Libri per chi ama il mare
Naufrago volontario
di Alain Bombard. Magenes Editoriale, 220 pagine, 14 euro, aprile 2003.
Nei primi anni Cinquanta, Alain Bombard aveva 27 anni ed era medico condotto a Boulogne-sur-Mer, un paesino del nord della Francia che si affaccia sul Canale della Manica. Una mattina di primavera viene svegliato di bonora: “Che succede?” “Un naufragio alla diga di Carnot” “Vengo subito”.
Fa freddo, ma il mare è piatto come una tavola e perciò il medico non si preoccupa molto: la diga si protende molto nel porto: pur essendo molto pericolosa con vento forte, ci si può salire agevolmente quando il mare è tranquillo grazie a scale disposte verso il largo ogni venti metri.
Racconta Bombard:
Si sente un clacson: il camion dei pompieri. La porta si spalanca e io mi faccio avanti, fiero della mia importanza… Non dimenticherò mai lo spettacolo di quarantatré uomini, ammucchiati gli uni sugli altri come burattini slogati, a piedi nudi e tutti provvisti del giubbotto di salvataggio. Nonostante i nostri sforzi, quel giorno non siamo riusciti a rianimare nessuno di loro. Bilancio di un minuto di errore: 43 morti, 78 orfani.
A quei tempi, Boulogne perdeva ogni anno in mare da 100 a 150 dei suoi figli e circa 200mila persone morivano così in tutto il mondo.
Bombard inizia a valutare e a capire che quello che uccide non è “il mare nemico” ma l’idea, la paura, l’angoscia che distruggono l’uomo nel momento che diventa “naufrago”. Scrive: “Quando la nave va a picco, l’uomo crede che l’universo sprofondi, e poiché gli mancano due tavole sotto ai piedi, gli mancano al tempo stesso il coraggio e la ragione. Anche se in quel momento trova un gommone di salvataggio, non per questo è salvo: vi resta senza muoversi, nella contemplazione della propria miseria. E già non vive più. Preso dalla notte, intirizzito dall’acqua e dal vento, spaventato dal vuoto, dal rumore o dal silenzio, gli bastano tre giorni per arrivare a morire.”
E aggiunge questo drammatico grido: “Naufraghi delle leggende, vittime rigide e frettolose, io so che voi non siete morti per colpa del mare, che non siete morti per fame, che non siete morti per sete: sballottati sotto il grido dei gabbiani, voi siete morti per spavento.”
In sintesi: molti naufraghi muoiono ben prima che le loro condizioni fisiche o fisiologiche siano divenute, di per se stesse, mortali.
E allora Bombard che fa? Decide di dare un esempio clamoroso: di rendersi “naufrago volontario”.
Attraverso una serie di iniziative condotte nei primi tempi assieme ad un amico e poi da solo, su un piccolo gommone che ha chiamato “Hérétique”, si fa trainare al largo delle Canarie e senza viveri né strumenti (tranne un orologio che poi lo tradirà per la banale rottura del cinturino) si lascia andare alla deriva. E, in 65 giorni, la corrente oceanica e i venti lo portano dall’altra parte dell’Atlantico, a Barbados.
Il tutto è raccontato in modo stupendo nel suo libro “Naufrago volontario”, edito in Italia, negli anni Cinquanta, da Garzanti. Questo non è un diario di bordo come centinaia di altri scritti da navigatori solitari. E’ un libro sacro che ha dato una svolta alla vita di tutti coloro che hanno avuto modo di leggerlo. E a me in modo particolare. L’esperienza del medico condotto francese mi ha fatto persino litigare brutalmente con alcuni miei amici, superlaureati in medicina e primari universitari: nessuno di loro voleva accettare che Bombard, pur di non morire disidratato, avesse spesso bevuto acqua di mare con la inevitabile conseguenza di una debilitante dissenteria, certo, ma altresì con il vantaggio di sopravvivere.
