Ciao Nanda
di Antonio Soccol
Ve l’ho già detto. E’ stato quel simpatico vagabondo casinista di Valerio Monaco, navigatore solitario e giornalista (ha scritto, anni or sono, anche per Barche) a presentarmi la “Nanda”. Due anni or sono (vedi Barche del giugno 2007), su queste pagine avevo scritto:
Quando, nello stesso giorno, ti succedono due cose correlate, qualcosa vuol dire. Magari no. Però pensarci è inesorabile. Oggi sono andato dalla “Nanda”. E oggi i quotidiani pubblicano la notizia che il periodico americano “Life” chiude per sempre. “La Nanda”, per gli amici, è Fernanda Pivano. Cioè quella signora, ora novantenne, che ha tradotto in italiano “Spoon River” oltre ad un gran numero di altri capolavori della letteratura americana. Cioè quella signora che ci ha fatto conoscere scrittori come Gregory Corso, Jack Kerouc, Alen Ginsberg e tutti i ragazzi della “beat generation”, che per prima ha parlato in Italia (quando nessuno sapeva chi fosse) di Bob Dylan, che è (o è stata) amica e frequentatrice di cantautori (sarebbe più giusto definirli poeti, però) come Fabrizio De André, John Cage, Jim Morrison, David Bowie, Vasco Rossi, Kurt Cobain, Ligabue, Bruce Springsteen, Jovanotti, Patti Smith, Francesco Guccini, Lou Reed e Vinicio Capossela. Quella signora che ci ha tradotto (nel 1952) quel capolavoro di letteratura del mare che è “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway.
Oggi che scrivo la mia amica “Nanda” se n’è andata. E’ morta ieri, 18 agosto 2009, a Milano: aveva 92 anni e un mese e oggi i giornali sono pieni di lei. Perfino la Rai ha rimandato in onda (ovviamente in orario rigorosamente notturno) due sue vecchie interviste, una di Marzullo e un’altra, con il clan dei Benetton, dei giorni in cui era stata costituita la Fondazione Riccardo e Fernanda Pivano (è stata inaugurata a Milano il 16 Dicembre 1998. La struttura, destinata ad accogliere il patrimonio librario e documentario di Fernanda Pivano, è una sezione staccata della Biblioteca/Centro documentazione della Fondazione Benetton Studi e Ricerche di Treviso). Ma quelli che l’hanno ricordata meglio sono stati di certo Fiorella Minervino su “La Stampa” con un pezzo titolato “Il pianto di Nanda davanti al mare della giovinezza” e Jay McInerney sul “Corriere della sera” con la sua testimonianza “Io, uno dei bad boys iscritto da lei nel club dei famosi”.
Era nata a Genova, Fernanda Pivano ma poi si era trasferita a Torino dove, al liceo Massimo D’Azeglio, era stata alunna di Cesare Pavese (innamorato di lei con due proposte di matrimonio scritte per lettera e ben tre poesie dedicate nella raccolta “Lavorare stanca”) e dove, all’esame di maturità, si era scontrata con la stupidità umana: un professore “piccolo e grasso, con la brillantina sui capelli e un grosso distintivo fascista sul vestito bianco che veniva da Brescia” valutò con un orrendo 3 il suo compito di italiano costringendola, lei che era sempre stata bravissima a scuola, a rifare a settembre tutti gli esami. La stessa identica sorte capitò, sempre quell’anno, al suo compagno di studi Primo Levi… Anche quelli erano anni molto complicati.
Nel 1941, aveva preso la sua prima laurea, quella in Lettere, con una tesi su “Moby Dick”. Due anni dopo, mentre si laureava anche in Filosofia, aveva tradotto per Einaudi quel capolavoro che è “Spoon River”. Proprio pochi giorni fa, gironzolando nella libreria “I cento fiori” di Finale Ligure, l’occhio mi era caduto su una nuova ristampa di quel libro straordinario: “Con testo originale a fronte” argomentava uno strillo di copertina. A proposito di anni complicati, l’editore adesso era Mondadori. Incuriosito ho controllato chi fosse il traduttore ma non era citato: una omissione oscena, specie alla luce del fatto che il testo italiano era chiaramente quello scritto da Nanda ben sessantasei anni or sono, che ha ispirato alcune canzoni di Fabrizio De Andrè e che molti di noi sanno a memoria. Ho trovato risposta a quell’assurdo in un intervento (“Undert”, 11 novembre 2002) pubblicato sul forum del sito www.fernandapivano.it che, testualmente, scrive:
“Lo sapevate, cari amici, che la Mondadori del “piccolo Cesare Berlusconi” ha privato la nostra Nanda di tutte le recensioni, prefazioni, post-fazioni, saggi ed introduzioni pubblicate in tanti anni per opere di autori come Hemingway, Fitzgerald, Kerouac, Bukowski, Dos Passos e altri, perché ormai non più “politicamente corrette”, affidando le nuove edizioni a tirapiedi ???”.
