E’ la nautica, bellezza! – La barca non è un’ auto… (XXVI puntata)
di Antonio Soccol
Un lettore (Andrea Gorgoglione) mi scrive: “Secondo me la barca andrebbe meglio paragonata a un camper piuttosto che a una macchina, e l’automobile a un motoscafo”. Non è chiarissimo: il motoscafo non è una barca? Vabeh, si vede che per lui, “barca” non vuol dire “imbarcazione di dimensioni modeste per trasporto di persone e cose” come sostiene lo Zingarelli ma significa “scafo con cabina”. Non è grave ma comunque, non concordo. Io, in questa serie di articoli, confronto le mentalità produttive degli industriali e degli utenti, non le caratteristiche specifiche dei mezzi prodotti né, tantomeno, le loro dimensioni.
Allora: nel mondo dell’auto le cose stanno andando in malora. Le grandi americane (General Motors, Chrysler, Ford) al momento in cui scrivo, sono sull’orlo del fallimento, la svedese Volvo (da non confondersi con Volvo Penta che è altra parrocchia) ha chiesto aiuto al suo governo e la Fiat vede dimagrire in modo preoccupante il suo mercato di utilitarie (-30%). Per non dire delle fabbriche francesi e di quelle tedesche (vedi la Merkel che mette “solo” due miliardi di euro a disposizione di Opel… e altri per le aziende storiche: Porsche, Mercedes, Wolkswagen eccetera). Mentre in Spagna il mercato auto è crollato del 50%.
E i cantieri? I quattro grandi inglesi produttori di barche da diporto hanno dimezzato il personale fra licenziamenti in tronco, riduzione di orari di lavoro e “cassa integrazione”. Al momento in cui scrivo metà dello spazio del London Boat Show risulta invenduto…
Degli italiani si sa poco o nulla, ma l’aria è pesante. Molto pesante.
Qualche mese fa, all’inizio dell’estate, sembrava che il grande nemico fosse il petrolio con il barile del greggio a 150 dollari. Oggi, il barile vale un terzo ma la realtà è molto più insidiosa: troppa gente ha perso troppi soldi fra i bond delle banche fallite, la crisi della borsa e altre sciagure quali la diminuzione dei consumi e quindi della produzione in generale (chiamalo Pil, se vuoi).
Come reagisce quel mondo del lusso (moda, gioielli, design) del quale anche la nautica, per lo meno a certi livelli, è compartecipe?
Di recente, Pambianco, la nota società di consulenza per lo sviluppo delle imprese della moda (che ho già avuto occasione di citare in queste pagine per altri motivi) e l’Istituto di Credito Intesa San Paolo hanno organizzato a Milano un importante simposium sugli attuali problemi del mondo della moda e del lusso. Hanno partecipato:
Gaetano Miccichè (Responsabile Divisione Corporate & Investinent Banking Intesa Sanpaolo); Mario Boselli (Presidente Camera Nazionale della Moda Italiana); Michele Tronconi (Vice Presidente Vicario SMI Federazione Tessile e Moda);
Gregorio De Felice (Chief Economist Intesa Sanpaolo); Carlo Pambianco (Presidente Pambianco Strategie di Impresa) e gli operatori del settore: Romeo Bertoncello (Flash & partners – Nolita), Gianni Castiglioni (Marni),Graziano Gianelli (Geo Spirit), Francesco Minoli (Pomellato), Pietro Negra (Pinko), Giuseppe Santoni (Santoni), Sergio Tegon (Seventy), Patrizio Bertelli (Prada Group), Marcello Binda (Binda Group), Giovanni Burani (Mariella Burani F.G.), Giuseppe Castagna (Intesa Sanpaolo), Giancarlo Di Risio (Gianni Versace), Mario Moretti Polegato (Geox), Michele Norsa (Salvatore Ferragamo) e Sandro Veronesi (Calzedonia).
Come sono andate le cose e soprattutto quali proiezioni hanno detto di voler perseguire questi imprenditori e esperti? Ecco, testualmente, cosa racconta “Pambianco News”:
Abbiamo sopportato l’euro forte e il costo delle materie prime alle stelle», dice Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo, “credere in una svolta possibile, oltreché promettente, sarà di aiuto al mercato». Tradotto: ognuno affili le proprie armi e metta in campo le strategie migliori.Come? “A partire da forti politiche di brand”, dice De Felice. “e decisioni che privilegino qualità e design, senza dimenticare l’aspetto comunicativo, che resta fondamentale”.
Pambianco ha portato in Piazza Affari a Milano, le case history di 40 marchi, tra cui Prada, Marni, Calzedonia, Pomellato, Pinko, Santoni, Geox, Versace, Ferragamo e Geospirit. Ciascuno gioca le sue carte senza timore di non essere in linea con il mercato.
