Era una notte buia e tempestosa…
di Antonio Soccol
Il mio articolo sull’usato apparso su “Barche” di dicembre ha scatenato un bel putiferio: improvvisamente il valore di certi scafi usati si è raddoppiato. Talvolta triplicato. Persino una testata specializzata che da anni “snobbava” nelle sue valutazioni certi modelli ha bruscamente corretto il tiro garantendo valutazioni impensabili all’inizio dello scorso autunno. Così: senza alcun apparente motivo.
Ci imbarcammo sul “Nauka” a Brindisi. Marian, da solo, aveva gironzolato per le isole della Grecia e della Croazia, sin dai primi di giugno. Poi, a Dubrovnik, aveva fatto il pieno di buon vino rosso e aveva traversato l’Adriatico facendo rotta diretta sulla città pugliese. Noi (Antonella e io) lo avevamo raggiunto con un volo da Milano.
Il “Nauka” era una barchetta a vela da sette metri scarsi con un Volvo da pochi cavalli come ausiliario. Marian se l’era coccolata tutto l’inverno: l’aveva acquistata usata e l’aveva rimessa a nuovo con le sue mani. Di due cose era molto orgoglioso: del soffitto degli interni, tutto rivestito di sottili pannelli di sughero (stupendo a vedersi e molto efficiente contro il caldo) e del suo nuovo spinnaker. Per il resto, il “Nauka” era una barchetta semplice: due letti a V a prua, un bagnetto, una cucinina, una dinette per carteggiare dove, di giorno, si poteva mangiar comodi in quattro e, di notte, dormir tranquilli. A poppa: un pozzetto dignitoso, timone a barra e gli aggeggi per lavorar le manovre delle vele (winches, strozzascotte eccetera) a portata di mano.
La strumentazione era minimalista: una buona bussola, un segnavento e un manometro per la temperatura dell’olio dell’ausiliario. Quello che davvero non si poteva definire minimalista era (oltre alla citata “cantina” che era stata ricavata sotto al pagliolato della dinette) la parte riservata alle emergenze: centinaia di metri di cima d’ormeggio in parte pronte e in parte ancora sui loro tamburi, tre àncore di rispetto, molti parabordi, metri su metri di catena e ammennicoli del genere: tutti stivati in perfetto ordine nei gavoni del pozzetto. A poppa dondolava un piccolo gommone per il quale era previsto anche un fb da pochi cv.
Una barca come tante il “Nauka”, non avesse avuto a bordo quell’uomo straordinario che era Marian Skubin. Non chiedetemi di raccontarvelo: ci vorrebbe un libro. Ma fidatevi.
Oltre a Marian c’era, come ho detto, anche Antonella per quella che poi, nei nostri racconti, sarebbe stata definita la “prima crociera insieme”, per distinguerla dalle moltissime altre che seguirono e che, nei secoli futuri, seguiranno…
La nostra destinazione finale era Porto Cervo, in Sardegna. Eravamo alla fine di luglio e dovevamo raggiungere la nostra mèta in tempo per assistere alla Sardinia Cup che, all’epoca, si svolgeva nella seconda metà di agosto.
Decidemmo di prendercela comoda e, infatti, l’indomani mattina alle cinque Marian era già in coperta che mollava le cime di poppa…: “C’è un buon venticello, dai che vamos” mi disse allungandomi una “gitane papier mais” già accesa e con quel suo idioma dove si mescolavano in grande allegria espressioni argentine, slave, francesi e italiane: le parole dei paesi dove aveva passato la sua vita di vagabondo. In effetti, fuori dai lunghi moli foranei dell’infinito porto di Brindisi, c’era una bella brezza spiritosa che ci portò in fretta al largo da quelle insidiose secche costiere che sorgono virando verso sud.
Navigammo sereni per un po’ di giorni: il vento portava bene e le bottiglie di vino in sentina calavano con metodicità. Solo lo Stretto fu noioso. Vento e mare di prua: sciaff sciaff e secchiate d’acqua in faccia, sotto la spinta del Volvo. “Ci sono dei nanetti carogna a prua -aveva inventato Marian- e, quando alzi la testa, ti sparano palate d’acqua addosso, per farti dispetto”. (Questo giochino dei nanetti è entrato, da allora, nel mio vocabolario di bordo personale.) Ma era di notte e di tirar bordi dentro quella bolgia di traghetti, caronti, aliscafi, navi da crociera e portacontainer in transito non se ne parlava proprio.