No, non lo sapevo: tempi che vivi, editori che trovi.
Ci eravamo spesso “mancati per poco” la Nanda ed io. La prima volta era stata, verso la fine degli anni Settanta, quando Valeria Cingottini aveva interpretato, in un teatro di Milano, quel “Vizio assurdo”, adattamento teatrale della vita e delle opere di Pavese assemblato da Diego Fabbri e da Davide Lajolo e interpretato da Luigi Vannucchi, Paola Cannoni, Ivo Garrani e, appunto, dalla mia amica Valeria che, sul palcoscenico, faceva proprio la parte della Pivano. Alla fine dello spettacolo Nanda era venuta nel camerino dell’attrice per complimentarsi con lei ma altresì per garantire che mai avrebbe potuto avere un rapporto così “duro” con il famoso scrittore: “Pavese, io non potevo affrontarlo così. Assolutamente. Ma tu sei stata molto brava”, disse in quella occasione la Nanda, accarezzando dolcemente la protagonista di quella piece nonché famosa interprete de “La dolce vita” di Fellini.
Il rapporto della Pivano con il grande scrittore piemontese era qualcosa di sacro e intoccabile. Me ne sarei reso conto anni dopo, nel lungo periodo della nostra frequentazione e soprattutto quando mi confessò che Italo Calvino le aveva chiesto l’autorizzazione a pubblicare, nell’epistolario dello scrittore, quelle lettere di Pavese, quelle in cui le chiedeva di sposarla: “Finché campo, non le avranno”, mi aveva detto. E subito aveva cambiato discorso perché si stava commovendo a quel caro, impetuoso ricordo.
Successivamente l’avevo vista da lontano, al teatro Lirico, in occasione di uno stupendo concerto tenuto dal grande sassofonista jazz Gerry Mulligan e poi all’Arena per la serata tenuta da Bob Dylan quando l’avevo sorpresa a sgattaiolare fra il fitto intreccio di tubi Innocenti che reggevano il palco per arrivare di sorpresa alle spalle del suo amico cantante. In quegli anni, prima di conoscerla davvero, ero un po’ inquieto con lei.
Nel 1954, Ernest Hemingway aveva vinto il premio Nobel per la letteratura. Non andò a ritirarlo perché malconcio di salute per una caduta di un piccolo aeroplano in Africa ma disse che glielo avevano dato perché, con il romanzo “Il vecchio e il mare”, per la prima volta, aveva scritto una storia senza usare la parola shit. Quel romanzo era stato tradotto in italiano, nel 1952, da Fernanda Pivano. Traduzione stupenda, ricca di grande poesia ma con una svista non indifferente per chi sa di mare. Il vecchio Santiago, lo sfortunato pescatore di Cojimar che da quasi tre mesi non riusciva a pescar nulla di importante, nel romanzo riesce a prendere all’amo alcuni “pesci minori” che poi mangia crudi. Hemingway, questi pesci, li chiama “dolphin fish” e Nanda, d’istinto, ha tradotto con “delfini”. In realtà la definizione inglese, tipica del Caribe, indica la lampuga (nome scientifico: Coryphaena hippurus; Famiglia: Coryphaenidae (Corifenidi); Ordine: Perciformi). Mai un conoscitore del mare come Hemingway avrebbe fatto abboccare dei delfini a una lenza e, soprattutto, mai li avrebbe poi fatti mangiare, oltre a tutto crudi, dal suo vecchio pescatore. Per questo ero un po’ arrabbiato con Nanda Pivano. Ma ancora non la conoscevo.
