Manovre da turchi
di Paolo Lodigiani
La passione per le barche d’epoca non mi impedisce di apprezzare i vantaggi che la moderna tecnologia mette a disposizione del navigante. Talvolta, capita anche a me di associarmi al lagnoso coro di quanti rimpiangono il “bel navigare” dei tempi andati.
Ma è tutta ipocrisia: non mi sognerei mai di sostituire il mio avvolgifiocco con un ingombrante guardaroba di vele in cotone, e sono ben lieto quando in bonaccia posso cedere il timone al mio pilota automatico. Quanto al tanto decantato e mitico sestante mi è bastata l’unica prova in mare fatta anni fa.
Dopo un paio di mesi di studi preparatori e un’ora di complessi calcoli, riuscii finalmente a stimare le mie coordinate: secondo quell’ineffabile strumento stavo navigando nel bel mezzo della pianura padana, fra Lodi e Casalpusterlengo! Ho provato una tale rabbia nei suoi confronti che non l’ho più portato in barca. Invece amo il mio GPS, sono affezionato al pilota automatico e ho eccellenti rapporti con l’avvolgi fiocco.
In poche parole mi piace la tecnologia in barca o, per essere più precisi, quella di cui dispongo sulla mia barca. Mi piace meno quella che c’è sulle barche degli altri. C’è un accessorio in particolare, ahimè sempre più diffuso, che non riesco a sopportare. Se il suo uso si generalizzerà, dovremo dire addio a tanti bellissimi momenti della nostra vita nautica. Questo virus che minaccia la navigazione è l’elica direzionale di prua.
Mi sono reso conto di quanto il suo uso possa essere pernicioso, in quello che mi è rimasto impresso come uno dei giorni più piacevoli di una bella vacanza trascorsa navigando nelle acque turche. Per verità, proprio quel giorno, non navigai affatto: fin dal primo mattino avevo capito che un meltemi di quelli tosti era in agguato; e mentre altri equipaggi uscivano dal porto con scriteriata baldanza, a me era bastata un’occhiata alle creste, che si inseguivano al largo, per decidere che il vero comportamento marinaresco era quello di cercare l’angolino più riparato del porto, per armeggiarvi la barca con robuste cime.
Così feci, e trascorsi una rilassante mattinata bighellonando fra i bar del porto: ogni tanto lanciavo un’occhiata alle barche che arrancavano al largo resistendo con vele ridottissime all’assalto delle onde e del vento, e gioivo di non condividere la loro sorte. Ma il vero clou della giornata fu il pomeriggio: rinforzando il meltemi, gli equipaggi che avevano così inavvedutamente osato sfidare gli elementi iniziarono ad affluire nel porto cercandovi rifugio. Era un piccolo porto di pescatori modestamente attrezzato che in poco tempo divenne affollato. Credo sia un piacere diffuso quello di osservare dalla banchina le altrui manovre d’ormeggio criticandone gli errori. Alla base di questo piacere è l’inconfessata speranza che qualcosa nella manovra vada storto.
Orbene: prendete un porticciolo turco sovraffollato, il cui fondale viene per di più definito nei portolani cattivo tenitore, frotte di equipaggi vacanzieri che rientrano stravolti, aggiungete raffiche improvvise e furiose che si avventano sulle barche, e la speranza che qualcosa vada storto diventa praticamente una certezza:non c’è che da trovare un buon punto d’osservazione e lo spettacolo, continuo e di alto livello, è assicurato. Non rimasi deluso: ben presto le ancore iniziarono ad aggrovigliarsi e ad arare. Mentre gli yacht derivavano fra le barche dei pescatori, gli scafi cozzavano con sinistri rumori, gli alberi ondeggiavano sfiorandosi pericolosamente. Il tutto accompagnato da un crescendo rossiniano di ordini concitati, imprecazioni, invocazioni gridate in una caotica babele di lingue diverse.
Io, dal mio angolino ben protetto, guardavo e godevo. Devo dire a mia difesa che l’iniziale sadismo con cui assistevo alla scena lasciò presto il posto a sentimenti meno meschini e riprovevoli quando mi accorsi che da ciò che vedevo potevo trarre qualche interessante annotazione antropologica. Notai infatti che non solo il modo di eseguire le manovre rifletteva la capacità e l’abilità dell’equipaggio ma che ad ogni nazionalità era proprio e caratteristico un certo stile di esecuzione. La prima barca a guadagnare il porto aveva equipaggio francese. I francesi, impregnati di illuminismo, hanno nel sangue l'”esprit de géometrie”, il gusto per la “clarté”, per le cose fatte con classe ed eleganza.
La loro manovra di avvicinamento fu abbastanza corretta, e mi ero ormai rassegnato a vederli ormeggiare senza incidenti. Ma li sottovalutavo: un francese non può accontentarsi di una manovra corretta; deve essere perfetta, un capolavoro di precisione e simmetria, una lezione “pour tout le monde”. Fu questa ricerca della perfezione a portarli al disastro: i maldestri tentativi di migliorare la manovra iniziale durarono un’ora con esiti rovinosi per il loro orgoglio ed esilaranti per il pubblico.
