La barca non e’… un’auto (IX puntata) di Antonio Soccol
di Antonio Soccol
Chiedo alla mia assistente di cercarmi un taxi. Lei compone un certo numero telefonico e, scavalcando la centrale del radio-taxi, si mette in automatico in una rete dalla quale il tassista più vicino deduce che un abbonato sta cercando una macchina. Sempre in automatico si ha la conferma, il tempo previsto per l’arrivo della vettura e la sua sigla. Magia del GPS.
Salgo nella nuova automobile di mio nipote Sandro e lui mi dice: “Guarda, zio: questo è il percorso che dovrei fare per venirti a trovare quando sei in Sicilia: sono esattamente milletrecentosessantasei chilometri da qui dove siamo ora sino alla porta di casa tua” e sul suo gps in effetti si vede un disegno che corre lungo tutto lo stivale, vola sullo Stretto di Messina (in attesa di un ponte che mai si farà) e sale alle pendici dell’Etna.
Niente di speciale, direte voi. Certo: un lavoro banale per un gps.
Sino a pochi anni or sono, era un sogno. Ora il gps è in dotazione su ogni automobile.
Proprio oggi il “Corriere della Sera” pubblica un articolo di Chiara Sottocorona che racconta di alcuni interessanti esperimenti e dimostrazioni che si sono fatte nel sud della Francia in occasione di un simposio al quale hanno partecipato duecento ricercatori, ingegneri e manager dell’industria automobilistica. Il cosiddetto “summit” si chiamava “Its 2007” (Intelligent transport system) ed era organizzato da Eurecom Institut (Centro di formazione e ricerca per ingegneri di telecomunicazioni) e dal Nict giapponese (National Institut of Information and Communications Technology).
L’innovazione più affascinante è che fra un po’ le auto parleranno fra di loro in tempo reale e ci informeranno sullo stato del traffico. Cinquecento metri più avanti della vostra Ferrari succede un incidente e si crea subito un “codone”? Nessuna paura: la vostra macchina- se predisposta- ne viene informata immediatamente e vi da tutto il tempo per ridurre la velocità e fermarvi prima di piombare a tutta manetta sul mucchio e compiere sfracelli.
Una vettura impazzisce e fa un salto di corsia? In un nanosecondo voi lo venite a sapere e vi comportate di conseguenza. Appena prima di uno svincolo dell’autostrada c’è una coda di venti chilometri? E voi uscite a quel casello, scavalcate l’ingorgo e rientrate su una autostrada libera e senza traffico… A questo punto divertitevi a ipotizzare quel che vi passa per la mente: un banco di nebbia improvviso, la perdita di una parte del carico da parte di un camion, una ruota che si sgonfia, una botta di sonno… Insomma tutto quello che ha di negativo il traffico. Ecco: fra un po’ non si dovrà più dover dire: “Ah,…l’avessi saputo…”
Funziona? Per il momento siamo alla fase sperimentale. Ma da questa “potenzialità” è nato il consorzio “Car to car”, al quale partecipano tutti i grandi costruttori mondiali dell’industria automobilistica. “Prossimo test”- scrive Chiara Sottocorona- “in novembre nell’area di Francoforte.” Mentre Rudolf Mietzner, coordinatore del progetto europeo, garantisce: “Saranno coinvolte circa 600 auto di diverse marche tra cui Bmw, Volkswagen, Audi, Opel, Chrysler. Tutte dotate di tecnologie comunicanti”. (Brucia un po’ non vedere i nomi di Alfa, Ferrari, Fiat, Lancia e Maserati in quell’elenco ma, chissà, magari è solo una dimenticanza).
E in mare?
Beh, l’ho già scritto su queste pagine. Ai “miei tempi”, cioè quando correvo in offshore, ci si trovava un’oretta prima del via a bere un caffè al Club che ospitava e organizzava la gara e si piegava a fette “La Gazzetta dello sport” in modo che un lato del quotidiano coincidesse con la rotta che si doveva fare in gara e l’altro passasse al centro della rosa dei venti della carta nautica. Poi si riportavano i gradi della varie tratte su qualche cosa che si potesse leggere durante la gara: “Mi hanno dato un casco e un pennarello” titolò Carlo Marincovich, ottimo collega imbarcato come “navigatore esperto” su uno scafo americano durante un Trofeo Napoli dei primi anni Settanta. Con il pennarello doveva scrivere sulla coperta dell’imbarcazione le varie rotte previste dal percorso di gara.
Come mai facevamo le rotte in modo così approssimativo? Perché le bussole che avevamo non erano molto frenate: ogni onda comportava una apparente indicazione di rotta di quindici, venti, talvolta anche trenta gradi diversa da quella reale. In buona sintesi si doveva fare una media… e quindi avere i gradi sino alla precisione estrema era abbastanza inutile. Certo, ho visto un campione del mondo “mancare” Bastia e finire dall’altra parte della Corsica… e ho anche visto altri venerati campioni correre con sopra la testa un aeroplanino che dava la rotta esatta… alla barca!
