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La barca non è un’auto (VI puntata) – Antonio Soccol

5 Commenti/in Antonio Soccol, Antonio Soccol - Articoli, Articoli riviste nautica, Carene Levi, La barca non è un auto/da Antonio Soccol

di Antonio Soccol

Fra lo spam che quotidianamente (giorno e notte, accidenti a “loro”…) intasa l’Outlook del mio povero pc, identifico un messaggio che mi perviene da una azienda importatrice di automobili. Sto per “eliminarlo” assieme a tonnellate di viagra, cialis, a stratosferiche e mirabolanti offerte di affari economici per miliardi di euro/dollari/sterline (a scelta) con il Burkina Faso e a farmaci miracolosi per altri problemini tipo l’allungamento del pene, le eiaculazioni precoci, la frigidità eccetera, quando mi viene improvvisa voglia di leggerlo, quel messaggio. E’ una vera sorpresa perchè testualmente recita:

Espandere i tuoi orizzonti non è mai stato così facile (meno male: una bella notizia!). Parti allora alla scoperta della città con un’auto elegante (alla scoperta della città, in auto? Ma questi sono fusi..?.) come la nuova Opel Antara.
Linee tese, curve morbide e proporzioni perfette (Ma di che stiamo parlando?).
La nuova Opel Antara ha lo stile più entusiasmante che si possa vedere in città. (e fuori città? no? non funziona?)
Per salire a bordo della nuova Opel Antara basta premere sul pedale dell’acceleratore (aiutoooo!) e scoprirai come Antara sia la compagna perfetta (compagna “perfetta”?? ma in che senso? quello??? dai! ) per i tuoi viaggi.”

Beh, questa proprio non me l’aspettavo. Mai saputo io che, per salire a bordo di una auto si dovesse premere sul pedale dell’acceleratore! Davvero, nella vita, non si finisce mai di imparare.
Chiara Ciardelli, qualche mese fa, ha scritto:

Era il 3 ottobre del 1906 quando Ivy Lee, pioniere nelle pubbliche relazioni, convinse la Pennsylvania Railroad a diffondere un comunicato per i giornalisti su un incidente ferroviario. Invitò la stampa sul luogo della notizia e ne organizzò il trasferimento in modo che giornalisti e fotografi potessero vedere di persona quanto era accaduto. Ivy Lee rivoluzionò, così, il modo di intendere i rapporti tra aziende, enti pubblici e media, diffondendo il primo comunicato stampa della storia. Sono passati più di 100 anni e il comunicato stampa è diventato uno strumento quotidiano dall’uso inflazionato. Sono circa 3000 i comunicati stampa che in un qualsiasi giorno feriale viaggiano nell’etere con l’alto rischio di un’informazione eccessiva, ridondante e spesso “cestinata” da chi la riceve.

Si tratta di uno strumento desueto che ha perso la sua utilità originaria oppure si avverte solo la necessità di adeguarlo ai tempi? In occasione del centenario del “primo comunicato”, la Business Wire, società di pubbliche relazioni fondata 45 anni fa, ha organizzato a New York e in altre importanti città statunitensi un dibattito dal titolo “Celebrazione per il centenario del comunicato stampa: esplorando il passato, il presente ed il futuro delle pubbliche relazioni”. Sono intervenuti Matthew Bishop, business editor e capo dell’ufficio di New York del “The Economist”; Todd Defren, capo di Shift Communications e autore del blog PR Squared; Julia Hood, direttore di PRWeek e Deborah Radman, direttore della Stanton Communications.

“Il comunicato stampa fa parte della tecnologia del vecchio mondo, deve fare i conti con un genere diverso di media – ha sostenuto, in quella occasione, Matthew Bishop – Si scambiano troppe informazioni che troppo spesso sono errate e irrilevanti”

Non tutto è perduto, però, per l’ormai centenario comunicato stampa. Todd Defren, infatti, ha evidenziato dei principi che, se rispettati, possono riportare efficacia allo strumento. Si tratta di cinque semplici regole di base: facilitare l’accesso alle informazioni, specialmente per le media room; garantire la precisione con grafica e supporti multimediali; tenere conto del contesto con link di approfondimento; ed essere reperibili. Il comunicato stampa si conferma, comunque, come la spina dorsale della comunicazione moderna, in ambito pubblico e privato. L’avvento di Internet ha facilitato l’invio dei comunicati e la loro diffusione. Si tratta, però, di uno strumento prezioso a cui ricorrere solo nel caso in cui si abbia una notizia rilevante da comunicare alla stampa e al vasto mondo di utenti potenzialmente interessati.”