Riprendemmo a veleggiare, all’alba, appena al traverso di Scilla e il trincarino di destra sfiorava l’acqua.
A Ventotene arrivammo una sera che era troppo tardi per aver speranza di trovar posto nell’antico porto romano. Fu giocoforza ormeggiare nel nuovo orribile porto commerciale, di fiancata. Facemmo manovra per mettere la prua rivolta all’uscita del porto e ci trovammo così poppa contro poppa ad una elegante goletta: “La puta madre….”, imprecò Marian, guardando in cabina il nostro barometro che era sceso di un bel po’. Troppo. Ma fuori il cielo era sereno e il tramonto infuocato da cartolina.
Avevamo fame e voglia di scendere a terra. La barca era ben messa, ormeggiata con cime robuste e i parabordi all’altezza giusta. Il bacino interno del porto, immobile. Così ci infilammo qualcosa: una maglietta, un paio di jeans e un paio di scarpe da tennis e arrancammo sulla lunga scalinata della “via del porto” sino a raggiungere la piazza del paese. C’erano un paio di ristoranti. Marian decise per quello che aveva la vista sul porto, mi pare si chiamasse “da Benito” o qualcosa del genere. A Ventotene ci sono, se non lo sapete, le più buone lenticchie del mondo ma preferimmo tutti un bel piatto fumante di pasta e un fritto di paranza. Fra un piatto e l’altro, Marian si alzava a guardar il mare e la situazione in porto: lui, sempre così tranquillo e sicuro, dava tutti i segni dell’animale che sente avvicinarsi il pericolo.
Eravamo al caffè quando entrarono. Sembravano usciti dal servizio di una sciocca rivista di moda: stivaletti gialli di gomma a metà polpaccio, pantaloni impeccabili con maglioncini di cotone coloratissimi, giacche a vento da “capitani coraggiosi”. Semplicemente grotteschi. “Faccedicazzo” i due ometti, degne compagne, ma un po’ meno peggio, le due donne. Si guardarono attorno e sembrava che aspettassero l’applauso generale dei presenti per quella loro orrida eleganza. Vociarono (stile:”lei non sa chi siamo noi”) con il gestore e scelsero un tavolo ben lontano dalla balconata che dominava il porto. Ci scambiammo, fra noi tre, un’occhiata di sarcasmo per questi poveracci che si sentivano perfetti uomini di mare grazie ai loro vestitini e chiedemmo il conto, felici di andarcene. Come sempre succede in questi casi, il conto tardò ad arrivare: “Piensa tu a “la dolorosa”, yo me voy al barco”, disse Marian, accendendosi la millesima sigaretta della giornata e in pochi secondi, con quelle sue gambe da cervo, era già a metà discesa. E fu allora che il vento incominciò a fischiare. Forte, secco, duro. Cattivo.
Affrontai “Benito” (o chi fosse) e gli cacciai in mano un po’ di soldi, ignorando le sue scuse per l’attesa della “dolorosa” che ci aveva imposto, presi per mano Antonella e mi gettai di corsa per la scalinata: nel porto le barche avevano iniziato le danze. E che danze!
Quando arrivammo, Marian aveva già raddoppiato gli ormeggi del “Nauka” e messo a cavalcioni della draglia di destra, quella del lato contro banchina, una gran quantità di cime, un invento che fungeva ottimamente da ulteriore parabordo di “emergenza”. Tirammo, con i tenditori, al massimo le sartie per diminuire d’intensità il classico concerto per “vento vivace”che era al suo preludio, bloccammo bene il fuoribordo al suo trabiccoletto e il gommone sulla gruetta di poppa.
Controllammo anche tutta la situazione rispetto agli altri: la goletta che ci stava a poppa sembrava a sufficiente distanza di sicurezza; a prua un barchino a vela da 5 metri era, invece, un po’ troppo vicino e le sue cime non erano ben tesate, inoltre non aveva alcun parabordo. Chiamammo ma a bordo non c’era nessuno: lo spostammo di qualche metro e gli rinforzammo l’ormeggio alla meno peggio ma aveva cime che sembravano spaghi. Al largo, sulla nostra destra, a una decina di metri di distanza, aveva gettato l’àncora, praticamente in mezzo al porto, uno yacht a motore: una roba “sciccosa” sui 45/50 piedi cui mancava solo il gran pavese e il nostromo in divisa per andare in copertina. Per il momento il vento le aveva solo allargato la poppa ma era evidente che l’àncora tirava ad arare. In banchina non si scorgeva alcun pram. Demmo la voce in coro per avvisarli del problema: nessuna risposta. “Forse il vento si porta la voce”, dissi e azionai il nostro lacerante segnale acustico di bordo. Nessuna reazione.
