London Valour: vento, mare, cuore e lacrime a Genova 40 anni fa
di Massimo Maccheroni
E’ il 9 di aprile, una tiepida giornata di primavera come tante che lascia indifferenti gli abitanti di Genova, presi dal lavoro e dai bisogni quotidiani. Il porto, simbolo e orgoglio della città, è in piena attività. I chilometri di banchine non sono sufficienti per tutte le navi che devono approdare; cinque ad esempio sono in rada, in attesa del via libera per scaricare. Tra queste la “London Valour” un cargo inglese di 26.000 tonnellate.
I marinai foglie di coca digeriscono in coperta, il capitano ha un amore al collo venuto apposta dall’Inghilterra.
Il sole riscalda la coperta della nave, deserta. L’equipaggio, sulle note di “Come togheter” dei Beatles, è intento nelle mansioni affidate dal Comandante Edward Muir accompagnato, per questo viaggio in Italia, dalla moglie Dorothy che non è l’unica donna a bordo: c’è anche la moglie di Eric Hill il radiotelegrafista. E’ da poco passato mezzogiorno e Giuseppe Telmon, Tenente di Vascello della Capitaneria, osserva dal corpo di guardia il leggero movimento delle motovedette ormeggiate di fronte, fissandosi soprattutto sulla Cp 233, la nuova unità al suo comando. il sergente Mancini, dell’equipaggio della motovedetta, ha appena pranzato.
Decide di fare un salto in Capitaneria; quattro chiacchiere tra amici, per far passare più piacevolmente il tempo, aspettando che il sole tramonti. Fuori il vento, poco più che una brezza, comincia ad aumentare. E la radio di bordo è una sfera di cristallo, dice che il vento si farà lupo il mare si farà sciacallo.
Chi parla è costretto ad alzare la voce, sino quasi a urlare. Giunto sulla città all’ improvviso, spazza le banchine, i tetti delle case, le strade, sollevando polvere e giornali: I passanti si riparano gli occhi con le mani e il mare che circonda Genova. Il cambiamento repentino si nota poco in porto.
Non così sulle navi in rada dove gli equipaggi, allarmati della situazione, sono intenti nelle operazioni preliminari per salpare le ancore e dirigersi in zone ridossate, lontano dalle ostruzioni del porto dove la violenza delle onde può scaraventarle. Il ponte della “London Valour” è inspiegabilmente deserto. Nessuna attività, niente rumori di macchine, solo il vento a sibilare sulle sue strutture. E questo nonostante la nave disti appena 1300 metri dalla diga foranea Duca di Galliera.
Sono da poco passate le due del pomeriggio e finalmente anche la coperta della “London Valour” comincia ad animarsi. Ma occorre più di mezz’ora per mettere in pressione le macchine e il mare, con ondate sempre più violente, non aspetta. E le ancore hanno perduto la scommessa e gli artigli, i marinai uova di gabbiano piovono sugli scogli.
La gente di Genova ha il mare nel sangue, lo conosce, lo rispetta e a volte lo teme. Il lento movimento di quella nave, in evidente difficoltà, verso i moli esterni del più grande porto italiano non lascia indifferenti. La gente, incurante del tempo e delle raffiche di vento che soffia a più di 100 kilometri all’ora, è quasi calamitata da quanto sta accadendo a poche centinaia di metri da loro. Sono le 14.30 e il Comandante Edward Muir lancia il May Day. In Capitaneria il messaggio di soccorso lascia per un istante tutti senza parole. Solo Telmon è già a segnare sulla carta le coordinate appena trasmesse: il punto dà la nave quasi in porto. Fissa per un istante i volti spaesati dei suoi marinai poi decide :”andiamo a vedere”.
La “London Valour” è in balia delle onde con la poppa sempre più vicino a quella montagna invalicabile che nasconde a un passo il rifugio, la sicurezza, la quiete. In porto tutte le mani, tutti i cuori, tutti gli occhi sono verso quella nave. Bisogna far presto. Alle 14.45 la poppa della bulk carrier si infrange per la prima volta sulla diga foranea.
Dal bordo i marinai, quasi increduli di quella realtà da incubo, provano a costruire aiutati dai tanti accorsi sulla diga, una rudimentale teleferica verso la salvezza. Ma il mare non è d’accordo. Onde di sei, sette metri colpiscono con forza esagerata le lamiere della “Valour” incrinandole, contorcendole per poi spezzarle. Nafta densa e nera si riversa a tonnellate in acqua, cambiandola. Non più mare ma un liquido denso, appiccicoso che avviluppa con i suoi tentacoli i marinai che provano a raggiungere la salvezza a nuoto, trascinandoli verso il fondo.
Telmon, Mancini e gli altri dell’equipaggio della Motovedetta Cp 233 hanno raggiunto l’imboccatura del porto. E sono gli unici. Gli altri mezzi di soccorso, se ne contano tanti, non ce la fanno. Ci provano ma più forte del valore, della solidarietà, dell’altruismo è ancora una volta il mare. Spinto da raffiche di vento sempre più intense le sue onde sommergono le piccole imbarcazioni, costringendole alla resa. Tutte, meno la CP 233.