Ecco, appunto: per favore, dateci “notizie rilevanti” non astrusità pseudo immaginifiche. Non acceleratori che fanno salire a bordo delle auto.
Ricevo anche altro spam: una montagna di offerte da parte di scuole di comunicazione, di marketing, di pubblicità . Con la modica cifra di due/tremila euro posso iscrivermi ad un corso al termine del quale, mi garantiscono, saprà scrivere. L’idea che mi insegnino a elaborare testi come quello che illustra la nuova Opel Antara mi lascia però molto perplesso. E anche un po’ preoccupato… Non è che all’Accademia della Crusca hanno deciso di cambiare il significato delle parole e non mi hanno ancora avvisato? Boh!

Non sono invece parole senza autentico significato quelle che mi scrive Giacomo V., caro amico, vero esperto di barche: “Ho scoperto- mi racconta Giacomo – nascosto nell’entroterra di …. (i puntini sono miei e dovuti a motivi di privacy; ndr) un “cantiere nautico” che costruisce scocche in vetroresina iniettate in forme particolari per conto di un famoso e storico costruttore di barche napoletano. E fin qui niente di strano o quasi. La particolarità di questa notizia è che il cosidetto “cantiere” è un capannone NON climatizzato e soprattutto senza alcun controllo dell’umidità.

In questa zona, come sai, l’umidità dell’aria ha un valore medio annuo dell’ 83% ed in alcuni giorni arriviamo anche al 95%. Ovviamente tutti sappiamo che, quando la resina catalizza, se l’umidità relativa dell’aria è elevata e al di sopra di certi valori, questa si intrappola nel tessuto di vetroresina e, dopo qualche anno, iniziano le famose bolle che sono l’osmosi. Lascio a te immaginare la qualità di quelle barche… PS: gli operai che lavorano in questo “cantiere” vengono pagati 30 euro al giorno… “. Urca: 3,75 euro all’ora. Basilio, un bracciante agricolo di mia conoscenza, in Sicilia, ne guadagna 6 di euro all’ora e Lerma, una brava colf filippina, a Milano, viaggia ormai oltre i 10 eurini/ora. La qualità della manovalanza di quel pseudo cantiere non deve esser davvero gran che. Già. Ma oggi, chi le costruisce le barche? E come si costruiscono? Non di certo come le automobili.

Secondo i dati rilasciati da OICA (Organizzazione Internazionale Costruttori Autoveicoli), nel 2005, sono state prodotte in tutto il mondo 45.960.000 vetture. Facciamo, per comodità di conteggio, 46 milioni. Calcolando un ciclo lavorativo continuo di 365 giorni, 24 ore su 24, sono 87 macchine al minuto: una e mezza al secondo. (Poichè non credo che esista al mondo un “ciclo lavorativo” così crudele, la media è ancora maggiore e supera le due vetture al secondo).

La nostra Fiat (intesa come Gruppo composto da Fiat auto, Alfa Romeo e Lancia, con un totale di 44.691 dipendenti), nel 2006, ha prodotto complessivamente nei suoi stabilimenti 1.980.300 veicoli, cioè – ipotizzando, per comodità di calcolo, lo stesso “crudele” ciclo lavorativo- 3,76 esemplari al minuto, insomma uno ogni 15,9 secondi.