Come sapete (sapreste) se avete (aveste) letto quel mio articolo di due anni or sono, nella seconda metà degli anni Ottanta aprii con Antonella, una piccola casa editrice e il nostro primo volume era dedicato alle inedite immagini che il grande fotografo cubano Raul Corrales aveva scattato a Ernest Hemingway quando lo scrittore viveva a Cuba. Mi serviva una introduzione per questo libro e la persona giusta per scriverla era, inesorabilmente, la Nanda. L’amico Valerio Monaco me la fece incontrare e Nanda mi regalò quel testo, come sempre straordinario per emozione e poesia. Da quel giorno diventammo amici. Ci furono molti incontri in quella sua casa di via Senato dove bisognava fare lo slalom fra montagne e montagne di libri per raggiungere le poche sedie sgombre davanti alla sua scrivania dove, mastodontica, dominava una vecchia Olivetti Lexicon 80. Ci furono cene: molte simpatiche con i pittori come Urano Palma e come Mario Arlati; altre “strane” come quel giorno che andammo al “Bolgia umana” di Enzo Jannacci e lui fu così emozionato di trovarsi improvvisamente davanti quella leggenda vivente che si inventò una improvvisa “mancanza di voce” per non dover parlare con lei. Ne ricordo una di drammatica, di quelle cene.
Avevo scoperto un ristorante, BBQ si chiamava, con alle pareti molte foto di Hemingway e mi era sembrato carino invitare la Nanda in quel posto che lei non conosceva. Quando ci andammo dovevano essersi fumati il melone o aver cambiato gestione, non so: le foto alle pareti non c’erano più e ci trattarono malissimo in una confusione indescrivibile di stupida gente vociante e insulsamente ridente com’è costume della cosidetta movida. Per rimediare a quella insopportabile serata, la invitai poco dopo in un piccolo ristorantino tranquillo di via Cirillo e con noi venne anche il pittore Enzo Forese che abita da quelle parti. In quei tempi Enzo stava dipingendo una composizione immensa di piccoli moduli quadrati ognuno dei quali riproduceva in modo ossessivo la “rondine” di Moana Pozzi. Ero leggermente imbarazzato quando, attraversando un cortile interno, Enzo ci portò al suo atelier per vedere i suoi lavori ma Nanda, abituata alle follie dei suoi amici poeti della beat generation, non fece una piega: “Oh, Moana: era così bella”, disse e di getto scrisse un testo che poi Enzo usò come introduzione ad un volumetto che raccoglieva molti suoi dipinti.
Una serata confusa era stata anche quella con Allen Ginsberg ai “Magazzini Generali”: il poeta era nervoso, l’impianto acustico non era perfetto, sentiva un noioso feedback in cuffia ma poi i guai tecnici si erano risolti e la lettura delle poesie dell’autore di “Jukebox all’idrogeno”aveva entusiasmato l’immenso pubblico. E Nanda era stata felice per quel successo del suo poeta preferito.
A Natale arrivavano i suoi regali: uno per Antonella e uno per me. Dolcissimi, scelti con cura e attenzione, deliziosi e inconsueti. E tutti accompagnati dai suoi bigliettini e da quella sua inevitabile firma con quadrifoglio.
Poi qualcuno mi affidò la direzione del mensile “No limits world” e subito chiesi a Nanda di collaborare. Ogni mese raccontava ai nostri lettori la vita “no limits” dei suoi grandi amici scrittori e poeti. La sorpresa arrivò nel 1997, quando Bompiani pubblicò il libro di Nanda “ Viaggio americano” che inizia con queste sue parole: “Quando mi sono accorta di aver scritto più di millecinquecento articoli sempre parlando di letteratura americana mi è venuto qualche dubbio sulla mia salute mentale.” Fra quei millecinquecento articoli, Nanda ne aveva scelti settantacinque per mettere assieme questo libro voluto da Elisabetta Sgarbi. La maggioranza era naturalmente apparsa sulle pagine del “Corriere della sera”, il quotidiano con cui la scrittrice aveva un preciso rapporto di lavoro, ma al secondo posto in questa specifica classifica e davanti a testate prestigiose come “Millelibri”, come “Vogue”, come “Il Giorno” o come “Amica” c’era il mio “No Limits world”. Una cosa che mi riempie di orgoglio ancora ora.
