” come dice Luciano Federighi e scura e densa. E subito l’atmosfera cambia, il melenso diventa dramma, la nenia accetta la sfida e si trasforma in denuncia. E’ un contrasto cercato, voluto: inquietante.
Un ragazzo di colore con la sua corneta suona al vecchio fiume
Adesso andate in Louisiana. A New Orleans, per esempio. La città chiamata anche Crescent City per la sua forma a falce di luna lungo le sponde del Mississippi. Qui è nato il jazz, qui alla fine del 1600 c’erano già oltre 75.000 schiavi di origine africana e qui tra il 1862 e il 1865 “quando la schiavità venne ufficialmente abolita” di negri ce n’erano 4 milioni. Qui c’erano le piantagioni di canna da zucchero, di cotone, di riso. Qui c’erano i riti woodoo che si svilupparono soprattutto sotto il “regno” di quella Marie Caveau sulla cui tomba ancor oggi è comune trovare in meditazione uomini di colore tutti vestiti di bianco. Qui, nel 1899, sulle sponde del lago Pontchartrain, alle spalle della città, venne fondato il New Orleans Yacht Club, il secondo “dopo quello di New York” per anzianità in tutti gli USA e con due ori olimpici in bacheca (Gilbert T. Gray nelle star, 1932; G.S. Bundaly-Friedricks jr. nei dragoni, 1962). Qui, nel quartiere di Storyville, nel 1880, la polizia si rifiutava di controllare la zona dei locali a luce rossa (83 bordelli e 300 saloon).
Qui c’erano (e ormai sono praticamente scomparsi) migliaia di pavoni bianchi che facevano una ruota di straordinaria spettacolarità. Qui Tennessee Williams ha ambientato il suo “Un tram chiamato Desiderio” e qui è venuta la grande maggioranza degli scrittori americani per ispirarsi: Thornton Wilder, John Dos Passos, Sherwood Anderson (ricordate il suo “Riso nero”, meravigliosamente tradotto per noi da Cesare Pavese), John Steinbeck, William Faulkner, Lillian Hellman, Francis Scott Fitzgerald. Qui hanno vissuto e scritto Mark Twain, Walt Whitman, Truman Capote sino ai più recenti John Kennedy Toole e Walker Percy. Qui si creano inebrianti profumi ricavati dalle migliaia di fiori selvatici che crescono là dove un tempo c’erano le piantagioni o sui bordi delle paludi del delta. Qui si è sviluppata la moda dei cappelli femminili (oggi prodotti a Firenze e poi “arredati” con antichi foulard locali).
Qui la cucina e in particolare il gumbo si esalta in una raccolta di ricette tale che spesso i ristoranti si stampano la loro propria “enciclopedia di cucina” creò la ricca di oltre tremila, talvolta quasi quattromila piatti. Qui i cimiteri hanno sapore diverso: sono chiamati “le città della morte” e all’ingresso spesso vi sono scritte tipo “benvenuti”, e davanti alle tombe ci sono panchine per sedere, meditare, ricordare, sognare, parlare.
Il “cemetery n.1” si trova proprio sotto la grande sopraelevata che taglia in due la città: passano rombando i Dodge ma il rumore non scalfisce il magico silenzio di questa città dove Dennis Hopper ha girato una delle scene più emozionanti e aggressive del suo “Easy Rider”. Qui, la sera, il vecchio quartiere francese, trasformato in una immensa isola pedonale, raccoglie(va) migliaia e migliaia di giovani: maglietta a mezze maniche “in pieno inverno” e bicchiere di birra in mano, passa(va)no da un locale a un altro mescolando nella propria mente rock e country, pop e dixie. Sullo stesso marciapiede fanno (facevano) la coda per entrare da Pat O’ Brian (il locale dove si smercia più alcool di tutto il mondo occidentale) o da Preservation Hall: Josiah Frazier (alla batteria), James Miller (al piano), Percy Humphrey (alla cornetta), Narvin Kimball (al banjo), Willie Humphrey (al clarinetto) e Allan Jaffe (al basso tuba): no drinks, no airconditioning, no regular seating, solo pura musica jazz suonata da una banda di cinque elementi che complessivamente superano i quattro secoli di vita, ma che musica, ragazzi. (Per gli interessati: esiste anche un cd, edito dalla Sony, dal titolo “Because of You”… è buono, molto buono ma si trova solo negli USA).
