Ridare Dignita’ alla progettazione (nautica)
di Antonio Soccol
(Per i 30 anni di ASPRONADI)
Nel 1994 il professor Bryan Sykes, studioso di statura internazionale del DNA e dell’evoluzione dell’ uomo, fu incaricato di esaminare il corpo congelato di “à–tzi”, l’ uomo di Similaun, vissuto oltre cinquemila anni fa e rinvenuto nel 1991 tra i ghiacci delle Alpi orientali. E la storia affascinante di questo ritrovamento trovò un’ eco sensazionale nella notizia che Sykes era stato in grado di rintracciare un discendente genetico di à–tzi: una donna inglese tuttora vivente. Com’ è possibile individuare una persona legata da parentela a un uomo che ha trascorso l’ esistenza migliaia di anni prima, a migliaia di chilometri di distanza?
Nel libro “Le sette figlie di Eva” Bryan Sykes fornisce un resoconto di prima mano delle sue ricerche sul DNA mitocondriale, un gene che viene trasmesso intatto da una generazione all’ altra in linea materna, e spiega come per suo tramite si possano rintracciare attraverso il tempo e lo spazio i nostri lontanissimi antenati. Dopo aver inserito nel computer sequenze di DNA provenienti da ogni parte del mondo, l’ autore ha scoperto così che si potevano far risalire tutte a un numero molto limitato di individui: nellì intera Europa, soltanto sette. Ha quindi concluso che chiunque sia di origine europea è probabile che risalga per via materna a una fra sette antenate, vissute tra 45.000 e 10.000 anni fa: Ursula, Xenia, Tara, Helena, Katrine, Velda e Jasmine, le Sette figlie di Eva.
Nel corso di questa straordinaria avventura scientifica raccontata, senza rinunciare alla precisione dei dati, con passione, senso dell’ humour e un’ accattivante capacità di ricostruzione del passato, apprendiamo come ci si possa ricollegare alle nostre origini più remote, ci immergiamo nelle società primitive dei nostri antenati genetici e nei paesaggi solitari, inaspriti dall’ ultima grande glaciazione, che si stendono dalla penisola iberica al Medio Oriente, fino a conoscere le sette madri antiche con le quali ciascuno di noi ha un legame profondo. E il viaggio del DNA attraverso i millenni apre davanti a noi infinite vicende, curiose e drammatiche, al limite dell’ incredibile, ma sempre rigorosamente dimostrabili.”
Tutto questo sta scritto nel “risvolto” di copertinella dell’ intrigante opera di Bryan Sykes ma mi è venuto in mente con sospetta immediatezza quando l’ antico amico Giorgio Barilani mi ha chiesto di dare un mio contributo in occasione del “trentennale” dell’Aspronadi, Associazione dove, oggi, nessuno mi conosce ma che mi è figlia.
Ebbene si, lo confesso: il padre “naturale” dell’ Associazione Progettisti Nautica da Diporto sono proprio io. E, come spesso accade in casi del genere, sono stato anche un padre “snaturato” perchè un bel giorno ho detto che andavo a comprarmi le sigarette e non sono più tornato a casa. La figlia cresceva, non c’ erano dubbi. Ma non come sarebbe piaciuto a me. Forse non c’ era più l’ amore che mi aveva portato a concepirla. Forse non c’era più l’entusiasmo che si ha quando si hanno trenta anni di meno di oggi. Egoisticamente e in sintesi: questa benedetta figlia, peraltro fortemente voluta, non mi divertiva più.
Ma, come dimostra Bryan Sykes, alla legge del DNA, alle proprie origini non si sfugge e cosù oggi questa figlia me la ritrovo trentenne e matura. E spunta qualcuno a chiedermi di celebrarne l’ importante genetliaco.
LE BELLE BARCHE DEGLI ANNI 60′ – 70′ (Alcuni esempi)
E’ stato anche scritto: “Formidabili quegli anni”. E’ vero. Pensate che all’ epoca, cioè nei primi anni Settanta, le barche si progettavano. Sì, lo so che sembra impossibile ma invece, lo garantisco, è proprio vero. C’era gente, allora, che si metteva davanti al tavolo da disegno, tirava la linea di galleggiamento e poi iniziava a pensare. A riflettere, a confrontare. A studiare. A tentare. A provare soluzioni nuove che consentissero una miglior navigazione per mare con il naviglio leggero da diporto. Carene, trasmissioni, motorizzazioni, variatori d’assetto, casse di zavorra, materiali di costruzione.