Nel 1992 io decisi che bisognava creare un “oggetto artistico” che esprimesse il concetto “no limits” e così, con la collaborazione di undici amici pittori, nacque il dodecaedro No Limits world che presentava un quadro per ciascuno dei suoi lati visibili. All’inconsueta iniziativa parteciparono, fra gli altri, Tadini, Lucio Del Pezzo, Arlati, Forese, Cascella, Albertini e Kee Levi, il più giovane dei figli di “Sonny”, il famoso progettista di barche veloci. Kee era artista di grande talento e “prometteva bene” per questo Alberto Peretti voleva diventarne l’agente e diede una festa in suo onore a casa sua. Fra i moltissimi invitati scoprii con grande gioia anche la Nanda, accerchiata come sempre da un nugolo di fans e di amici: “Antonio, ma chi è questo giovane pittore? Mi dicono sia bravo ma è inglese e io non ho voglia di parlare inglese tutta la sera. Come facciamo?” mi chiese. “Guarda che parla italiano come noi”, le spiegai. “Allora presentamelo: è un bel ragazzo!” sorrise. E chiacchierarono a lungo. In inglese.
“Cos’è no limits?” Un giorno decisi di porre questa domanda a quelle personalità che stimavo, da Enzo Biagi a Gillo Dorfles, da Giancarlo Iliprandi a Eugenio Scalfari e così via. Nell’elenco figurava naturalmente anche la Nanda: “Vieni a trovarmi che ne parliamo” mi disse al telefono. Andai e la trovai con in mano la sua agendina dei numeri telefonici. “Adesso ne chiamiamo un po’ e sentiamo” mi disse facendomi l’occhiolino. Chiamammo Gianni Riotta, allora vice direttore de “La Stampa” ma era in riunione. Fu poi la volta di Beppe Severgnini che disse di sì, disse e le promise che mi avrebbe scritto il suo pensiero in merito (cosa che poi non fece). “Ma perché fai questo?”, le chiesi. “Per aiutarti, non ti pare?” rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Le spiegai che quello che mi interessava era il suo pensiero. Prese allora un foglio bianco e una matita e incominciò a scrivere. Scrisse per qualche minuto e rideva mentre scriveva veloce. Poi piegò il foglio in tre e me lo allungò: “Leggilo quando torni al giornale”- disse. E aggiunse- “Vedrai, ti piacerà.” Mi è piaciuto al punto che quel manoscritto, messo sotto cornice, da quel giorno fa parte dell’arredamento di casa mia.
C’era poi stata quella presentazione di Ferruccio de Bortoli (al suo primo mandato come direttore del “Corriere della sera”) e di Nanda, alla Feltrinelli di via Manzoni, del libro di Liaty Pisani, “Un silenzio colpevole”: dai grandi scrittori nordamericani a questa strana italiana autrice di gialli di successo ma che paradossalmente venivano prima pubblicati all’estero in lingua tedesca e poi in patria, Nanda si occupava di tutto. Eravamo, quella sera, finiti tutti a cena a casa di Liaty e qui la mia amica mi aveva presentato a Donatella Barbieri, da qualche anno proprietaria della famosa Ali (Agenzia Letteraria Italiana) che era già stata del mio amico Erich Linder e successivamente di suo figlio Dennis. Inoltre mi aveva fatto conoscere anche i nuovi titolari della casa editrice Sperling & Kupfer per la quale, ben 36 anni prima, avevo scritto il mio libro “Barche a motore”: stranezze della vita che, nella magia che emanava la Nanda, diventavano banali e semplici realtà. Anche in quello strano salotto tutti erano attorno a Nanda, a coccolarla, a cercarne il sorriso, quasi a chiedere la sua benedizione. In realtà volevamo tutti solo ricambiare il suo straripante affetto.
Un giorno mi chiamò al telefono: “Parto. Vado in America. Farò un film!” mi disse, mescolando le parole con quelle sue dolci risatine. “Un film?” “Sì, un ripercorso americano sulle tracce dei miei amici scrittori e poeti: non morirò massaia!” affermò felice. Nanda massaia? Quanto di più improbabile si potesse immaginare: non aveva neppure una pentola in casa. Di notte scriveva, la mattina dormiva, al pomeriggio trafficava fra gli impegni di lavoro e gli amici, la sera usciva a cena per il suo unico pasto che spesso si consumava al vicino ristorante “Al girarrosto” che usava come mensa personale, anche qui coccolata dai gestori e dal personale.