Qui è passata Katrina, l’uragano più devastante nella storia del mondo occidentale.
Qui era stata costruita quella che si considerava “l’ottava meraviglia del mondo”, diventata poi tristemente famosa proprio durante i fatali giorni di Katrina: uno stadio con oltre 80mila posti a sedere al coperto. Qui il parco di divertimenti per i bambini è dedicato a Louis Armstrong. Qui il Carnevale esplode(va) nelle feste del Mardì Gras che cominciano cinquanta giorni prima dell’inizio della quaresima, con sfilate, carri allegorici e alcool e musica in dosi industriali. Qui le maschere fatte con piume di uccelli rari raggiungono prezzi da capogiro e sono veri capolavori da conservare sotto vetro. Qui, nel Business District si trattano affari delle compagnie petrolifere per cifre da infarto. Qui per le strade è (era) tutto un susseguirsi di artisti, di pittori, di musicisti, di comici. Qui vengono (venivano) ancora a vendere le loro prede i bracconieri delle paludi circostanti (nutrie, uccelli, serpenti). Qui il ristorante Antoine vi può (poteva) ospitare in una qualunque delle sue eccezionali quattordici sale storiche, con menù (gumbo di scampi e pollo, ostriche alla Rockefeller sono obbligatori) e carta dei vini che nemmeno a Parigi.
E qui scorre il Mississippi.
Le swamps, le paludi dove alberi sfogliati e pendenti di muschio ospitano una flora ed una fauna unica e capace di creare una atmosfera incredibile
Sulle sue acque iniziarono, il 14 maggio 1804, un incredibile viaggio Meriwether Lewis, William Clark e altri 30 uomini che avevano avuto l’incarico di “esplorare” l’America del Nord dal Mississippi appunto all’oceano Pacifico. Lo conclusero un anno e mezzo dopo attraversando terre totalmente sconosciute all’uomo bianco. Come dice Lilli Gruber nel suo libro “America anno zero”, questa impresa è sconosciuta in Europa ma è “mitica per gli americani” perchè “costituisce un vero e proprio memento fondativo della loro storia nazionale”.
Le swamps, le paludi dove alberi sfogliati e pendenti di muschio ospitano una flora e una fauna unica e capace di creare una atmosfera incredibile
Non sono tornato a New Orleans dopo il disastro del ciclone e ho anche letto poco di quali danni irreparabili abbia creato: ogni titolo, ogni articolo, ogni riga, ogni parola era una ferita dolorosissima. Perchè chi ha conosciuto la vera New Orleans e il suo Mississippi è incapace di immaginarli e vederli differenti. La città e il suo fiume.
Ora come lo immagina quel fiume uno che a New Orleans non c’è mai stato? Come spera di incontrarlo questo miticoleggendario Mississippi, il vecchio fiume, Ol’Man River, il padre delle acque? Io ricordavo il fiume di Huckleberry Finn e Tom Sawyer, ma ricordavo anche la voce “acre e grinzosa” di Ray Charles e questo, in quel giorno lontano, mi poneva interrogativi. Che Mississippi avrei trovato, svoltando da Jackson Square verso il fiume?
Ho trovato un fiume modesto, triste, svenato dalle petroliere e dai portacontainers che lo scavano su e giù a centinaia, di giorno e di notte. Ma davanti al fiume c’era un ragazzo di colore, la bicicletta da corsa appoggiata a una palina e la cornetta in mano, anzi in bocca: suonava “St. Louis Blues”. Non chiedeva quattrini, non era un suonatore ambulante. Suonava la sua anima al fiume. “Mississippi è una parola lunga tremila miglia”, diceva Walt Whitman.
Ma non è un fiume: sono sei. Tradizione a parte, che parla di alto e basso Mississippi, percorrendo dalle sorgenti del Minnesota al delta sul Golfo del Messico, si vedono le sei anime del Mississippi: un’infanzia, una adolescenza, una giovinezza, la maturità, la senescenza, la fusione finale. Ciò che sorprende in queste sue sei stagioni è la comune desolazione delle sue rive. Questo avevo letto da qualche parte e questo ora ricordavo. Il fiume, un fiume non è le sue sponde, le sue rive. Non è qui che puoi trovarne l’anima.