Erano tempi in cui un costruttore come Carlo Riva faceva cambiare, durante l’ inverno, a tutte le sue barche (e quelle già in circolazione erano tantissime) i serbatoi della benzina perchè 1 (uno) aveva mostrato dei difetti di fabbricazione. Il tutto di nascosto ai legittimi proprietari dei suoi motoscafi e pagando di tasca sua.
Erano anni in cui si mettevano, per la prima volta al mondo, due motori a scoppio per un totale di 1050 (milleecinquanta) cavalli dentro a una barca da 8,53 m ft. E, per diminuire le superfici d’ appendice, si facevano lavorare entrambi i propulsori su un unico asse portaelica.
Oppure si faceva volare, è proprio il caso di dirlo, un cabinato da 13 metri a più di 50 nodi sotto la modesta spinta di una coppia di diesel da 370 cv ciascuno, inventando le eliche di superficie.
DRAGO” Italcraft 1973 (carena brev. internazionale step-drive – 2 x 370 Cummins D – eliche di superficie – lung f.t. 13m) V.4000 –Motovedetta foranea velocissima della Guardia di Finanza
“Drago” Italcraft 1972 (carena brev. internazionale step-drive motori: 2 x 370 HP Cummins D – eliche di superficie – lung. f.t. 13 m) Versione da diporto rimasta in produzione per diversi anni. Un successo di tutto rispetto per le scelte coraggiose ed innovative dell’ ing.”Sonny” Renato Levi
O, ancora, si infilavano due CRM da 1350 cv ciascuno dentro un fast commuter da poco più di 14 metri.
Sciocchezze? Beh, viste trent’ anni dopo, possono forse anche sembrare tali ma va anche aggiunto che tutta questa “roba” poi funzionava, eccome. Non erano, insomma, follie impossibili.
Mentre scrivo mi casca l’ occhio su una di quelle terribili e orribili cose che sono le cosiddette “prove in mare” (o “test di navigazione”) fatte da una delle tante riviste nautiche in circolazione (nel caso specifico, si tratta di una fra le più importanti) e leggo che il nuovo modello da 70′ (22,30 metri) di un noto cantiere ha una carena a V con un diedro allo specchio di poppa di 13 (tredici) gradi. Conosco l’autore del testo e lo so pignolo ma un refuso di stampa può sempre scapparci e perciò cerco nel sito Internet conferma dell’ errore. Ma sui siti web, i cantieri non parlano di carene, men che meno di diedri allo specchio di poppa.
Telefono allora al costruttore: mi risponde una cordialissima centralinista che rimane sbalordita dalla mia domanda. Ripete con tono incredulo: “Che diedro ha, allo specchio di poppa, il nostro modello da 70′ ” Panico. Per guadagnar tempo mi chiede come mi chiamo e io confesso nome e cognome. “Le passo l’ufficio tecnico”. Ecco, si meglio. L’ufficio tecnico gentilmente mi spiega che il diedro a prua è molto alto per tagliare meglio le onde, mentre poi degrada verso poppa, dove, sostiene: “non conta niente”: “a poppa -aggiunge- è meglio essere piatti, per dare portanza all’ imbarcazione. E garantisce che comunque 13 gradi sono sufficienti per definire l’ opera viva “una carena a V”. Roba da non crederci. Sono 40 anni che sappiamo con assoluta certezza che sotto ai 20° di diedro allo specchio di poppa non vale la pena di andare, se si vuole navigare con mare formato. E questi mi misurano il diedro a prua dove invece più è¨ forte e più è pericoloso…
Sfoglio ancora la rivista specializzata: di test ce ne sono a iosa e ciascuno ha la sua bella “scheda tecnica” ricca di una infinità di voci: categoria di progettazione, lunghezza, lunghezza di omologazione, immersione, dislocamento a vuoto, a pieno carico, portanza omologata, totale posti letto, potenza complessiva installata, potenza fiscale, peso totale motori compreso invertitore, eccetera eccetera. C’ è persino il prezzo con IVA. Ma di carene non si parla. Le fotografie illustrano con pedante puntigliosità le “stanze”, i bagni, gli strumenti di guida, lo scafo in planata: ce ne fosse una in cui si vede la carena fotografata la dove le cose contano. Mai.
Leggo dei testi: ci fosse una sola barca che non abbia una linea molto slanciata oppure “assai elegante”; talvolta vi sono dei voli pindarici da applauso tipo: “linee movimentate e attraenti”. Ma per favore… un po’ di pietà .
