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A life in the sun – di Antonio Soccol

10/03/2007/0 Commenti/in Antonio Soccol, Antonio Soccol - Articoli, Offshore/da Antonio Soccol

Nel 1988 Carlo M. Cipolla, grande studioso di economia, pubblicò per la edizioni “il Mulino” un piccolo capolavoro: un libricino (che credo sia ormai alla ventesima ristampa) che ha come titolo: “Allegro ma non troppo”. E’ diviso in due parti: la prima è una parodia della storia economica e sociale del Medioevo; la seconda è una sinteticissima (una trentina di paginette appena) storia della stupidità umana.

Panarea
Da quando conosco questo testo vivo meglio e ne faccio continuamente oggetto di regalo a amici e conoscenti: è semplicemente fondamentale per la sopravvivenza. Così come Isaac Asimov ha stabilito per sempre le tre leggi della robotica (quelle che regolano il comportamento dei robot), altrettanto ha fatto Cipolla con la stupidità: alcune leggi che spiegano tutto. Ne riporto qui qualcuna perché sono la chiave di lettura della cronaca di un episodio di mare che racconto di seguito.

Dice la Prima Legge Fondamentale della stupidità umana: “Sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione”. La Seconda Legge Fondamentale asserisce che: “La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona e intende dire che la persona può, indifferentemente, essere giovane o vecchia; femmina o maschio; ricca o povera; bianca o nera; analfabeta o premio Nobel eccetera. (Nda)

Infine la Terza (e aurea) Legge Fondamentale chiarisce che: “Una persona stupida è una persona che causa danno ad un’ altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per se addirittura subendo una perdita”.

Per concludere, Cipolla garantisce che “Lo stupido è un bandito”.

Ecco: leggete qui. E ditemi voi se non ha ragione.

Lo spettacolo stava per iniziare. Come ogni sera avevo gettato l’ancora del mio “Exocetus volans” ad un centinaio di metri dal molo di Panarea, tenendomi sul lato nord (verso Stromboli, per capirci) in modo da non perdere alcun dettaglio del fenomenale e puntualissimo show che andava in scena alle 19,29 precise di ogni giorno d’agosto.

Come ogni sera eravamo andati a sederci a prua con le lattine di birra e i pacchetti di sigarette. Come ogni sera aspettavamo che l’urlo imperioso del grande traghetto della Siremar, in arrivo da Stromboli alle 19 e 30 per inghiottire gli ultimi turisti “mordi e fuggi” e riportarli a velocità sbuffante ai loro propri lidi, desse inizio alla baraonda.

Come sapete a Panarea non ci sono marina o porticcioli. A Calajunco che è una baia naturale, bellissima e ben ridossata ma è sempre piena di barche che conquistano il loro posto e mettono le cime a terra all’inizio dell’estate e non le mollano finché non rompe il tempo. Si sta, dunque, in rada. Di solito io me ne vado dietro all’isola, allo scoglio “Cacato” (il nome deriva dall’ intensa attività intestinale dei molti gabbiani che lo frequentano) e me ne sto tranquillissimo perché è un posto che nessuno frequenta. Forse per via dei gabbiani. Non so. A me basta che sia tranquillo e sicuro. E lo è.

Ma, prima di organizzarmi per la notte, porto la barca davanti al molo dei traghetti e mi godo lo spettacolo.

Fu proprio mentre l’ imponente taglia del traghettone iniziava a vedersi stagliata davanti a Basiluzzo che Antonella disse: “Quello la  non mi piace”. Non alludeva alla simpatica carretta del mare che avanzava maestosa illuminata dagli ultimi raggi del tramonto ma ad una imbarcazione a motore, un “offshore” si sarebbe detto una volta: insomma, uno di quei barconi da 14 o 15 metri, a ponte raso e con qualche migliaio di cavalli vapore nella pancia. Era un po’ che lo tenevo sott’occhio anch’io. A portarlo avanti e indietro, in mezzo a quel groviglio di catene, cime, gavitelli, barche, barchette, barcone, barcacce e barchissime, a pram, gommoni e gozzi vari, c’ era un uomo sui trent’ anni che si sentiva un gran marinaio. Guardava insistentemente a terra alla ricerca disperata di qualcuno che gli portasse aiuto: “Me l’aveva promesso, quer fijio de puttana”, sbraitava. “M’aveva giurato che m’ avrebbe dato er corpo morto. Quer bastardo”.