Purtroppo, verso la metà degli anni Settanta, la Garzanti smise di ristampare il libro. A nulla servirono le suppliche di un influente giornalista come Carlo Marincovich e, men che meno, le mie. Ad un certo punto si era addirittura creata una “cordata” di persone che avrebbero messo mano al proprio portafoglio purché questo testo, fondamentale per la sopravvivenza in mare, tornasse in libreria. Ma la Garzanti ignorava ogni approccio al punto che stizzito (meglio: incazzato) scrissi un articolo per la rivista “Mondo sommerso” in cui minacciavo quell’editore di causa penale per strage di innocenti. Non successe nulla. All’italiana, insomma.
Devo anche dire che, nel 1966, avevo avuto modo di conoscere personalmente Alain Bombard, diventato, nel frattempo, direttore del Centro di ricerche marine di Les Embiez, in Francia. E di esserne poi diventato amico: un uomo di una umiltà disarmante e di una umanità immensa. Straordinario. Più volte, in occasione dei nostri successivi incontri, gli avevo espresso la mia opinione sul suo libro: “Dovrebbe esserne obbligatoria la lettura a chiunque metta piede su un natante: sia esso una barca da diporto o una nave commerciale (traghetto, porta-container o love-boat che sia). E bisognerebbe imporne la perfetta conoscenza a tutti coloro che chiedono di avere una patente nautica”. Alain a queste mie affermazioni mi sorrideva e diceva: “Come sei giovane e ingenuo”.
Alla fine, e nonostante la mia testardaggine sia notoriamente megagalattica, abbandonai l’umanità al suo destino di ignorante. Maledii l’amico che mi aveva chiesto in prestito quel prezioso libro e non me lo aveva mai più reso (purtroppo un grande poeta cubano, Josè Martì, aveva già scritto: “rubare un libro non è un furto”) , andai ad una biblioteca comunale, me lo fotocopiai (allora si poteva ancora fare, oggi è illegale) e me lo feci rilegare. E lo rimisi al suo posto nella mia biblioteca di casa.
Con mia grandissima sorpresa, nell’estate del 2003, in una delle mie rituali visite ad una libreria specializzata in libri di mare, lo vidi in bella esposizione sul bancone delle novità.
La Editoriale Magenes lo aveva ripubblicato nella sua collana “Maree. Storie di mare” diretta da Lucia Pozzo per la traduzione di Chiara Ghidelli. Ne comprai subito parecchie copie per farne omaggio agli amici che, “stronzi” perché più giovani di me, non avevano avuto modo di leggerlo e ciononostante andavano per mare.
Magenes pubblica ottime cose sul mare e merita un plauso, ma questa sua iniziativa è (stata) davvero stupenda. Bravo. (A.S.)
Zentime Atlantico
di Alex Carozzo, Nutrimenti editrice, 182 pagine, 15,00 euro, 2008
In via Bigli, a Milano, una targa ricorda che, per alcuni anni (dal 1894 al 1900), in quel palazzo visse “giovinetto” Albert Einstein, un ragazzo diventato poi famoso per aver scoperto una “sconvolgente” realtà universale (impropriamente nota come teoria della relatività) e averla condensata in una formula di appena 4 battute: E = MC².
Il mio ufficio, per pura combinazione, è proprio a pochi passi da questo palazzo e dalla sua targa e, ogni volta che ci passo davanti, mi viene in mente una straordinaria definizione, sempre di Einstein, che garantiva: “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana. Sulla prima ho dei dubbi.”
Se ne cercate conferma provate ad andarvi a leggere qualche forum di quelli che sul web raccolgono i pensieri e le opinioni dei velisti.
Intendiamoci: 1) andare a vela è un modo stupendo per vivere il mare e sul mare; 2) non tutti i velisti sono stupidi. Anzi. Ma la larga maggioranza di coloro che scrivono su questi forum lo è in modo indiscutibile: si sentono, questi “poveracci”, unici depositari della “verità” e si propongono con una arroganza che, forse, neppure Giuliano Ferrara e l’onorevole Paola Binetti, messi assieme, riescono a superarli per integralismo altrettanto disgustoso.