“La radio”, disse Marian. “Aspetta che guardo se si vede il nome a poppa”, dissi io. Non si poteva leggere. E il vento rinforzava sempre più e il suo fischio faceva impressione. Il cielo era diventato nero pesto, già partivano i primi fulmini. Tentammo egualmente con il vhf…ovviamente nessuno rispose. “Non ci sono luci a bordo: è inutile. Questi, chissà dove sono: non hanno neppure acceso la luce di fonda”. Ci sedemmo su una grande bitta di pietra, accendemmo le sigarette con lo “zippo” di Marian i cui click scandivano le nostre giornate e aspettammo il definitivo arrivo della gran buriana.
“Tutto bene, qui?” chiese una voce alle spalle. “Mmm: noi sì, per quelli un po’ meno”, disse Marian girandosi a guardar la voce sconosciuta.
Era di un ragazzo sui venticinque anni, faccia da marinaio piena di sole e di sale, cappellino di lana blu in testa, scarpe da tennis. Si mise a sedere anche lui sulla bitta: “Sta per arrivare, eh!” disse come se pensasse ad alta voce. E aggiunse: “Per fortuna io sono di là, nel vecchio porto romano. Quelli di una volta sapevano ben farli i porti: da noi l’acqua è immobile…” “Che barca hai?” “Sono lo skipper di un 15 metri armato a ketch e sto portando dei clienti dalla Turchia alle Canarie.” “Bel giro… Ma non sei un po’ a nord?” “Sì, ma i miei clienti vogliono vedere Ponza. Solo che io, di infilarmi in quella fogna di porto, non ci penso proprio e allora sono venuto qui. Per fortuna sono dei bravi vecchietti e non rompono: li ho già messi a cuccia e dormono contenti…”, sorrise nel buio. Si rollò una cartina pescando da una di quelle bustine di tabacco da pipa: “Tutto tabacco?”, chiese Marian. “In Turchia è meglio che sia solo tutto tabacco”, rispose ridendo: il film “Fuga di mezzanotte” lo avevamo visto tutti e quattro e non ci fu bisogno di spiegazioni. Guardavamo il cielo che era pece e il mare che, dentro al porto, bolliva. “Ehi, io mi chiamo Andrea”, disse la voce sconosciuta. Marian si alzò e disse: “A bordo c’è da bere. Vieni.”
“Aspetta: quella barca se ne sta andando alla deriva…”, disse Andrea.
Era vero. L’àncora si era spedata quasi del tutto e la barca, il bellissimo-elegantissimo motoryacht, stava per lasciarci le penne. Fu allora che si udì il grido: così acuto da sovrastare il ruggito del vento e il suo infernale ciabattare fra le sartie: “Aiuto! I nostri figli!!!”. Ci voltammo a guardare. Erano gli strafighi “capitani coraggiosi” visti prima in trattoria. Le donne picchiavano gli uomini: “C’è mio figlio là dentro, aiuto, aiuto. Fai qualcosa brutto stronzo tu e la tua barca …” e giù pugni. Beh, pugni è esagerato: diciamo, pugnetti.
“Ma non c’è più nemmeno il pram…” cercava di dire uno. “Che cazzo me ne frega del tuo pram: fai qualcosa, fai…” sbraitava quella dolce, elegantissima e nobilissima fanciulla in totale irreversibile crisi isterica. “Ma senza pram, come faccio?” “Vai a nuoto, vai come vuoi…Fai qualcosa…” “Ma il pram era qui e ora non c’è più…” ripeteva come un tanghero il “capitano coraggioso”.
Ci avvicinammo: “Così non si risolve niente” dissi. Le ragazze mi guardarono con l’aria di volermi sbranare. Poi, forse, non so, ci valutarono: noi eravamo in tre, tutti ben oltre il metro e ottanta e di spalle piuttosto larghe. Le donne in questo sono incomparabili e sanno trovare la soluzione giusta in un nanosecondo: quelle due, infatti, abbandonarono la loro improbabile scazzottatura e si misero immediatamente a piangere: “Fate qualcosa voi, per piacere. Ci sono i nostri figli a bordo di quella barca”, singhiozzarono.