Poco prima di compiere i suoi novanta anni, Nanda diede una intervista a un tabloid e alla domanda: “Cosa vuoi di regalo per questo tuo importante compleanno?” rispose: “Una grande fotografia di Hemingway”. Così le regalai una gigantografia tratta da un negativo di Raul Corrales in cui “Papa” Ernest era ritratto di schiena, sul flying bridge, ai comandi della sua Pilar: “Oh, Antonio: era così bello Hemingway! E io, stupida, non ci sono nemmeno andata a letto…” mi telefonò qualche giorno dopo. Le ricordai che il 14 giugno del 1992 aveva scritto sul “Corriere della sera”: “…a piedi nudi e gambe larghe, un visiera verde, un camiciotto lacero e pantaloni bianchi sporchi di sangue di pesce: questa foto di Hemingway è stata divulgata nell’album fotografico Cojimar (il porticciolo dove Hemingway attraccava la sua barca) pubblicato dalle edizioni A&A di Antonio Soccol e Antonella.”
La conosceva, la Nanda, quella foto non solo per averla vista nel nostro album fotografico ma anche per averla vista alla galleria “Il diaframma” di Lanfranco Colombo, quella di via Brera, per aver partecipato al vernissage che avevo organizzato per la mostra dedicata ai miei amici fotografi cubani Alberto Korda e Raul Corrales: “Dov’è, dov’è il mio direttore preferito?” era entrata gridando, la Nanda, buttandomi le braccia al collo fra lo stupore dei presenti.
Era proprio quella la gigantografia che le avevo regalato 15 anni dopo: la sintesi perfetta del rapporto fra l’uomo e il mare. Così come Nanda era la sintesi perfetta del rapporto fra l’umanità e la letteratura, la poesia, la musica, l’arte. Lei, diplomata in pianoforte, amava il jazz e ne tratteggiava gli artisti come pochi: straordinario il suo articolo su Gerry Mulligan a Milano, apparso su “Vogue” di giugno 1982, poco dopo lo straordinario concerto che il grande sassofonista aveva tenuto al teatro Lirico. Lei, amante della musica classica, considerava grandissimi amici i cantautori come De André, Cage, Morrison, Bowie, Vasco (Rossi), Cobain, Ligabue, Bruce (Springsteen), Jovanotti, Patti (Smith), Francesco (Guccini), Lou (Reed), la PFM e Vinicio (Capossela). E tanti tanti altri.
Ma quanti amici aveva Nanda Pivano? Tanti. O, più banalmente, tutti. Tutti quelli che l’hanno conosciuta e hanno avuto la fortuna di frequentarla. Perché era impossibile resistere alla sua straordinaria generosità. Perché era impossibile resistere alla sua grande dolcezza. Perché era impossibile resistere alla sua leggerezza, alla sua ironia. Alla sua incredibile voglia di libertà. Perché, semplicemente, era impossibile resisterle.
Foto: depadova.it
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Caro Antonio, mi hai descritto con tanto cuore.
Ma diciamo la verità: chi ti scrive è solo un casinista, decadente, neanche tanto simpatico, rompicoglioni, mai buon giornalista e navigatore molto ex.
Leggo ora, per la prima volta, il tuo pezzo ciao Nanda. Ho pianto le ultime lacrime che erano rimaste nascoste per caso in fondo a un’anima di gomma.
Sono stato amico di Nanda. Anzi è lei stata dolce amica delle mie ansie. Ho amato ciò che amava e scriveva. Ma allora non ne ho capito il senso immerso, nella superba e permalosa ignoranza del cercatore di avventure a buon mercato e amore facile.
Tu hai capito tutto e subito. Hai amato il bello di Nanda con i capricci e le debolezze di una donna tanto coraggiosa che aveva vissuto sulla pelle esperienze forti e per noi borghesi sconosciute.
Persone come te avrebbero meritato di più. Di fare lo scrittore, come ho sempre detto. Il saggista. E non paladino del giusto in un mondo che si identifica nel Piccolo Cesare.
Bravo Antonio. Prenditi il mio attestato di stima. Anche se so che vale quel che vale.
Ti voglio bene, a modo mio.
Valerio