Ferrari (2.870 dipendenti) e Maserati (649 dipendenti), nello stesso 2005, hanno entrambe consegnato alla rete di distribuzione quasi la medesima quantità di vetture: 5.650 la prima e 5.734 la seconda. Qui le medie sono differenti perchè c’è ancora una notevole quantità di “artigianalità” per prodotti così elitari: in Maserati, per esempio, si lavora 235 giorni all’anno e nelle 24 ore si fanno solo tre turni (dalle 5,30 del mattino sino alle 20,30 della sera) per una media di circa 24,4 esemplari al giorno, cioè 1,6 vetture all’ora. (Impressionante però la media di 8,8 autovetture/anno prodotta da ciascuno dei 649 dipendenti, numero dentro al quale sono compresi anche gli impiegati e i dirigenti…)

Come sia organizzata una catena di montaggio per la produzione di auto tradizionali lo abbiamo visto tutti di recente nel simpatico spot televisivo della Citroen Picasso, in cui un robot-pittore si lascia prendere dal raptus artistico e imita il grande artista spagnolo: una linea continua e ininterrotta di nastri trasportatori convoglia migliaia di vetture in un assemblaggio dove molti lavori sono compiuti in assoluto automatismo dalle macchine e, appunto, dai robot.

Per le barche: secondo dati riportati dall’UCINA (Unione Nazionale Cantieri e Industrie Nautiche e Affini), nel 2005, sarebbero state prodotte nel mondo 827 mila imbarcazioni, il 90 per cento delle quali negli Stati Uniti d’America. In Italia (escludendo i gommoni e le barche per motori fuoribordo) la produzione complessiva è stata di 2.297 esemplari. Produzione realizzata da quanti operatori? All’incirca 700 (sono infatti 716 i “codici costruttori” esistenti in Italia). Il che dà una media di 3,2 barche all’anno per ciascuno di loro. In totale, immatricolate in Italia, ci sono oggi 73.311 imbarcazioni di cui il 67 per cento (pari a 58.294 esemplari) è di scafi con motori entrobordo o entrofuoribordo mentre il rimanente è dato da un 3% di natanti per motori fb e dal 30% di barche a vela.

Pochino, no? Beh, bisogna ricordare che, sempre secondo i dati di Ucina, in Italia vi sono appena 45.574 patenti nautiche (20.811 di “nuove” e 24.763 di “rinnovate”). E, insomma, che messi tutti quanti assieme, noi che sappiano condurre una barca, riempiamo appena uno stadio di calcio di media capienza…

Ma torniamo alla domanda: “chi e come fabbrica le barche da diporto?”

Verso la fine degli anni Settanta risultà evidente che il mercato non riusciva più a reggere la produzione dei natanti in legno. I motivi fondamentali erano tre: la sempre maggior onerosità della materia prima (mogano, olmo, cedro, pioppo eccetera); la difficoltà di trovare carpentieri e mastri d’ascia persino là dove ce n’era storica tradizione (Venezia, Viareggio) e il minor costo sia nella costruzione che nella manutenzione richiesto dalla vetroresina. All’inizio la “plastica” veniva usata solo per imbarcazioni piccole: roba da 5, 6, max 8 metri. Ricordo di aver scritto un articolo stimolando i cantieri ad utilizzarla anche su imbarcazioni di maggior taglia. Mi risposero per primi i Cantieri Riuniti dell’Adriatico (Trieste) proponendo sul mercato il loro “Bora”, un robustissimo scafo da circa 10 metri progettato, se non sbaglio (cito a memoria), dal bravo Artù Chiggiato. Era una barca straordinariamente forte (ce ne sono ancora in giro) e costruita con evidente abbondanza di spessori e di materia.

Sempre in quegli anni, fui proprio io a suggerire ad un bravo costruttore in legno com’era Luciano Mochi Zamperoli, titolare dei cantieri Mochi di Pesaro, di “passare” alla vetroresina, per lo meno per quanto concerneva la scocca dello scafo. E per superare le sue reticenze lo misi in contatto con Nino Petrone che, a Salerno, produceva già in vtr, per il suo cantiere Sapri, scafi da diporto (Sagitta, Blu Safari eccetera), disegnati da Franco Harrauer e Renato “Sonny” Levi. Fu così che, forse, per la prima volta in Italia iniziò la consuetudine di far “stampare” le barche da tecnici della vetroresina lasciando al cantiere vero e proprio tutte le operazioni (in legno) degli interni, della motorizzazione eccetera. Oggi il fenomeno è quasi generale.