Guardai Marian. Fece sì con la testa. Mettemmo a mare a tempo di record il gommone. “No, il motore non lo voglio”, gli dissi. Mi diede i remi e mi passò due cime prendendole direttamente dai rotoli a tamburo. Con il capo di una delle due feci una gassa veloce al maniglione di prua del gommone, mi piazzai sotto al culo l’altra e mi rivolsi ai “capitani coraggiosi”: “Chi viene?”, chiesi. Erano titubanti ma alla fine uno che sembrava il grande capitano si decise. “Hai le chiavi dei motori?” “Sì, mi pare di sì.” “Sì o no?” “Sì” “Hai un’altra àncora a bordo?” “No” “Come, cazzo, no?” “Eh…beh! Non ce l’ho. A che serve?”.
“Stronzo”, dissi. “Stronzo”, disse Marian, “Stronzo” disse Andrea, “Stronzo” disse la sua compagna. “Che stronzo”, disse Antonella.
“Sbrigati che qui si mette male”, disse Marian. Allargai e mi misi ai remi mentre da terra Andrea e Marian mi filavano a mare la cima la cui testa era bloccata sul maniglione. “Più veloce”, mi disse lo stronzo. Era proprio uno stronzo: non gli risposi. Mi lasciai portare dal vento sino a essere oltre la prua dello yacht e poi risalii controvento. Fu fatica: ogni vogata guadagnavo un metro e il vento me ne faceva perdere più della metà ricacciandomi indietro ma ce la feci. Dalla catena dell’àncora alla prua dello scafo fu durissima, poi sotto vento alla fiancata tutto divenne più semplice e arrivai alla scaletta di poppa dove ormeggiai il gommone.
“Metti in moto e tira su quel ferro”, dissi saltando a bordo. Per fortuna i motori rombarono e l’àncora salì. Uscirono da non so dove due marmocchi di pochi anni, piangevano. E, pensando ai genitori che gli erano capitati, ne avevano ben donde. “Girala e mettila con la prua al mare”, urlai allo stronzo. Non capiva. “Gira questo cazzo di barca e mettila con la prua verso l’esterno del porto”, ripetei. Ma vidi che aveva gli occhi sbarrati e lo sguardo fisso: panico totale. Lo spostai e misi al minimo avanti il destro e in retromarcia il sinistro. La barca rispondeva in qualche modo ma il vento voleva vincerla. Fu necessario giocare duro di gas. Il “capitano coraggioso” mi guardava incredulo. “Sei capace di andare a prua e filar a mare quell’àncora, lavorando direttamente sulla frizione del salpancore?” gli chiesi. Fece no con la testa: non sarebbe andato a prua neppure sotto minaccia di morte. “Allora, quando te lo dico, mandala giù con il motore elettrico. Questo sei capace di farlo?” Disse sì, sempre con la testa. I bambini urlavano. Il vento urlava.
Era un bailamme di urla. Portai la barca più o meno dov’era prima che iniziasse la grande buriana ma ora aveva la prua al mare e al vento e dissi: “Adesso”. Scendeva con una lentezza esasperante quella àncora ma i motori mi aiutavano a tenere lo scafo dove volevo io. E finalmente il ferro toccò il fondo. Gli feci dare ancora catena e lasciai che il vento ci facesse scadere di poppa. “Davvero non ne hai un’altra di àncora?” gli chiesi incazzato. Fece no con la testa. “OK. Adesso ascolta bene: non spegnere i motori finché non torno, porta giù questi marmocchi e…”- non sapevo più cosa dirgli: “Sparisci”, gli ordinai. Fece sì, ovviamente con la testa. Scesi sul gommone, mollai l’ormeggio ma diedi di volta su una bitta dello yacht all’altra cima in modo da creare un “vai e vieni”, urlai a terra e Marian con Andrea mi tirarono a riva recuperando sulla cima che avevano filato a mare.