Personalmente non sono mai riuscito a pensare il mare come qualcosa divisibile in settori: il mare è. E basta.
Non può essere solo una massa liquida da percorrere a nuoto, o a pedali, o a remi, o a vela o a motore. La subacquea non può essere solo apnea, oppure solo immersione con Aro, oppure con Ara, oppure con Nitrox, così come la voga non può essere solo tipo canottaggio oppure tipo kaiak oppure ancora alla veneziana. Vivere e godere dei fondali marini è stupendo comunque ci si immerga, avanzare a colpi di remo è meraviglioso sia che il corpo sia seduto, inginocchiato oppure in piedi.
Lo stesso vale naturalmente anche per la vela: navigare su un Swan 112RS non può esser meglio che farlo su uno scafo dell’ America’s Cup: sì, una barca può darti emozioni che un’ altra non ti assicura ma alla fine, se vai a ben guardare, gli elementi e le positività si compensano: la dolcezza di una morbida navigazione con le vele a farfalla vale l’adrenalina di una feroce bolina.
Della navigazione con le imbarcazioni a motore ne parliamo sempre su questo blog e quindi non mi soffermo su questa nostra quotidiana “croce e delizia”.
Dicevo dei velisti: ne conosco parecchi e molti ne stimo. Uno mi stupisce. Sempre. Si chiama Alex Carozzo ed è stato, in assoluto, il primo “navigatore solitario italiano”. Non sto parlando qui di imprese estreme alla Ambrogio Fogar (caro e sfortunato amico) o di regate vinte alla Giovanni Soldini ma di tempi e modi.
Alex ha fatto la prima traversata invernale del Pacifico, dal Giappone alla California, quasi cinquanta anni or sono quando la parola “navigatore solitario” non esisteva nelle cronache italiane. E lo ha fatto con una barca, il “Golden Lion”, che si era costruito -su suo progetto- a tempo perso e solo con le proprie mani dentro la stiva di un “Liberty” dove lavorava come ufficiale di rotta. Uno scafo realizzato tutto con materiale di recupero e il cui albero era un palo del telefono divelto da un uragano e abbandonato sulla strada di un paese (di mare) giapponese.
Tutta questa straordinaria avventura, Alex l’ha ottimamente raccontata nel suo libro “Qualsiasi oceano va bene”, edito da Mursia e esaurito da decine di anni. Naturalmente il famoso editore si guarda bene dal ristampare un testo così poco “up to date”: business is business, (capite a mia?) o non vorrete mica che una casa editrice di quel genere voglia far cultura del mare, no? La Mursia… poi, quella che ha edito il nefasto “Navigazione a motore con cattivo tempo” di Dag Pike…Via, non scherziamo.
Un libro a Carozzo gliel’ho pubblicato io. Nel 1990, cioè 18 anni fa, con la partecipazione (economica) di Vittorio Sacchi.
Con Alex ci conosciamo dal… boh? Da sempre, mi pare. Quella volta arrivò a casa mia che era una sera d’autunno del ’89. All’improvviso, come fa sempre. Aveva con sé due borsette di tela e un pacco di stoffa. Nelle borse si intravedevano un antico binocolo, un sestante, alcune carte nautiche, una Nikonos del 1965 e, avvolte i vecchi quotidiani, due cineprese super otto. “Dove vai?” gli chiesi.
“A Tenerife. Con un volo charter. Domattina. Mi porti sino a Malpensa?” mi rispose.
“A Tenerife? A fare…?”.
“Un giro per le isole”.
“Quali isole?”
“Beh, sì; per mare di isole ce ne sono davvero tante. Bisognerà vedere dove porta il vento”, argomentò, spegnendo la luce e addormentandosi immediatamente.