L’accento era romanesco. Sulla fiancata dello scafo una scritta da prua a poppa recitava “A life in the sun”.  “A boat in the shit”, pensai. Dall’occhio di cubia scendevano tristi alcuni metri di catena che trattenevano a fior d’ acqua un’ ancora, ideale per dimensioni e peso per un gommone da bambini: di quelli, per capirci, che i papà volonterosi e celoduristi gonfiano a polmoni in modo che i loro marmocchi possano dire “Però, il mio papà che mito”.

Che a Panarea d’ agosto si possa avere un corpo morto fa solo ridere. Che qualcuno possa sperare di averlo, fa paura.
Quando “una vita nel sole” sfiorò troppo la catena della mia ancora, gli diedi una voce: “Non si illuda, corpi morti non ce n’è per nessuno. Cali la sua ancora e si rassegni”.

“Nun posso buttà l’ ancora:  sta blocata”. Rispose, aggiungendo una adeguata bestemmia.
“Usi quella di rispetto”, suggerii.
“a de che?”
Quella di rispetto. Ne avrà pure una seconda a bordo, di ancora, no?
A Perché pure quella ce vole? E già una sgasata a tutta manetta in marcia indietro per evitare la catena di un megayacht e infilarsi così, dritto dritto, di poppa, sotto la piattaforma di un trawler.
“Spenga quei motori e mi butti una cima”, sentii dire il buon samaritano che c’è in me.
Non spense i motori ma cercò a bordo una cima che naturalmente era solo un mucchio di cordame informe senza né capo né coda.
“Lasci stare e prenda questa”; mi sentii ancora dire mentre mi maledicevo perchè capivo che stavo rischiando di mettermi da solo nei guai. Come dice sempre Carmela: “Con un no ti spicci; con un sì ti impicci” ma ormai era fatta.
Cercò di agguantare la cima ma scivolò: “Vacca, puttana: come devo dirtelo di non metterti quell’olio solare di merda qui sul ponte. Stronzaaaa e schiamazzò rivolgendosi sotto coperta del suo cacciatorpediniere. Nessuna risposta. Pulì il ponte con dello scottex e non mi sembrò manovra elegante e raffinata: forse perché gettò a mare l’impasto.
Gli ripassai la cima e lo tirai lentamente sottobordo: Metta i parabordi, suggerii.
“Nun so ndo cazzo stanno, li parabordi” mormorò malmostoso.

“Ok. Fa niente. Metto i miei. Quanto pesa la sua barca?” azzardai.
“Ho due motori da 600 cavalli”, rispose baldanzoso.
Colpito da tanta precisione scesi in cabina a prendergli una bella “rampino” che su quei fondali va benissimo e da 12 chili, con tanto di catena nei primi 15 metri e una cima poi di 50 metri.
“Ecco. Usi questa e domattina me la rende. Ma si metta un po’ fuori che qui ora succede un macello”.
“Me pare un po’ antica st’ancora.
“Non so: non ha certificato di nascita”, risi. Ma mi sentii anche in dovere di tranquillizzarlo:
“Vedrà che funziona benissimo”.
“Sarà; disse e lasciò cadere l’ a ncora in mare.
“No. Non qui. Si metta più al largo”.
“Già e poi come ce vado io a tera?”
“Avrà un gommone; immagino”
“Sa che ce l’ho; ma è mezzo sgonfio e “a puttana nun se vo bagnà er vestito”.

Nel frattempo il grande traghetto aveva lanciato il suo urlo e, come alla partenza di un Grand Prix, tutti i cabinati che erano ormeggiati sul fronte del molo avevano già mollato le cime di poppa ed erano scattati in avanti; chi a destra e chi a sinistra per lasciare libero lo spazio d’ attracco del Siremar.

In pochi minuti e con una manovra precisa, garantita da una esperienza infinita, il bestione con a prua la sua immensa ancora; toccò un po’ di retromarcia; filò a terra le sue cime e spalancò la sua immensa voragine dentro alla quale si precipitarono i pellegrini del turismo “day by day”.