Sino ad alcuni anni fa, uno dei maggiori costruttori italiani non aveva, in realtà, affatto un “suo” cantiere ma si limitava a far produrre il modello da 27′ a “X”, quello da 30′ a “Y” e così via, lungo tutta la sua considerevole gamma, fino agli scafi 100 piedi (33 metri). Ora la situazione è cambiata radicalmente e i nomi più importanti della nostra cantieristica producono tutto in proprio. Ma è dettaglio relativamente importante purchè il controllo di qualità del responsabile del logo sia eseguito bene, in modo costante ed efficace.

Non è mica il signor Giorgio Armani in persona quello che taglie e cuce il nuovo vestitino prêt-à-porter che porterà il suo nome e che si venderà, in migliaia di esemplari, nei negozi “monomarca” che hanno la sua insegna. Ma, di certo, sarà un dirigente della “Giorgio Armani spa” quello che andrà nella fabbrica incaricata, a verificare che quel lavoro venga fatto secondo i canoni previsti e prescritti. Eguale per i cantieri e per mille altre attività produttive. Forse pochi lo sanno ma Luxottica, Marcolin e il mio amico Vittorino Tabacchi con la sua Safilo producono praticamente quasi tutti gli occhiali del mondo e, per non so più quanti brand: Armani, Bottega Veneta, Bulgari, Burberry, Dior, Dolce&Gabbana, Gucci, Hugo Boss, Max Mara, Stella McCartney, Prada, Tacchini, Valentino, Versace e 55Dsl (Diesel) per dire giusto quelli che ricordo.

Dalle parti di Massa, c’era, sino a poco tempo, la “T & P srl”, uno “stampatore” che nel suo sito web dichiarava di produrre (o di aver prodotto) per una serie di “cantieri” di assoluta importanza nazionale: Azimut (Avigliana, TO), Cerri Marine (Marina di Carrara), Dalla Pietà (Malcontenta,VE), Giolmarine (Venezia), Intermarine (Sarzana), Itama (Roma), Perini Navi (Viareggio), San Lorenzo (La Spezia). La cito questa azienda, nonostante oggi risulti “non rintracciabile”, proprio perchè così non faccio pubblicità a nessuno. La suddetta azienda, infatti, è stata, di recente, acquistata da un noto cantiere, ha quindi cambiato nome e produce solo ed esclusivamente per questo unico logo.

E allora? Allora siamo alle solite: la barca non è un’automobile e la sua costruzione è oggetto di situazioni che talvolta possono creare perplessità o che, quanto meno, impongono molta cautela. A quale malcapitato finiranno quelle imbarcazioni le cui scocche vengono realizzate in quei capannoni, scoperti per caso dal mio amico Giacomo, che hanno l’umidità oltre l’80% e che quindi, in breve tempo, saranno inesorabilmente aggredite dalla tanto temuta osmosi?

Ah, saperlo…

Articolo apparso sulla rivista “Barche” di giugno 2007 e riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali

Tags: Antonio Soccol, La barca non è un auto
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5 commenti
  1. Giacomo Vitale
    Giacomo Vitale dice:
    06/08/2011 in 21:38

    Gentile Graziano,

    i nostri complimenti vivissimi per l’acquisto della Speranzella. Inoltre per avere le giuste dritte, riferite al restauro della stessa, potresti inviarci un po’ di foto… a info@altomareblu.com

    Grazie per averci scritto, cordiali saluti,
    Giacomo Vitale

  2. graziano
    graziano dice:
    06/08/2011 in 01:11

    sto’ per entrare in possesso di una spereanzella gradirei avere consigli sul restauro anche se non ne occorre un gran che grazie tedeschi graziano resto in attesa

  3. Giacomo Vitale
    Giacomo Vitale dice:
    01/08/2007 in 00:25

    Gent. Andrea, come promesso ecco la risposta di Antonio Soccol. Ciao e buona lettura:

    Caro Andrea,
    grazie per il tuo contributo. Vedo dal tuo indirizzo informatico che fai parte dello staff di un costruttore storico e con grande esperienza oltre che capacità  e questo rende ancora più prezioso il tuo pensiero.
    Sono d’ accordo con te sul fatto che ormai gli armatori sono solo degli esibizionisti che non amano il mare, men che meno, la navigazione.