La mattina seguente, caricando in macchina quel pacco di stoffa, gli chiesi: “Cos’è?”
Un regalo della Angiola: dieci metri quadrati di tela di cotone per tendoni: roba da “bar Sport”. E un po’ di stoffa bianca più leggera.
Vuoi aprire un bar sulla spiaggia?
Vedremo
disse guardando lontano. Con gente come lui è inutile domandare: li conosco bene quei silenzi che parlano da soli, se hai davvero voglia di ascoltare i pensieri. Persi le sue tracce per un po’ di mesi: normale. Alex è capace di sparire per anni e poi suonarti il campanello di casa come se ne fosse uscito pochi minuti prima. Inutile fingere stupore.
Così non feci domande quando, il 26 aprile del ’90, suonò il telefono e mi disse: “Parto. Domani. Vado di là.” Era chiaro che “di là” era dall’altra parte dell’Atlantico: mancavano circa due anni alle celebrazioni per la scoperta dell’America….
“Che barca?” domandai.
“Ti spedisco un paio di rullini: fammeli sviluppare a Milano che qui non mi fido. Così la vedi, la barca. Quando arrivo, ti chiamo: ciao”,
disse e agganciò.
La barca era una scialuppa di salvataggio comprata da un cantiere di demolizione di vecchi piroscafi: una robetta sgangherata in vetroresina da pochi metri. “Era l’ultima, su in alto nella pila e questa mi è capitata. Ma per far la rotta di Colombo andrà bene” c’era scritto su un foglietto. Aveva dipinto a prua un bel paio di dolci occhi, l’aveva dotata di un bompresso, di un piccolo albero, la stoffa da tendoni era diventata la randa mentre quella bianca era il fiocco e una cassa di legnaccio che aveva contenuto (per il trasporto) un motore era la “cabina”. L’aveva chiamata, la barca, “Zentime”.
Si rifece vivo quaranta giorni dopo: “Colombo ci ha messo sette giorni di meno: sono a San Salvador”, disse. Aveva scritto un diario di bordo: gli proposi di pubblicarlo e accettò di buon grado. Grazie ai buoni uffici di Astrid Muckerman, allora Segretario Generale dell’Ucina, riuscimmo a far sì che una love boat della compagnia di navigazione Costa Crociere imbarcasse la scialuppa “Zentime” e la riportasse in Italia. La sbarcarono a Genova pochi giorni prima dell’inizio del Salone Nautico di quell’anno. Sempre Astrid ci regalò, al Salone, uno stand all’aperto dove la barca venne esposta e dove venne anche presentato il libro-diario. Avrei voluto titolarlo “Qualsiasi barca va bene” ma Alex impose “Zentime Atlantico”.
Fu quello un Salone ricco di giorni piovosi ma anche di soddisfazioni. La gente guardava incredula quella strana, assurda barchetta e non poteva credere che un uomo l’avesse usata per traversare un oceano… In quel mondo del lusso nessuno poteva accettare che la cabina fosse una scatola da imballaggio ma poi Carozzo spiegava, raccontava e illustrava. La gente comprava il libro e Alex, gentile, faceva una dedica e un disegnino a tutti.
Successivamente lo scafo venne regalato al Museo Storico Navale di Venezia, il libro andò rapidamente esaurito e io fui preso da altri turbamenti mentre Alex traversò nuovamente l’Atlantico, questa volta con un “topo” veneziano a conferma che non solo “qualsiasi oceano” ma proprio anche “qualsiasi barca” va bene. Purché si sappia andar per mare, ovviamente.
Nel marzo di quest’anno Alex mi ha telefonato: “ Si chiama “Dreams” e penso sarà l’ultima”, mi ha confidato. Voleva dire che stava costruendosi una ennesima barca e che l’aveva chiamata “Dreams”, sogni. E poi, come buttandola là, ha aggiunto: “Senti: l’editore “Nutrimenti” di Roma sarebbe disposto a ristampare “Zentime Atlantico”: niente in contrario?”. “No, anzi felicissimo: e con l’augurio che abbia lo stesso buon esito della prima edizione”.