Vedi Marni che rifiuta investimenti in pubblicità. “Meglio il retail”, spiega l’a.d. del gruppo, Gianni Castiglione. Mosca bianca anche Geospirit, 85 milioni di fatturato con capi tecnici e nessun monomarca ma tanta pubblicità: “Non ci interessa perdere un milione l’anno nei negozi, preferiamo concentrarci sulle strategie”, spiega l’a.d. Graziano Gianelli.Per tutti vale un cauto ottimismo e comunque un ridimensionamento di piani e delle aspettative. In generale, Intesa Sanpaolo conferma l’annunciata contrazione dei consumi italiani del 4,4% e un calo del fatturato del tessile (-6,5%) e della filiera della pelle (-3,6%) contro una stabilità dell’abbigliamento (+ 0,3%). Proprio gli addetti ai lavori del tessile confidano in nuove politiche di settore, con uno sguardo oltreoceano.
Mario Boselli, imprenditore e presidente della Camera nazionale della moda è fra questi. “Il programma di Barack Obama prevede un passaggio dal “free” al “fair” textile trade, dal libero al corretto commercio nel tessile insomma”, dice a ItaliaOggi, “Si tratta di cambiamenti non facili ma è un approccio al mercato che se vale per gli Stati Uniti vale tre volte per l’Italia e l’Europa. Anche se è un salto mortale e auspicabile per l’eccessiva leggerezza e la mancanza di protezioni appropriate”.Un discorso che rimanda al prezzo pagato invece in altri settori da alcuni imprenditori italiani del lusso, come Pomellato, che per andare nei paesi emergenti con le sue collezioni di gioielli spende “il 35% in dazi doganali”.
Per far ripartire i consumi, il campione Pambianco si discosta anche dalla negatività dei media: “Nel fashion non si può essere pessimisti”, spiega Pietro Negra di Pinko, 137 milioni di fatturato e 114 monomarca sparsi nel mondo, “vendiamo qualcosa di non indispensabile, quindi occorre lavorare molto sulla pubblicità e anche sul punto vendita”. Prodotto, comunicazione e retail sono le tre aree su cui tutti puntano, C’è chi, come Patrizio Bertelli di Prada Group, pensa a gestire collezioni per ogni emisfero (sandali a Hong Kong e stivali a Milano) e a vestire con le proprie pubblicità i building nel mondo. Versace con la guida di Giancarlo Di Risio, continua i piani di razionalizzazione già sperimentati tre anni fa.
E chi, fra le varie strategie, consiglia anche di ripensare il mondo del lusso. Michele Norsa, a.d. di Salvatore Ferragamo è il primo a riflettere anche sui mercati emergenti considerati da tutti una ciambella di salvataggio: “Giappone, Korea e Hong Kong restano eccellenti consumatori dei grandi marchi”, dice, “ma talvolta si spostano su chi ha offerte multiprezzo. L’industria del lusso forse dovrebbe fare un esame di coscienza: spesso si spende troppo, anche per il management e le scelte andrebbero calibrate”. A ognuno la sua formula, quindi. Quel “In bocca al lupo” agli imprenditori di De Felice (Intesa) non suona poi così strano.» La conclusione (In bocca al lupo) , se si considera che l’ha detto un banchiere…, più che “non strana” a me sembra da brividi.
Morale? La formula del toccasana non c’è e spesso le tesi sono contraddittorie: chi vuol bloccare la pubblicità e chi no, chi vuol tagliare sui negozi, i famosi “monomarca” e chi invece li considera intoccabili, chi vuol segare di brutto la manodopera e chi invece non la vuol toccare e infine c’è chi spera che altrove ci sia ancora qualche paese del bengodi e chi invece non crede più a Babbo Natale. E, sempre a proposito di soluzioni per affrontare le difficoltà di mercato, un comunicato stampa oggi mi annuncia la strategia di una nota azienda produttrice di reggiseni. Eccolo:
Playtex, Dim, Wonderbra tagliano i prezzi ma non gli investimenti pubblicitari. Le strategie anticrisi di Branded Apparel Italia puntano su una comunicazione sempre più integrata, che sta dalla parte del dettagliante e del consumatore. “In un momento di difficoltà come l’attuale vogliamo avere un ruolo attivo sul mercato – fa sapere Clara Petrone, marketing director dell’azienda di Pomezia, che vanta un giro d’affari di 50 milioni di euro –. Questo significa che intendiamo supportare il sell out e sostenere la propensione all’acquisto dei consumatori”. (…)
L’intenzione si traduce immediatamente sul mercato con una prima operazione, “Fai tris di intimo”, partita in questi giorni per protrarsi fino al 28 febbraio. “In pratica è un 3X2, che dà diritto a un reggiseno a scelta in omaggio su un acquisto di due modelli delle linee Playtex, Wonderbra o Dim – spiega Clara Petrone -. Verrà comunicato con telepromozioni su Mediaset e Rai, banner sui siti femminili e operazioni di direct marketing sulle consumatrici”. A partire da gennaio, il taglio prezzi verrà applicato anche alle linee maschili Unno e Dim, mentre si pianificano importanti eventi di pr con celebrity italiane…
Chissà se qualche cantiere vorrà seguire questa strada: compri tre barche e ne paghi due… Difficile, neh?