“I bambini?”, urlarono le donne. “Stanno bene, dormono felici”, mentii. Imbarcai il secondo “capitano coraggioso” e una delle due donne e rifeci caronte. Ma adesso tirarmi sulla cima era facile. Tornai per il terzo viaggio e caricai l’ultima “donna del capitano” e un’àncora di Marian sulla quale avevamo messo un bel po’ di metri di catena e quindi una bella cima. “Questa morde”, dissi consegnandola al vice “nostromo”. “Morde cosa?” “Morde su questo tipo di fondale”, spiegai stanco. “Perché qui che fondale c’è?” “Di merda”, gli risposi. E aggiunsi: “Come te”. Ma temo non mi abbia sentito perché le urla di insulti fra quell’equipaggio erano riprese tremende ed erano peggio del vento. Pensai seriamente che l’incolumità di quei maschietti fosse molto precaria ma decisi che non erano affari miei. Con la coda dell’occhio vidi solo un’ombra che lanciava a mare quell’àncora “mordente” e che dava di volta ad una bitta.
Tornai a terra disgustato: “Hombre, me necessita rapido un vaso de tinto, por favor”, dissi a Marian.
Entrammo tutti nella dinette del “Nauka” e ne stappammo una di quelle giuste. Marian prese la chitarra e Andrea lo seguì con l’armonica a bocca (ovviamente era una “Hohner”): “Sembra un film western”, disse Antonella. Ogni tanto uno si alzava e andava in pozzetto a dare un occhio. Poi tornava. Il vento ruggiva, il mare bolliva, il mega yacht era sempre al suo posto: ma non c’era bisogno di chiedere. Finché mi scappò la pipì. Non avevo voglia di andare nel mini bagnetto della nostra barchetta e saltai in banchina. “Noli mingere contra ventum”, mi dissi. Così mi allontanai di un po’ di metri e allora li vidi.
Erano due giovani. Seduti sul bordo della banchina, a lato di quella barchettina a vela che avevamo di prua. Lui aveva in mano un remo rotto. Lei un mezzomarinaio formato giocattolo. Ed era incinta. Di almeno sei/sette mesi. Piangevano in silenzio e con quei loro attrezzi cercavano di tenere la barca lontana dalla banchina. Ogni onda, e ormai erano belle formate, lo scafo tirava a frantumarsi sul cemento e loro lo respingevano. “Ma non avete dei parabordi?” domandai. Sussultarono e dissero di no con la testa. Valutai la situazione: erano circa le dieci di sera, il festival del vento sarebbe durato almeno sino all’alba: quei due non avevano alcuna possibilità di farcela a salvare la barca e a evitare, forse, anche un parto prematuro… “Ce l’hai l’àncora?”, chiesi. Mi sembrava di essere in un film con replay: “Piccolina”, rispose deglutendo il ragazzo. “Quanto piccola?” “Piccola” sospirò. “Ma è tua la barca?” “No. E’ in affitto: mi avevano detto che a bordo c’era tutto e io…, io sono partito… il mare era calmo”.
Un’ondata portò lo scafo a pochi millimetri dal cemento, il remo si spezzò di un altro pezzo. Dimenticai la mia pipì e mi fiondai sul “Nauka”: “Marian, Andrea: fuori.”, urlai. “¿Que tal?” disse Marian. Li portai a vedere. Scuoterono la testa. Tornammo al “Nauka”. Andrea preparò un bella rampino con un bel po’ di catena e la cima necessaria. Marian tenne lontana la poppa della goletta con un braccio (“Madonna”, disse Antonella) mentre io calavo di nuovo a mare il gommone. Imbarcai la rampino e tornai a fare la gassa sul maniglione di prua del nostro pram. Poi mi trascinai controvento lungo la fiancata del “Nauka” e quindi fino ad arrivare allo scafetto a vela.
Legai di poppa il gommone, passai su quel guscio di noce la rampino e chiesi al ragazzo: “L’ausiliario, funziona?” Fece sì con la testa. “Sali e mettilo in moto”. Quando sentii che il motore era certo di dare un po’ di potenza feci un segnale a Andrea e a Marian che mollarono insieme a prua e a poppa e mi allargarono. “Dove vanno?” chiese, disperata, la puerpera: “Tranquila…” le rispose, in spagnolo, sereno e calmo Marian. Aveva un timbro di voce, Marian, che avrebbe rassicurato anche una tigre ferita. E, con quella sua pronuncia castigliana, “tranchila” calmò, infatti, la ragazza che smise di piangere e di pensarsi già vedova.
“Hai la deriva mobile?” domandai al ragazzo che stava un po’ riprendendosi. “Sì, volendo sale”. “Bene: tirala su un po’. Non tanto. Diciamo un po’ meno della metà”. Eseguì senza commentare. Con il vento in poppa la barca camminava un po’ troppo per i miei gusti ma non avevo alternative. Puntai decisamente verso il lato sotto vento del porto: non sapevo che fondale ci fosse in quella zona ma era la sola soluzione. Era l’unico punto ridossato.