    Scrivo di nautica da diporto dal lontano 1957 e ho visto il lento inesorabile degrado nel quale tutta (o quasi) l’ utenza nautica è scivolata. Negli anni Sessanta e Settanta c’era voglia di mare. Oggi c’è voglia di far credere di andar per mare.

    E i cantieri non possono che adeguarsi se vogliono campare. E’ il trionfo della filosofia dell’apparire invece che essere. E, purtroppo, non si verifica solo nel settore nautico.

    Che fare? Io, forte anche dell’appoggio di una sana minoranza (cui, evidentemente, tu appartieni) non getto la spugna e continuo a predicare e a fare le mie battaglie contro i mulini a vento. Mi consola un dettaglio: una recente inchiesta fra tutte le università  culturali europee ha votato come miglior libro di sempre “Don Chisciotte” di Cervantes che ha superato in classifica Shakespeare e il nostro Dante Alighieri. Insomma mi sento in buona compagnia.

    Come giustamente dici tu, le persone che si avvicinano oggi alla nautica lo fanno senza una cultura della stessa. Io, nel mio piccolo, cerco di dargliela. A Milano c’è un divertente detto: piutost che nient, le mej piutost.

    Peraltro, in tanti secoli di faticosa evoluzione, ne abbiamo viste di tutti i colori e non è detto che le buone idee siano sempre destinate a morire. A volte ritornano anche loro.

    Grazie per la stima e speriamo che le cose migliorino.
    Antonio Soccol

  4. Giacomo
    Giacomo dice:
    30/07/2007 in 19:28

    Gentile Andrea,

    scusami se ti rispondo solo ora, ma tra le tante mail che mi arrivano la tua era rimasta inevasa ed a un controllo mi sono accorto dell’errore, me ne scuso immensamente.

    Ho provveduto da qualche minuto a girare questo tuo commento ad Antonio Soccol e sarai informato da una mail appena lascerà  la sua risposta al tuo gentile commento.

    Grazie e quando vuoi scrivici sempre.

    Giacomo

  5. andrea
    andrea dice:
    27/07/2007 in 12:32

    Gent.mo Antonio
    mi accingo a dare un contributo alla tua discussione “la barca non è un’auto”:
    E’ vero, mai come oggi gli armatori sembrano disattendere il titolo del tuo post.

    Recentemente ho parlato con un signore che vuole commercializzare un open di 50 piedi in alluminio con eliche di superficie… e mi diceva che per poterle vendere è costretto ad affiancare una serie di servizi per rendere possibile all’acquirente l’uso dell’imbarcazione..
    Sembra che l’uso di una simile imbarcazione sia prevalentemente quello di fare un’uscita giornaliera per andare a fare il bagno..

    Nel titolo dei tuoi post dai per assodato che una barca non sia un’automobile dove tutte le campagne di comunicazione, dei principali cantieri, tentano di farti capire il contrario.
    Lusso, sono giocattoli di lusso lo sappiamo, comodità, prestigio, più la barca è grande e più sembra che la realtà  sia quella di un’edilizia di lusso.

    Le persone che si avvicinano alla nautica lo fanno senza una cultura della stessa e la comunicazione pubblicitaria fa pensare che tutto sia immediatamente realizzabile e non penso che alla fine il vero interesse dell’acquirente sia la nautica o il mare o navigare o conoscere etc.

    Ma qualche speranza c’è e gli armatori ai quali vendiamo le nostre barche ne apprezzano il progetto, non nelle sue qualità  estetiche, che sono un po’ limitate, ma nei concetti che lo hanno mosso dalle origini. Insomma cerco di darti un minimo di conforto, oltre a un’insieme molto grande di persone che non capiscono di cosa stai parlando e che comperano qualsiasi oggetto tu gli possa proporre, esiste una minoranza che ti legge, apprezza e condivide le tue opinioni e ti spinge a continuare il tuo lavoro.

    Con ammirazione per il tuo lavoro
    Andrea

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