Telmon lotta con il timone per cercare di tenere per quanto possibile in assetto la Motovedetta mentre gli altri , tra nafta, detriti e migliaia di goccioline che si levano dal pelo dell’acqua ad ogni raffica, cercano i naufraghi. Uno, due, tre, quattro… E Telmon inverte la rotta, mentre la barca scompare tra le onde. I motori gridano per lo sforzo e pezzi della motovedetta cominciano a unirsi ai relitti della “Valour”.
Ma presto, bisogna far presto. Lasciare chi si è sottratto alle onde in mani sicure e puntare nuovamente la prua verso l’inferno, per continuare a salvare vite. Intanto tutta la città è pietrificata, ipnotizzata da quello spettacolo di morte.
Migliaia di occhi seguono dalle banchine, dal lungomare, dai balconi e dalle finestre dei palazzi più alti quella tragedia, la più temuta per gente che il mare lo ha nel sangue da sempre, che su di esso ha creato la sua fortuna, la sua storia. Per un attimo tutti gli occhi lasciano il mare per guardare il cielo.
Un piccolo elicottero cerca dall’alto di portare soccorso ai naufraghi, lanciando dei salvagente. Al comando il Capitano dei Vigili del fuoco Rinaldo Enrico che lotta con la sua libellula: sale, si abbassa, vira di lato in una lotta impari contro il vento . Vinto dalla macchina, prende la sua rivincita scaraventando lontano, sugli scogli o in mare, i salvagente. Poi tutti di nuovo a guardare il mare. Sulla diga l’improvvisato va e vieni con la nave prova a funzionare.
E con uno schiocco di lingua parte il cavo dalla riva ruba l’amore del capitano attorcigliandole la vita. Sul cassero stanno sistemando l’imbragatura a Dorothy, la moglie del Comandante Muir. Tocca a lei. Ma un onda più alta e più forte delle altre colpisce il martoriato scafo della nave, spezzandolo in due.
I cavi di nailon di quella specie di teleferica, all’ondeggiare della nave colpita, si tendono come corde di archi scagliando Dorothy in aria per poi farla cadere sugli scogli sottostanti. Un vigile del fuoco la vede, si tuffa ma è tutto vano. Accade in un attimo sotto gli occhi di Edward.
Il capitano si slaccia il giubbotto di salvataggio e si lascia cadere in mare, per tornare dalla sua Dorothy. Poco lontano Telmon e tutto l’equipaggio della 233, difficilmente riconoscibile rispetto alla motovedetta di solo un’ora prima, continuano malgrado tutto nell’opera di salvataggio. Il mare impetuoso non da tregua.
Devasta il ponte della piccola unità e, non pago dei molti marinai già strappati alla vita, prova ad insidiare anche gli uomini del coraggioso equipaggio, Un’onda colpisce con forza la coperta della motovedetta e, al suo ritrarsi, trascina con se anche il Sergente Mancini. Un attimo e Tito si ritrova già con le gambe nel vuoto, al di là della poppa. Ma non cade. La mano di un collega ha artigliato le cinghie del suo giubbotto salvagente.
Sono quasi le 4 di pomeriggio e in mare non c’è più nessuno da salvare. Telmon vira ancora una volta la motovedetta dirigendo questa volta la prua verso il molo. A bordo non si parla. Tutto è stato troppo per poterlo descrivere con parole. Con i cuori stretti in una morsa gli uomini, coperti di nafta, hanno negli occhi la forza e il colore di quel mare e nelle orecchie le urla e il sibilo del vento. E’ tempo di bilanci.
Delle 58 persone presenti sulla “London Valour” mancano all’appello in 20 tra cui anche il radiotelegrafista Eric Hill e sua moglie. Dei 38 scampati 26 devono la vita all’equipaggio della Motovedetta CP 233. Questa la storia vera della “London Valour” e del suo equipaggio, dei tanti atti di eroismo, di una città e dei suoi abitanti, colpiti da quest’assurda tragedia del mare tanto da volerla immortalare in una canzone “Parlando del naufragio della London Valour”, di Fabrizio De Andrè, anch’egli testimone al naufragio di quel 9 di aprile del 1970, da cui sono tratti i versi in corsivo nel testo.
Quarant’anni dopo, il 29 aprile del 2010, Giuseppe Telmon, Tito Mancini, Rocco Orlandi, Giuseppe Fornari e Aldo Reano, cinque dei sette protagonisti dei fatti di allora, sono a Civitavecchia ospiti d’onore nella rievocazione di quel tragico episodio. Hanno gli occhi fissi sullo schermo del Centro storico museale delle Capitanerie di porto – segno tangibile della tanta strada percorsa dal Corpo – su cui scorrono velocemente le immagini del tempo. Non parlano, assorbiti dalle parole di commento e dalle tante emozioni che queste suscitano nelle loro menti, nei loro cuori, ancora oggi come quarant’anni fa stretti in una morsa.