Era il 3 giugno 2008 quando alcune agenzie di stampa specializzate nel settore dell’economia avevano annunciato con il titolo: “Arnault diversifica negli yacht di lusso” la notizia che L Capital 2 Fcpr, società d’investimenti sponsorizzata da Lvmh e dal Gruppo Arnault, aveva siglato un accordo per l’acquisizione del produttore inglese di imbarcazioni di lusso Princess Yacht. L Capital aveva raggiunto, infatti, il 70% dei diritti di voto di Princess Yacht, per un valore non precisato (ma si parlava di oltre 250 milioni di euro).
Per i non addetti ai lavori dirò che Lvmh è il più grande Gruppo del lusso del mondo. Raccoglie infatti brand come Louis Vuitton, Celine, Kenzo, Fendi, Pucci, Givency, Donna Karan nella moda, come Moët & Chandon, Dom Perignon, Veuve Clicquot, Krug e Hennessy nel settore dei vini e alcolici, come TagHeur, Zenith e Hublot in quello degli orologi, come Acqua di Parma fra i profumi eccetera. (Ehi, mica li ho citati tutti: solo quelli che mi sono venuti in mente senza fatica, se no stiamo qui sino a domani…). Erano molti anni che Arnault voleva entrare nella nautica (vedi anche la partecipazione del suo brand Louis Vuitton alla America’s Cup sino all’ultima edizione e la grande novità della nuova sfida velica in Nuova Zelanda). Ma quello che davvero questo francese, uno degli uomini più ricchi del mondo, voleva era un cantiere dove fare barche per la sua clientela. Beh, non si può proprio dire che abbia scelto il momento migliore per investire quei suoi 250 milioni di euro…
A proposito di “investimenti”, con l’ironia che lo contraddistingue, il bravo progettista italiano Sergio Abrami mi scrive: “Altro che soldi in banca, soldi in barca!” E mi spiega: “Nel 1972 ho progettato “Limit” che il grande Straulino ha così commentato: “Potremmo chiamarlo la Balilla del mare. La gente una volta era abituata alle Bugatti e alle Isotta Fraschini, e un robino così non sembrava neanche un’automobile. Oggi le Balilla le comprano, se le trovano, pagandole milioni. Questa barca è bella, è buona, è navigatrice”. Ne vennero prodotti 450 esemplari che a quei tempi costavano 500 € l’uno. Oggi, a trovarne nel mercato dell’usato, valgono oltre 5500€… Più di dieci volte il valore iniziale!”.
“Limit”, me lo ricordo bene, aveva vinto un concorso fatto dal TCI per una barca popolare ed era uno scafetto a vela semplice ma intelligente, sobrio ma funzionale, facile ma capace di tenere il vento, ben costruito. Tutto qui. Altro che la teoria “bigger is better” (grande è meglio) che i nostri cantieri amano troppo e che è stata la causa della “agonia” di General Motors, esattamente cento anni dopo la sua creazione.
Che dite? facciamo un nuovo concorso per una “barca popolare”? Mi sembra il momento giusto, vista l’aria che tira… Ma chi potrebbe/dovrebbe proporre una iniziativa di questo genere? La risposta è ovvia: l’Ucina (che sarebbe un po’ la confindustria del diporto nautico). Ma in quella Unione, da alcuni mesi, stanno accadendo cose strane e non facilmente decodificabili. Ad iniziare dalla “misteriosa” sospensione dall’incarico, senza motivazione ufficiale a metà novembre scorso, del suo Segretario Generale, ing. Lorenzo Pollicardo.
E allora a chi tocca? Io, una ideuzza ce l’avrei. E quindi sparo un nome: Aspronadi. Perché? Perché o dimostra ora il suo valore o mai più. Quando il treno passa, se si vuol viaggiare, bisogna salirci, costi quello che costi.
Chiudo parafrasando sia la celebre frase che Orson Wells, nel 1941, si è messo in bocca nel suo famoso film “Quarto potere”, interpretando il ruolo di Charles Foster Kane (che in realtà rappresentava l’allora imperatore dell’editoria William Randolph Hearst) che, anche, il titolo del più recente libro di Giorgio Bocca. Mi viene, infatti, da dire: “E’ la nautica, bellezza!”.
Articolo apparso nel fascicolo di febbraio 2009 della rivista “Barche” e qui riprodotto per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
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