Detto fatto, il libro è già in libreria. Se volete un consiglio compratelo e leggetelo. (Se non lo trovate potete richiederlo a www.nutrimenti.net .) Non solo ne vale la pena ma è anche un modo per capire davvero una faccia stupenda e misconosciuta dell’andar per mare. Per vero amore e non per vanagloria. O, peggio, per stupidità. Come quella di molti che scrivono di vela sui forum del web. (A.S.)
Il principe delle immagini
di Gaetano Cafiero, Magenes/il Mare, 200 pagine, 19,00 euro, 2008
In copertina c’è una stupenda Anna Magnani, fotografata da Fosco Maraini. Nuota sott’acqua in apnea, occhi e bocca aperti in un sorriso “feroce per il cuore” di coloro (e siamo in tantissimi, un esercito) che amano “Nannarella”. Il protagonista è Francesco Alliata di Villafranca (che poi, a seguire, dispone di altri 23 titoli nobiliari), pioniere del cinema subacqueo. Il testo lo ha scritto Gaetano Cafiero, “Ninì” per tutti.
Per antica definizione “Ninì” è “un vero giornalista prestato alla subacquea”: nel 1982 la Rassegna Internazionale delle Attività Subacquee di Ustica gli ha conferito il premio Tridente d’Oro per l’impegno profuso nella divulgazione delle attività subacquee.
Ha collaborato con “tutte” (ma proprio tutte) le riviste di quel settore, ha firmato il commento di numerosi documentari realizzati dalla televisione da Gianfranco Bernabei, Salvatore Braca, Pippo Cappellano, Paolo Notarbartolo di Sciara, Gigi Oliviero, e Folco Quilici. E ha scritto moltissimi libri sull’argomento. Il primo è “Vita da sub” e risale al 1977. Lo scorso anno è stata la volta di “La piroga vuota. Una storia di Gianni Roghi, il giornalista che divulgava la scienza vivendone l’avventura”. Quest’anno, a finire sotto la sua penna, è stato un altro straordinario personaggio, questo principe siciliano che per primo ha girato e spesso prodotto documentari e film sott’acqua.
Dalla mattanza dei tonni (subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) a “Sesto continente” la prima leggendaria pellicola a colori girata da Bruno Vailati e Folco Quilici in occasione della Spedizione Nazionale Italiana alle isole Dahlak nel 1953 che ha fatto innamorare perdutamente della subacquea tutta la mia generazione (io compreso), dal film “Vulcano” con Anna Magnani (quest’anno è il centenario della sua nascita), Rossano Brazzi, Geraldine Brooks per la regia di William Dieterle all’altro famosissimo film, sempre con la Magnani, “La carrozza d’oro” che aveva addirittura la regia di Jean Renoir.
E’, insomma, la storia dei famosi “ragazzi della Panaria Film”: Pietro Moncada, Fosco Maraini (il padre della nota scrittrice Dacia), Renzo Avanzo, Quintino di Napoli e ovviamente Francesco Alliata. Gente che stava sott’acqua per ore con addosso due o tre paia di mutandoni di lana e altrettanti maglioni (non esistevano ancora le mute di neoprene) per girare magari poche centinaia di metri di pellicola. Una storia piena di fascino e di amore per il mare. E di grande cultura.
Bene, insomma, ha fatto Giulia D’Angelo, direttrice della nuova collana MareMagnum della Magenes, a esordire con questo titolo che la vede impegnata anche sul piano della produzione assieme alla sua (e di suo figlio) Libreria Internazionale il Mare, di Roma (cioè al più importante e storico negozi di libri di mare che ci sia in Italia).
Quanto al mio amico “Ninì”, penna facile e felice, uno di quegli affettuosi abbracci, così come ci scambiamo da ben quarantatrè anni… (A.S.)