Buttai la rampino con il terminale di catena e controllai che il ferro tenesse bene.
Filai un bel po’ di cima e sperai che il fondale fosse sufficiente. “Potrei tirar su tutta la deriva”, disse il ragazzo. “No: la barca ballerebbe di più”. Annuì. La barca mise la prua al vento e si stabilizzò: “Adesso stai qui. Non spegnere il motore finché non torno. Prepara qualcosa di caldo che vado a prenderti la ragazza”, gli dissi. “E’ mia moglie: aspetta un bambino”, disse in un fiato. Sganciai di poppa il gommone. Da terra mi recuperarono. Caricai la ragazza e il suo futuro figlio e il vento mi riportò da solo sotto bordo allo scafetto che, adesso, dondolava tranquillo: “Ti ho fatto un tè caldo” disse il ragazzo alla moglie. Si abbracciarono forte e si baciarono. Me ne andai senza disturbarli con inutili saluti o, peggio, consigli.
Dalla banchina mi recuperarono ancora una volta e fecero un bel po’ di fatica: il mare era una bolgia tremenda.
Alammo il gommone. Si faceva fatica a stare in piedi: ci rifugiammo nella dinette del “Nauka”. Stappammo un’altra bottiglia. E poi un’altra ancora. E poi, onestamente, non ricordo. Alle quattro del mattino ci eravamo raccontati la vita e la notte non era più buia né tempestosa: il groppo era passato. L’alba stupenda. Andrea si alzò leggero e disse “Ciao”. Non l’ho più rivisto.
La mattina, smaltita la sbronza, il sole accecava. La piccola barca a vela era sana e salva. I ragazzi ci videro, misero un po’ di tela e vennero sottobordo: “Grazie”, dissero semplicemente rendendoci la rampino. Ed era un grazie vero: quei ragazzi avevano belle facce. Felici di vivere. Di continuare a vivere, intendo. “Maschio o femmina?” chiese Marian indicando il pancione della ragazza. “Non so e non voglio saperlo”, sorrise lei, allargando con il suo mezzomarinaio formato giocattolo.
Il super yacht, invece, se n’era andato. Con tutto il suo tragico carico di elegantissima “gente di mare”… E, ovviamente, con la nostra àncora. “La puta que los pariò”, disse Marian, accendendosi la prima “papier mais” del nuovo giorno.
Sugli scogli, in fondo alla calata del porto, c’era un pram. Fracassato dal groppo.
Articolo tratto dal periodico Barche del mese di marzo 2008 e pubblicato per g.c. dell’autore. – Tutti i diritti riservati. Note Legali
Caro Antonio,
intanto buona Pasqua, quanto mi piace leggere le cose che scrivi!!
Riflettevo sul fatto che gli ancoraggi rappresentano almeno la metà, forse i due terzi, dei problemi di che va per mare. Penso a quante volte ho soccorso altri naviganti e quante (poche) sono stato aiutato io. E’ fantastico trovare qualcuno che ti aiuta a risolvere un problema ed è fantastico trovare persone che sanno farsi aiutare, come i due ragazzi del barchino a vela, certo non come quegli sciccosi del motoryacht che ti hanno anche fregato l’ancora!!
A quando sul blog delle istruzioni per un buon ancoraggio?
Pensavo a quante ancore ho su mezzoretta e quanta cima e catena. Una Danforth con dispositivo anti incagliamento da 25 chili (in acciaio inox, è pure bellissima oltre che straordinaria) con 75 metri di catena da 10, rampino a marre smontabili da 13, sempre inox, due tipo Danforth da 20 che erano in dotazione con la barca in origine, una Bruce da 15, tre ancorotti per il tender da 7 e da 5, catene e cime pronte all’uso.
Mi dicono tutti che esagero a portarmi quel peso appresso.
Ricordo un charter in Grecia con una barca a vela da 40′. Mi avevano dato un’ancora improbabile con trenta (!!) metri di catena, che dicevano rispondeva alle esigenze della navigazione in Egeo. Ma siamo matti!!?? Fortuna che mi ero portato la Bruce con due tese di catena!! Certo è un po’ da matti andare in giro con ancora e catena nel bagagliaio della macchina, ma che ci vuoi fare!!
Auguri a tutti.
Bruno