Insomma e per farla breve: tante chiacchiere inutili e niente tecnica. Di come sia quel “progetto” non frega niente a nessuno: al giornalista, ai suoi lettori, al cantiere che ha certamente pagato quella marchetta.
Di chi la colpa? Non lo so. Non faccio il giudice ma il cronista e constato una realtà patetica.
E’ vero: se uno va al Salone Nautico di Genova e ci sta per tutti i dieci giorni della manifestazione non vede mai uno qualsiasi degli oltre 100mila visitatori abbassarsi a guardare la carena di una barca. Il mercato è di una ignoranza spaventosa. Le barche si vendono come oggetti d’arredamento. Che siano funzionali è trascurabile, che garantiscano una buona navigazione è addirittura superfluo.
Alcuni secoli fa scrissi che una famosa barca inglese importata anche in Italia aveva timoni che sembravano fatti di latta. L’importatore si inquietò non poco e per dieci anni non mi rivolse la parola. Poi un giorno mi invitò a cena e confessò: “Avevi ragione, quei timoni erano proprio di tolla” Bello. Peccato che ora che é proprietario di cantieri di grande grido produca barche le cui carene sembrano drammatiche bagnarole, nella migliore delle ipotesi.
Ho scritto di barche su 135 (centotrentacinque) testate e non ho mai fatto un test in vita mia, ho diretto una dozzina di riviste e non ho mai pubblicato una “prova” : come fa uno a capire una barca, facendoci solo un giretto sul lago o nella laguna davanti al cantiere perché: “mica saremo così scemi da aspettare il brutto tempo per provarla, la barca-e se si rompe chi la paga?”. Già, e per mare è pieno di osterie, vero??
Qualche volta ho anche pubblicato articoli che avevano come titolo: “Questa barca é affondata per un difetto di progettazione”. Era vero, infatti nessuno mi ha fatto causa (solo minacciata) ma quella barca é uscita di produzione solo di recente e quando era affondata c’erano a bordo marito moglie e due figli. Che si sono salvati per puro culo.
Il vizioso e nefasto circuito pubblicità – pubbliredazionali ha tolto ai giornalisti ogni capacità di critica, purtroppo. E su questo non ci piove. Ma le eventuali responsabilità sono tutte della stampa che non ha affatto educato il mercato come avrebbe dovuto? Oppure un bel esame di coscienza non spetta anche a chi ha scelto come mestiere quello di (non) progettare barche ma villini più o meno galleggianti?
Sapete perché un bel giorno mi è venuto in mente di inventare l’Aspronadi? All’epoca, in quei “formidabili anni Settanta”, due riviste si contendevano il mercato: “Nautica” e “Mondo sommerso”. Io, alla fine degli anni Sessanta e fino alla fine del decennio successivo, lavoravo per la seconda ed ero responsabile della sezione nautica: avevo a disposizione al massimo 24 pagine al mese con le quali contrastare le forza delle 200, talvolta 300 pagine della concorrente. Un’ impresa difficilotta (e, forse per questo, anni dopo mi hanno voluto alla direzione di una testata che si chiamava “No Limits world”).
L’unica soluzione che mi venne in mente e che Sergio Scuderi, allora direttore di “Mondo sommerso” approvò con entusiasmo, era di far scrivere su quelle 24 pagine i progettisti e non i giornalisti. Iniziarono così a collaborare firme come Colin Moudie, Peter Du Cane, John Illingworth, Renato “Sonny” Levi, Franco Harrauer, Franco Anselmi Boretti, Paolo Caliari, Enrico Contreas, Alberto Landini, Fabio Peterlin. Che rapidamente divennero amici oltre che collaboratori. Dalle loro confidenze scoprii l’assurda verità e cioè che i loro progetti per le nostre autorità non erano validi e dovevano essere firmati da un compiacente e (inesorabilmente) corrotto ingegnere navale di passaggio in zona.