Il mio amico Guido B. fu il primo a mettersi a bordo del suo “Roar” da corsa un lettore di radiofaro: nessuno meglio di lui, alla Viareggio-Bastia-Viareggio di quegli anni, arrivava sparato e preciso su Bastia…
Nel 1968 in Gran Bretagna, alla Cowes-Torquay-Cowes successe un fatto curioso. Il mare era piuttosto incazzato al punto da far affondare parecchie delle barche iscritte alla mitica competizione e fra queste anche quella del favorito alla vittoria, Vincenzo Balestrieri. Dovete sapere che per andare a Torquay si deve attraversare la Lyme Bay che è un posto d’inferno quando il mare è calmo perché ci sono moltissime “races” cioè punti dove l’acqua bolle per lo scontro delle correnti sottomarine con gli sbalzi del fondale (un fenomeno analogo in Mediterraneo si può notare quotidianamente nello Stretto di Messina).
Quando si passa dentro ad una “race” la barca diventa tarantolata: beccheggia e rolla senza soluzione di continuità e tenerla in rotta non è semplice. Beh, immaginatevi che casino quando il mare è anche formato. “Surfury”, un 36’ (10,97 metri) dei fratelli Jimmy e Charles Gardner l’attraversò, la Lyme Bay, due volte (all’andata e al ritorno) senza mai vedere neppure l’ombra di un altro concorrente ma quando raggiunse la linea del traguardo trovò già ormeggiato al posto riservato al “winner”, “Telstar”, una barchetta da 25’ (neppure 8 metri).
Cos’era successo? Che quel furbetto di Tommy Sopwith che pilotava “Telstar” aveva intuito che sotto costa, nella Lyme Bay, il mare era molto ma molto più calmo e quindi, pur allungando di un bel po’ la sua rotta, aveva sfruttato al massimo il vantaggio di correre sul piatto. E aveva vinto la gara più prestigiosa d’Europa.
Molto tempo prima qualcuno aveva fatto dire a Mamma Volpe: “Figli miei, la strada più corta non è quella dritta ma sempre e solo quella sottovento, quella in cui i cani del cacciatore non vi sentono…”. Per mare spesso è lo stesso.
Ai giorni nostri non c’è chi a bordo della sua “caravella” non abbia un gps. La bussola c’è giusto perché la richiedono le leggi così come impongono anche le carte nautiche delle aree dove si naviga ma sono anni che io non vedo un diportista a motore guardare una carta nautica, usare le parallele, tracciare una rotta.
Qualche rimasuglio di queste antiche abitudini resiste in Alto Adriatico dove tutti sanno che a circa venti miglia dalla nostra costa il segnale dei gps viene oscurato per motivi militari e quindi un occhio alla vecchia cara bussola bisogna darlo se da Cesenatico vuoi arrivare a Pola invece che a Lussinpiccolo….
Non che la bussola sia infallibile, per carità…. Fate che il vostro caro amico Fabrizio si dimentichi sotto a un giornale poggiato sul vostro “cruscotto strumenti”, una chiave inglese (di quelle che con la loro massa ferrosa fanno impazzire l’ago magnetico) e davvero quando arrivate dall’altra parte vi conviene scendere a terra e con assoluta disinvoltura comprare una cartolina postale per capire dove siete arrivati: “Toh, siamo a Sebenico e non a Spalato…”. E’ già capitato.
E’ un po’ come quando di notte (ovviamente, si tratta di “una notte buia e tempestosa” se no che gusto c’è?) vi avvicinate ad un tratto di costa che non conoscete e cercate nel buio di leggere il linguaggio dei fari: “uno, due, tre, quattro: lampo… uno, due, tre: lampo…” contate speranzosi ma i lampi cambiano continuamente di frequenza e voi incominciate a dubitare della vostra vista (“Sarà il sale delle ondate?”), oppure della vostra integrità mentale (“Sarà l’arterio sclerosi o l’Alzheimer?”). Finché, alla fine la verità si fa luce (è il caso di dirlo) e capite che state tenendo d’occhio solo una curva su una buia collinetta dove sfrecciano le automobili con gli abbaglianti accesi… e che il faro che cercate è cinque miglia più a nord… Anche questo è capitato.
Oggi il gps ci impedisce sciocchezze del genere. Il meteo ci trasmette in continuazione messaggi sia fonici che grafici sullo stato del mare attorno a noi e possiamo scegliere la rotta che ci pare più vantaggiosa per la nostra navigazione. Perfetto. Sperando sempre che il tutto funzioni perché se per puro caso c’è un black out di energia elettrica…allora son dolori. Ma perché esser pessimisti? La nostra auto, pardon… la nostra barca non ci tradirà mai: parola di Alessandro Volta.
Però, magari, un servizio “Boat to boat” potrebbe anche risultare utile ai fini della sicurezza: qualcosa di scientifico e agnostico che trasferisca da “apparecchio a apparecchio” (insomma senza umana adrenalina) le vere condizioni del mare e del vento e non quelle balle clamorose che ogni tanto si sentono via radio. Chissà, magari un giorno ci arriveremo. E, di nuovo, diremo grazie all’industria automobilistica. Anche se, per amor di verità, dobbiamo ricordare che il gps è stato strumento inventato per la marineria o non per le scatolette a quattro ruote…
PS: per quanto mi riguarda, io controllo il gps con la bussola e non la bussola con il gps e ringrazio Flavio (Gioia), ma sono solo un vecchio nostalgico che a bordo, pensate, ha le carte nautiche, il compasso a doppia punta, le parallele, il portolano e anche il libro dei fari… Roba antica, insomma.
Antica come è antico il mare.
Articolo apparso sul fascicolo di settembre 2007 della rivista “Barche” e riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
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