I tanti ospiti – colleghi, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti – gli osservano con ammirazione e un celato orgoglio per essere al cospetto di veri uomini, eroi non tanto per le decorazioni (una Medaglia d’oro e sei Medaglie d’argento, tutte al Valor di Marina) concesse per il coraggio, l’altruismo e la professionalità dimostrata ma per aver continuato nel loro lavoro con umiltà e senso del dovere, sfuggendo a facili protagonismi, comprensibili e quasi dovuti dopo quell’incredibile operazione di soccorso.
Invitati ad esprimere i loro sentimenti dall’Ammiraglio Pollastrini, – Comandante Generale di queste Capitanerie di porto – Guardia costiera, così cresciute e cambiate grazie ai tanti mattoni portati da uomini come loro per costruire, giorno dopo giorno, la realtà di oggi – i cinque del glorioso equipaggio della CP 233 preferiscono tacere. E allora e lo stesso Ammiraglio a intervenire
Quel che rimane della Valour
Circa un anno dopo, il relitto della “London Valour” venne trascinato via da due rimorchiatori con lo scopo di farlo affondare – a circa 5000 metri di profondità – al largo delle Isole Baleari.
Per le sue cattive condizioni lo scafo non resse il mare e si inabissò a sole 90 miglia da Genova. Giace adesso a 2600 m di profondità.
Pochi i pezzi recuperati : la ruota del timone della nave, è stata donata all’Ospedale San Martino dove i naufraghi superstiti vennero curati, la campana è conservata presso la chiesa anglicana del capoluogo ligure mentre la bandiera è stata consegnata alla Capitaneria di Porto.
La Motovedetta CP 233 Super Speranza
La motovedetta CP 233 è stata protagonista per il successo del difficilissimo e rischioso intervento di salvataggio dell’equipaggio della “London Valour”. Prodotta dalla Navaltecnica di Anzio su disegno dell’ ing. Renato “Sonny” Levi era costruita in quattro strati di lamellare di mogano incollati a freddo ed incrociati tra loro a 45°.
Questa tecnica costruttiva di derivazione aeronautica fu perfezionata dal ing. Levi che la brevettò, facendola applicare a tutti i Cantieri che realizzavano le barche da lui progettate, imbarcazioni affidabilissime in ogni condizione di mare e questo episodio ne è indiscutibile e valida testimonianza.
Cantiere costruttore:
- Cant. Navale Leopoldo Rodriquez – Messina
- Anno di costruzione: 1968
- Dislocamento a pieno carico: tonn.14,011
Scafo:
- Legno di mogano in quattro strati lamellare
- Lunghezza fuori tutto: m.13,40
- Larghezza: m.4,85
- Pescaggio: m.1,28
Apparato motore originario:
- N°2 motori Diesel CRM 9/DA da 385 HP ciascuno
- N.dei giri/max: 1850
- Velocità max: 26,6 nodi.
- Eliche: n°2 in lega Mibral
L’articolo è qui riprodotto per g.c. dell’autore
Leggendo tutto quello che abbiamo pubblicato, descrivendo con opportune testimonianze di quei tragici momenti, è vero, si viene catapultati indietro nel tempo e fu una combinazione straordinaria tra il coraggio dell’allora Comandante Telmon, il suo affiatato equipaggio ed un’altrettanto straordinaria Super Speranza che fu definita dopo questo evento: “motovedetta roccia”.
In tutti quegli uomini che facevano parte dell”equipaggio della CP 233 Super Speranza, rimase e per alcuni di loro ancora è così, il rammarico di non essere stati in grado di salvare tutti i naufraghi del mercantile inglese “London Valour”.
Molte furono le vittime e vi furono delle responsabilità, sia da parte del Comandante del mercantile, sia di chi doveva saper coordinare i soccorsi, ma che con l’assurda teleferica messa in piedi tra il mercantile, che veniva travolto e sbattuto avanti ed indietro dalla tremenda risacca creata da una fortissima ed improvvisa libecciata, si trasformò in morte per alcuni marinai inglesi.
Seguirono polemiche a quel dramma che sembrava impossibile potesse accadere e che purtroppo si verificò. A mio modo di vedere si poterono riscontrare due cose: la prima è che il Comandante di un Porto, oltretutto importante come quello di Genova, per traffico, mole di navi e quant’altro, doveva essere un uomo con esplicita esperienza in tal senso. Cosa che nel caso specifico non fu.
Si evince spesso che nei Corpi Militari dello Stato, l’avanzamento della carriera viene avviene per titoli e non per effettive capacità personali nel compito che si è chiamati ad assolvere.
I risultati, poi, sono queste tragedie che lasciano profonde ferite per chi ha sensibilità e comprende tutto quello che rimane dietro a tante vite spezzate in giovane età… e potrei fare altri esempi anche vicinissimi ai ns. giorni, ma non è il caso di fare polemiche, poiché chi non c’ è più non potrà mai ritornare tra noi ed ai loro cari.
La lezione di allora fu: Ci vuole assolutamente molta responsabilità, competenza e lungimiranza da parte di chi decide di assegnazioni così importanti!
Leggendo l’articolo si viene catapultati indietro nel tempo. Onore e congratulazioni ai nostri marinai e alla barca.