Attorno al traghettone gli yacht stavano acquattati in attesa: sembravano, come sempre, tanti topi in attesa che il gatto se ne andasse per iniziare a far festa. In realtà lo scopo era di tornare a mettere le cime a terra nello stesso posto occupato faticosamente ore prima; rinunciando  a belle ore di sole e di mare ma con la garanzia che per andare di notte a far baldoria nei vari ristoranti e locali dell’ isola, le “signore” avrebbero potuto comodamente scendere dalla stupenda passerella superteleradiocomandata senza passare per le tragiche forche caudine della “traghettata” con il pram/gommone. L’ interesse era notevole specie per l’ altrettanto logica comodità nelle manovre di imbarco delle suddette “signore” verso l’ alba quando alcool e altre illegali piacevolezze avrebbero reso ineluttabilmente meno sicuro il passo delle loro scarpette con tacco a spillo da 13 cm.

Era per questo che quel motoryacht da 18 metri che vergognosamente batteva bandiera di San Marco (bandiera, dico, non gonfalone che sarebbe gravissimo e… beh, cercate di capirmi) sgasava in folle per tener ben caldi i suoi propulsori per quel fondamentale rush che faceva vincere la gara del giorno: 50 metri in retromarcia a tutta manetta.

Appena il Siremar chiuse il suo portellone e si incominciò a sentire lo stridio della catena della sua  ancora sull’occhio di cubia, il rombo dei motori di tutte quella barche in agguato salì violento e coprì totalmente quello della carretta che riprendeva la via del mare verso Vulcano e la Sicilia.

Ma nel frattempo i topi erano aumentati di numero: erano in molti quelli che miravano a quell’ormeggio e non era detto che, con una manovra alla Tarzan, non si riuscisse ad arrivar con il culo in banchina prima di quelli che c’ erano nelle ore precedenti l’ arrivo del traghetto. La lotta anche quella sera fu durissima, serrata, drammatica e feroce. Al calor bianco e all’ultimo giro di potenza dei motori. E subito scoppiarono le conversazioni da bon ton: “Figlio di troia Io t’ ammazzo” Pian co le parole perchè son  queo che te copa” “A stronzo! A chi ammazzi tu?”.
Te facio un c. così, io “Daghe, daghe indrio co’ sti motori che lo freghemo quel romano de merda. “Sto cojon”…

Cric, crac, bum, bong, scrasc: parabordi che esplodono, ferraglia che sbatte sul molo, cime che volano in faccia a tutti: “Ciapila; ciapila quel casso de corda; in mona”. Passerelle che brandeggiano nel vuoto pronte a decapitare. Urla. Urla di vittoria. Urla di delusione. Insulti. Maledizioni. Bestemmie: tutto il bello della crociera. Lo spettacolo all’apice. Poi la pace. Quella delle docce, dei profumi, delle prove con gli abiti lunghi, “Questa sera mi metto questo”; No meglio questo; Ma no, meglio quest’altro che mi esalta l’abbronzatura, delle tette al silicone elargite al parterre, dei tanga filo dentale, dei capelli spazzolati in coperta, della tormentata prova delle scarpe a spillo mentre, ormai lontana, la goffa sagoma del traghettone gigante ansimava e annusava le onde.

“A life in the sun” cercò, ovviamente, di far danni nei suoi dintorni sotto la spinta di tutto quel ribollio di eliche.
“Qui c’è un fondale di sette metri: se lei mi mette appena cinque metri di catena, l’ ancora nemmeno tocca il fondo e non morde, spiegai al prode marinaio.
“E’ la tua ancora che nun tiene. Quell’ancora de merda”, mi beccai.
Da una bella barca a vela si staccò un gommone con un paio di ragazzi in gamba: “Ce ne intendiamo di salpa-ancore: forse possiamo aiutarla dissero salendo agili a bordo del cacciatorpediniere, armati tanto di potente torcia quanto di congrua cassetta dei ferri.

Dai sotterranei del milleduecento cavalli uscì, in quel momento, una donna. In abito da sera, naturalmente: “Io sono pronta; andiamo? disse. Serafica.

Io non voglio adesso andare all’ inferno per riferire tutto quello che le pervenne come risposta ma posso assicurare che non si salvò nessuno: né i suoi antenati vivi né, men che meno, quelli non viventi; né i santi e nemmeno le divinità ad ogni livello di parentela e grado. Una filastrocca altamente circostanziata, tutta da registrare per istruire in materia gli ospiti di Regina Coeli o di San Vittore.