Un canto clandestino saliva dall’abisso
di Mimmo Sammartino, Sellerio editore, Palermo, 118 pagg.; 9,00 euro; 2006
Titolo in prima pagina, con foto a colori, su “la Repubblica “ di ieri: “La strage dei clandestini: altri 12 morti in mare”.
Titolo in prima pagina, con foto a colori, su “la Repubblica” di oggi: “Malore del Cavaliere, poi si riprende: sto bene”. E’ bastata una “eccessiva sudorazione e il calo degli zuccheri” di un uomo per scalzare dalla prima pagina dodici morti. Sembrerò blasfemo (ma mi conforta la matematica): se anche quella eccessiva sudorazione fosse, malauguratamente, stata fatale a chi l’aveva subita, il bilancio sarebbe pur sempre stato di uno a dodici.
Che poi quei dodici siano esseri umani addirittura senza nome, senza identità, senza portofoglio mentre “l’altro” sia uno degli uomini più ricchi del mondo e , in Italia, il più potente, mi sembra, dal punto di vista umano, dettaglio del tutto trascurabile. O un uomo è sempre un uomo, oppure non gioco più. Ma per i media è così: dodici clandestini morti è notizia da prima pagina solo il giorno in cui la si racconta. Dal giorno dopo, neppure tre righe in cronaca. Questi morti non sono “uomini morti”, sono solo un titolo.
Nel 1996 (nella notte fra il 25 e il 26 dicembre), un assurdo naufragio affonda, nel Canale di Sicilia (nelle acque di Portopalo), un peschereccio maltese. Ci sono 283 morti: sono clandestini. Centosessanta venivano da piccoli villaggi del Punjab indiano, trentuno dal Pakistan, novantadue dallo Sri Lanka. Solo ventinove naufraghi riescono a salvarsi.
Sbarcati in Grecia raccontano il dramma vissuto: non vengono creduti e saranno esplusi. La notizia, cinque giorni dopo, giunge anche in Italia. Le autorità italiane, sulla base di informazioni frammentarie e non confermate di un incidente capitato probabilmente in acque extra territoriali, tergiversano e si ha l’impressione che tirino ad ignorare l’evento.
Il 15 giugno del 2001 (quasi cinque anni dopo), il quotidiano “la Repubblica” pubblica le immagini scattate da un robot subacqueo a 18 miglia da Portopalo: sono quelle del relitto del peschereccio maltese. La notizia era “fondata”.
Mimmo Sammartino è un giornalista che scrive anche testi di teatro. Ha dedicato una sua bellissima “lunga lirica” a questo dramma del mare. E Sellerio, il bravo editore di Palermo, gliel’ha pubblicata.
Sammartino ha una penna straordinaria. Il suo incipit è travolgente per poesia ed efficienza, partecipazione e denuncia. Scrive:
I fiati di tutti gli inverni si erano dati appuntamento a mezzogiorno in uno spigolo di terra affacciato sull’acqua. Una spiaggia desolata mostrava le cicatrici dell’ultima mareggiata. Il 4 gennaio 1997 un vento tagliente scuoteva la noia di un sabato come tanti. Il paese stava ancora smaltendo, a sorsi di caffè amaro, gli eccessi dei recenti cenoni. I giorni di quel piccolo mondo erano obbligati, da tradizione e calendario, a negare la clemenza di un digiuno. Per buonaugurio e rituale auspicio di abbondanza.
L’antidoto contro la nausea restava un cicchetto e il bisogno impellente di una boccata di vento di mare. Vento da catturare fino a sentirselo scivolare nel circuito elettrico delle vene. Vento da masticare per restituire impeto al sangue e leggerezza al respiro. Il 4 gennaio 1997 il ronzio di una radio frullava parole nell’aria sporca di sabbia…..
Il resto va letto: raramente una tragedia del mare ha avuto un omaggio così. Raramente il mare ha ispirato tanto l’animo artistico di un uomo. (A.S.)
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