Gente che progettava barche per Chichester, per Gianni Agnelli, per Adriano Olivetti, per il conte Mario Agusta, per l’Aga Khan eccetera doveva sottoporsi all’umiliazione di far controfirmare i propri disegni da qualcuno che probabilmente non era mai salito su una barca da diporto ma che aveva il titolo di studio previsto dalla legge. Come se progettare una barca fosse eguale che disegnare una nave. Grottesco e ridicolo. Roba che nemmeno la riforma “Moratti”, per capirci. Per cui, in quegli anni “formidabili” per ben altri motivi, feci partire la crociata che, durante il 12° Salone Nautico di Genova, l’8 dicembre del 1972, mise intorno allo stesso tavolo i progettisti: Andrea Bacigalupo, Pietro Baglietto, Walter Bertolazzi, Franco Anselmi Boretti, Paolo Caliari, Giulio Cesare Carcano, Enrico Contreas, Epaminonda Ceccarelli, Luciano Consigli, Angelo De Meis, Franco Harrauer, Alberto Landini, Alberto Mercati, Fabio Petterlin, Aldo Renai, Mario Roberti, Alfio Rocchi, Cesarino Sangermani, Alessandro Tommei, Bruno Veronese e i giornalisti Carlo Marincovich e Antonio Soccol. E, il mese dopo, su “Mondo sommerso” titolai: “Nasce da una nostra idea l’As.Pro.Na.Di.” (vedi sulla rivista, anno xv, n.1, pag. 20).
Chiedemmo al grande ingegnere Pietro Baglietto (l’unico che poteva firmarsi i suoi progetti) di accettare la presidenza e Luciano Consigli diventò la vera anima dell’Associazione.
Il gruppo si infoltì velocemente con aggregazioni importanti come: Renato “Sonny” Levi, G.B. Frare, Ernesto Quaranta, Giorgio Barilani, Aldo Gatti, Piero Nessi, Aldo Cichero e Federico Sciarrelli.
Ma fu proprio Federico, alcuni anni dopo, a dirmi: “Abbiamo creato un mostro”. Sorrisi alla sua battuta ma andai, come già confessato, a comprarmi le sigarette.
Leggo nei bollettini Aspronadi che continuo a ricevere nella mia qualità di “socio speciale”, di tante importanti iniziative: convegni, presenze a diversi saloni, concorsi. Bello. Tutto molto bello. Ma se si progettassero barche meno “movimentate e attraenti” e più serie non sarebbe meglio? I cantieri non le vogliono? Ai clienti non interessano? Siamo ancora alle affermazioni che ” flaps si montano solo sulle barche sbagliate”, ” power trim non serve a nulla, tanto nessuno lo sa usare”, “le eliche di superficie servono solo alle barche da corsa”?
Siamo ancora a questo medioevo?
Tutto, negli ultimi anni, ha avuto una evoluzione tecnologica impressionante. Tutto, meno la nautica da diporto. Sì lo so: ora navighiamo con il gps e nessuno sa più tracciare una “rotta bussola”, abbiamo materiali di costruzione fantastici (mai quanto il legno, ma quello costa troppo), disponiamo persino dell’aria condizionata a bordo. Ma il “nostro” progresso é tutto qui. In medicina stanno inventando i microscopici robot che ci inietteranno nelle vene per curarci e nella nautica andiamo a spasso con carene con 13 gradi di diedro allo specchio di poppa. Questo sì che si chiama “regresso”.
Si dirà : teorie interessanti ma il mercato non ne risulta interessato. Vero. Ma è altrettanto vero che il mercato fa quello che si vuole faccia. Basta informarlo o influenzarlo. Lo ha dimostrato di recente persino la politica che ha ampliamente influenzato il mercato degli aventi diritto al voto.
E allora?
Allora, l’ Aspronadi deve farsi promotrice di una feroce campagna di informazione nei confronti della clientela perchè una carena a V con un diedro di 13° allo specchio di poppa è solo una terribile assurdità . Inaccettabile. Perchè una barca senza power trim o senza flaps è come una automobile senza cambio. Perchè le eliche di superficie consentono un risparmio di carburante (o una maggior velocità , a libera scelta) del 20%. Eccetera, eccetera.
Insomma: si ridia dignità alla progettazione. Si recuperi il proprio DNA di esseri nati dal mare.
L’ Associazione, mia figlia, ha ora trenta anni. Si sostiene che, per una donna, sia letà migliore. Spetta a lei dimostrarlo. A se stessa.
Con i migliori auguri del suo snaturato papà.
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Ciao Federico,
selezionando il link del nome “admin” approdi al mio blog…
URL è: http://pro.dbatrade.com/wordpress/ e la mia mail diretta è info (at) dbatrade.com
A presto,
Alex
Grazie, per favore qual’e’ l’indirizzo del tuo blog?
E si,
anche lì…
Complimenti per il tuo lavoro e il tuo sito, veramente molto interessante, se mai tu avessi voglia di raccontarci di più, il mio blog, non questo, è a tua disposizione.
Alex
Completamente daccordo con il suo articolo,
estenderei le considerazioni anche e soprattuto al mondo dell’ automobile.
Federico