La donna scappò piangente nelle catacombe da dove era uscita. Intanto si era spento il sole. I ragazzi avevano calato la mia ancora e dato di volta ad una bitta di poppa e cercavano il salpa-ancore. “Là dentro, interno; per nun rovinare a linea slanciata der ponte”, argomentò  l’armatore dal linguaggio raffinato. A l’ Interno? “E da dove si accede?” chiese uno dei ragazzi. “E che cazzo ne so io?” rispose indispettito il grande uomo di mare. “E poi tanto: nun funziona”. Guarda e schiacciò sicuro il “down” del verricello elettrico che, rispettoso, srotolò un paio di metri di catena calando così l’ancora dell’ armatore a pochi centimetri appena sotto al pelo del mare.

Ma quando poi l’ indice maldestro si posò sul comando “up” non successe nulla. Assolutamente nulla.
“Forse è solo un contatto. Restituisca a quel signore la sua ancora. Si porti al largo, un po’ fuori da qui; cali tutta la sua catena e domattina con la luce vediamo di sistemare il tutto”; dissero i ragazzi in veloce ritirata.
“No. Io de qui nun me sposto: devo portà a puttana a terra; “devo” urlò lo sciagurato alla scia del gommone che si allontanava.

Personalmente avrei voluto andarmene al mio “cacato” scoglio ma mi seccava un po’  perdere la mia ancora. Vero che me ne rimanevano, comunque, altre due di rispetto. E non era nemmeno questione di soldi: a chi ha problemi per mare un regalo lo si può anche fare. Però pensavo che la mia “rampino” non sarebbe stata proprio felice di passare il resto dei suoi giorni all’ombra di quella sfrenata “vita nel sole”. Insomma, io alla mia rampino ci sono proprio affezionato, non so se mi spiego.

Così decisi di rimanere dov’ero. Il turpiloquio si era trasferito all’interno del vicino, un po’ troppo vicino di barca. Non sembrava che ci fosse molto sole in quelle vite, in quel momento.

Si sentirono urla, schiaffi, pianti, gemiti. Altre urla. Altri pianti. La faccenda durò a lungo.

Ci fu il tempo per farci un bel piatto di spaghetti al tonno e alici con prezzemolo; di spazzolare una bella cofana di carne alla cinese (dadolata di manzo passata nella farina, bagnata con la salsa di soia e mezzo bicchiere di brandy e poi saltata veloce nel wok di bordo con un filo d’ olio e abbondante peperoncino). Il generatore borbottò ancora per scaldare le piastre della cucina e arrivò anche il caffè. Quindi fu il momento della bottiglia di ron e dell’ ultima sigaretta. Poi ce ne andammo a dormire con il contorno dei “Te possino ammazzaà”; tu e li mortà..”

Dire che il tutto fosse magico o idilliaco sarebbe un po’ esagerato.
Alle due del mattino esplose il più classico dei “Non ne posso più. Scattai in coperta giusto in tempo per veder apparire in pigiama celestinorosapallido il comandante del cacciatorpedinere. Era stravolto. Mise in moto tutti i suoi cavalli e li fece ruggire. Recuperò la mia ancora e con disprezzo la gettò nel pozzetto. Il suo. E si avviò.

“Torno da mia madre. A Ponza garantì ruggendo fra i singhiozzi.
“Accenda le luci di via e mi restituisca la mia ancora dissi forte e incurante che il suo sguardo fosse fisso sulle mie tradizionali nudità : non capisco, sono sempre le stesse da moltissimi anni.
“Per quello che vale sto cazzo de ancora” disse buttandomi alla rinfusa il capo della cima e scaraventando tutto il resto a mare. Recuperai, felice e con calma, la mia “rampino”.

Si dimenò con grandi colpi di gas nel dedalo delle barche ormeggiate. Quando ne fu fuori, si mise in piedi sul posto di guida e, sfidando l’ isola, urlò: Panareaaa, Panareaaa, Vaffanculooo. Capitooo?
“Tié! Tié! E tié!! ” E ripeteva, convinto, il leggendario gesto dell’ ombrello.
Poi, nel buio della notte, diede tutto gas. La barca planò fra le bestemmie di quelli che dormivano in rada.
L’ ancora a penzoloni sbatteva convinta e feroce sul suo dritto di chiglia. Ponza era lontana, a un gran bel numero di miglia con rotta Nord/Nord-Ovest.

Notai che le luci di via non le aveva accese.

Pubblicato nella rivista mensile “Barche” di novembre 2006 – Tutti i diritti riservati. Note Legali

Tags: Antonio Soccol, Racconti di mare
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