Il giorno dopo ho affittato una macchina e me ne sono andato alla ricerca dell’anima del Mississippi. Ho ignorato il civettuolo richiamo dei battelli a ruote per turisti, ho evitato Baton Rouge (capitale della Louisiana). Ho cercato le swamps, le paludi. Mi sono perso per stradine minori, per rigagnoli mentali che non portavano altrove, ho percorso sentieri del nulla per trovare l’anima del Mississippi.
Ho incontrato la Zen & Grain Corp. Con i suoi silos altissimi, e i suoi uffici sentinellati da aste portabandiera vestite dal sol levante e dalla “stelle e strisce”. Ho trovato piantagioni soffocate da industrie. Ho trovato cantieri per la costruzione di piattaforme offshore per la ricerca e la estrazione del petrolio. Ho trovato Tommy, un vecchio matto creolo che mi ha portato con il suo minuscolo catamarano fuoribordo per le paludi e buttava pezzi di pane raffermo addosso ai serpenti per farli scappare e ancora pezzi di pane raffermo alle nutrie per sfamarle. E ancora pane raffermo alle migliaia di uccelli per farli star zitti. Ho trovato una selva di alberi senza foglie, scheletri avvolti di muschio: uno spettacolo incredibile, affascinante e inquietante assieme. Unico. Ho trovato bianchi aironi immobili nel tramonto. Ho trovato il traghetto che va e viene da una sponda all’altra e scansa nel suo eterno andirivieni le navi e i carghi che risalgono sbuffando “ma poco” la corrente.
Morgan City: davanti al municipio un monumento scolpito nel granito: una torre petrolifera avvolta da un gamberetto di fiume, per un idillio tutto americano
Ho trovato Morgan City: davanti al municipio un monumento scolpito nel granito: una torre petrolifera avvolta da un gamberetto di fiume e, a lato, il manifesto che reclamizzava il prossimo “petroleum and shrimps festival”. E credevo di aver trovato l’anima del fiume. Ma non era ancora vero. E allora ho cercato ancora. Ho percorso oltre cento miglia verso il Golfo, lungo le sponde: tristi muri di cemento dove l’acqua non ammorbidisce, non canta, non fertilizza, non vive. E i carghi offendono con i loro profili la linea dell’infinito orizzonte. Allora mi sono disperato.
Ma non ho voluto cedere alla disperazione. E ho continuato a cercare. L’anima del Mississippi e di quel ragazzo di colore che suonava sulle sue sponde “St. Louis Blues” dovevano pur essere da qualche parte. Sporco, triste, contaminato, inquinato, inscatolato. Brutto persino, ma non morto. Non ancora. Il fiume non muore. Non può morire. Il fiume è come il mare: immortale. E la musica di un ragazzo di colore nemmeno. Nemmeno lei può morire.
Riuscite a farvi venir subito in mente le note di “When the Saint’s Go Marchinin”, quella canzone che i ragazzini cantano dicendo “uen de sen go macinin”, ecco quella.
E’ stata quella canzone che mi ha dato la chiave della ricerca: è nata a New Orleans quella musica e faceva parte del Funeral Jazz, si suonava a ritmo di marcia funebre accompagnando la morte al cimitero. E poi cambiava ritmo di colpo e si scatenava ed era una corsa, una frenesia, una gioia: così la suonavano i vecchi negri rientrando in città dal cimitero. Morte e vita nella stessa canzone, dolore e gioia, umiliazione e esaltazione, rassegnazione e forza. Tutto insieme. In armonioso racconto: le stesse note, solo cambiandone il ritmo.
La copertina del cd della preservation Hall Jazz Bend, un complesso che da oltre mezzo secolo mantiene le tradizioni musicali di questa città incredibile ed imperdibile
Mancava il tempo. Volevo tornare nella palude. Volevo tornare in un piccolo cerchio d’acqua dove avevo visto abbandonato al tempo il relitto di un pontone che era servito per trivellare il fondo alla ricerca del petrolio. Il fiume lo aveva accolto, abbracciato. Non lo aveva considerato un “prodotto superato”. Lo aveva inserito nella sua vita quotidiana. Lontana dall’uomo. E lo aveva trasformato in un monumento incredibile dove il ferro delle strutture si mescolava con le liane, dove l’acciaio della torre ospitava serpenti e uccelli, dove il duro mogano del pagliolato era diventato casa per famiglie di nutrie.
Ecco: ho il sospetto che il vecchio Mississippi avesse nascosto qui la sua anima, offesa, ma non umiliata. E comunque immortale. Anche dopo il passaggio di Katrina.
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