Quello dei francesi non fu che un gustoso “hors d’oeuvre” di ciò che doveva seguire. Arrivarono molti tedeschi. Entravano in porto già preparati all’ormeggio con teutonica meticolosità: parabordi e cime perfettamente a posto, ogni membro dell’equipaggio in coperta pronto ad eseguire gli ordini: perfino in costume da bagno sembravano in divisa. Se tutto filava liscio non si poteva che ammirarli. Ma bastava un minimo imprevisto perché la perfetta macchina organizzativa si inceppasse. E il fallimento della manovra allora assumeva i toni cupi e grandiosi di una caduta degli dei.
L’ormeggio del tedesco se non è un successo diventa una tragedia. E quel pomeriggio i successi non furono molti. Gli inglesi invece, soprattutto in barca, hanno il vezzo di mostrare tanto più aplomb e understatement quanto più la situazione è drammatica. Al contrario degli altri equipaggi che urlano loro sussurrano e quindi i dialoghi a bordo sfuggivano al pubblico. Ma si poteva immaginare che fossero a base di “Oh, what a gentle breeze!” (mentre sono in balia di una raffica a 40 nodi), oppure: “darling, would you like a cup of tea?” (dal quadrato la moglie al marito che ha il piede impigliato nella catena dell’ancora e sta per essere trascinato in acqua).
Completamente diverso e assai pittoresco il modo di ormeggiare dei turchi. Con i loro grossi “gulet” in legno si presentano in schiere compatte come squadre di galere pronte all’attacco, arrivano a 12 nodi fino a un metro dalla banchina, e lì con vigorosi colpi di motore si fanno spazio sgomitando fra le altre barche senza troppi complimenti. Al loro apparire serpeggia negli animi dei cristiani già ormeggiati l’atavica “paura saracina”, riaffiorano ricordi mai sopiti di secolari aggressioni.
Verso sera quando tutti avevano ormai bene o male trovato un posto, si presenta all’imboccatura del porto, incedendo con irridente sicurezza fra i marosi, un candido e lussuoso yacht battente bandiera a stelle e strisce.
Cala il silenzio. È un grande momento: tutti aspettano il botto finale dello show, tanto più gustoso in quanto ai danni di un americano davanti agli occhi della vecchia Europa. Lo spazio a disposizione è minimo, e solo un miracolo potrebbe consentire a una barca di quelle dimensioni di entrare senza far danni. Il miracolo purtroppo lo fa l’antipatico aggeggio di cui si parlava, l’elica direzionale di prua. Girando su se stesso, arretrando con lieve grazia, sfiorando le prue delle altre barche l’odiato yankee si infila nell’unico pertugio rimasto, inaccessibile per chiunque altro, umiliando ancora una volta tutti quanti con l’arroganza e la superiorità della sua tecnologia. Questo stucchevole “happy end” rovinò un po’ uno spettacolo fino a quel momento ottimo, e non fu per verità l’unico neo di quella bella giornata.
Mi spiacque anche che non ci fossero italiani a ravvivare lo show con la loro proverbiale fantasia e con l’arte d’arrangiarsi di cui sono rinomati maestri. Così pensavo. Ma in verità un italiano c’era: ero io. Sul momento non ci pensai ma quando, qualche tempo dopo, l’occhio mi cadde su una stampa francese dal titolo “les costumes des Italiens” (disegno sopra) in cui il nostro compatriota è rappresentato come un mollaccione languidamente disteso sulla spiaggia che ascolta il suono del mandolino, mentre le vele incrociano all’orizzonte, capii che anch’io agli occhi degli altri non avevo fatto che incarnare un cliché. Vi assicuro che non mi sentii molto fiero.
Articolo apparso nella rivista “Yacht Digest” N°98 Dicembre 1999 e qui riprodotto per g.c. dell’autore.
Saluto Paolo Lodigiani e ringrazio per la simpatica storiella riportata.
L’unica cosa che mi sento di criticare e chiedo umilmente perdono se vi sembro polemico, e’ la condanna senza appello dell'”odiato yankee” che a suo dire “umilia tutti con l’arroganza della sua tecnologia”.
Mi sembra che questo gratuito antiamericanismo sia fuori luogo, anche se tristemente di moda.
Cordialmente
Maurizio Martinucci
Sono letteralmente stupefatto da questo intelligentissimo sistema composto da un’elica che ruota in un campo magnetico, applicando la geniale scoperta del campo magnetico rotante fatta da Galileo Ferraris (1847 – 1897).
Una finezza realizzata dai tecnici Olandesi, da sempre impegnati nel settore nautico, offrendo sul mercato prodotti di altissima qualità ed ho grande rispetto ed ammirazione per queste persone.
Il Truster EPS è costruito in 5 misure ed oltre ad essere validissimo nelle manovre, potrebbe essere usato anche per una navigazione a bassa velocità in prossimità di zone protette. Inoltre questo sistema potrebbe divenire obbligatorio quando si entra nei porti.
Ottimo come sistema di ricarica delle batterie di bordo, quando si naviga con il motore a scoppio o a vela. Potrebbe trasformarsi in un ottimo sistema di sicurezza nel caso si avessero problemi ai motori o quando si rimane senza carburante.
Grazie all’attentissimo Vittorio i Sambuy che ci ha permesso di scoprire questa geniale invenzione alla quale dedicheremo certamente molta spazio ed attenzione, nella speranza che possa diffondere la conoscenza e l’uso da parte degli addetti ai lavori.
E’ certamente una geniale invenzione!!
Giacomo Vitale