La pirateria
di Vittorio di Sambuy
La pirateria per mare è un mestiere vecchio come la navigazione.
Ha avuto punte storiche nel Mare Nostrum romano, dove la flotta di 500 navi di Pompeo Magno riuscì nel 67 a.C. di sconfiggere definitivamente la pirateria cilicia imponendo la legge romana della libertà di navigazione.
Ebbe una recrudescenza dal XVI al XIX secolo da parte dei barbareschi turchi lungo le coste Mediterranee a caccia di schiavi da vendere sui mercati orientali o per riscuotere lauti riscatti.
Nei secoli XV e XVI i galeoni spagnoli dovettero difendersi nei Caraibi dai pirati che tentavano di intercettare le ricchezze depredate in Centro e Sudamerica. Risulterebbe che tra la fine del 600 e l’inizio del 700 operassero sulle rotte atlantiche più di 2000 predoni.
La pirateria non è mai cessata fra gli arcipelaghi asiatici ed ora è rifiorita minacciosa nel golfo di Aden e lungo le coste del Corno d’Africa, zona dove transitano annualmente 55.000 navi , comprese 6500 petroliere. L’escalation è preoccupante, come risulta dalla seguente tabella:
*= 1° semestre
Questi numeri, desunti dalle statistiche dell’International Maritime Bureau sono parziali, giacché molti tentativi infruttuosi non vengono neppure denunciati dagli armatori quando ritengono inutile la relativa segnalazione (come avviene spesso per i furti in casa).
Per contrastare questa nuova pirateria particolarmente acuta nelle acque somale, svolta da disperati a bordo di veloci navicelle che non esitano ad attaccare grossi mercantili – Davide contro Golia – sono intervenute, spesso con successi parziali, le Marine Militari di diversa nazionalità che partecipano all’Operazione “Atalanta”. Successi appunto parziali perché non sono riusciti a debellare il fenomeno che si sta estendendo a tutto l’oceano Indiano, essendosi verificati attacchi anche a più di mille miglia al largo delle coste somale. La densità del traffico e l’estensione dell’area minacciata rende assai difficile un’estensiva opera di prevenzione.
I costi di questa presenza militare sono esorbitanti. Fonti tedesche stimano che il costo annuo per tenere una fregata nelle acque africane ammonterebbe a 30 M€ all’anno, mentre quello per un aereo di pattugliamento marittimo arriverebbe a 20 M€. Il costo dell’operazione Atalanta supererebbe i 300M€ annui, una somma superiore a 5-10 volte l’ammontare dei riscatti pagati dagli armatori.
C’è chi sostiene che pagare il “pizzo” ai Signori della Guerra somali che gestiscono questa moderna pirateria sarebbe più economico dei costi (premi assicurativi maggiorati e gestione delle unità militari coinvolte),… e probabilmente assai più efficace.
D’altra parte dirottare il traffico verso la circumnavigazione dell’Africa comporterebbe costi ancora maggiori a causa non solo dell’allungamento del percorso e dei relativi noli mancati, ma anche indiretti sull’indotto di cui verrebbero a mancare i porti del Mediterraneo. Una situazione cioè simile a quella verificatasi nel XV Secolo quando il traffico delle spezie da monopolio arabo-veneziano passò in mano ai portoghesi.
LE TECNICHE DI ASSALTO
Le principali rotte mercantili nell’oceano Indiano che partono dallo stretto di Bab el Mandeb (lo sbocco del Mar Rosso) sono quella del petrolio, diretta a Nordest per raggiungere lo stretto di Hormuz all’imboccatura del golfo Arabico (già Persico), la rotta ESE verso Singapore e l’Oriente, infine quelle verso SE e SW rispettivamente per l’Australia e il Sudafrica per doppiare il Capo di Buona Speranza.
La pirateria somala non ha caratteristiche ideologiche ma sostiene di voler difendere gli interessi nazionali, come la tutela dell’ambiente marino dallo scarico di rifiuti tossici, la protezione della pesca dalle incursioni dei pescherecci non solo giapponesi ma anche occidentali. Scuse pretestuose giacché si tratta di sequestri per ricavare dai riscatti somme cospicue.
Per tentare d’intercettare il centinaio di navi che percorre ogni giorno le rotte intorno al Corno d’Africa i pirati allineano circa seimila addetti i quali operano alle dipendenze di una vera e propria organizzazione che si avvale sia di una capillare human intelligence infiltrata in tutti i porti sia di moderne tecnologie (radar ecc.) per individuare e ingaggiare i bersagli. Una spedizione costa intorno ai 30.000 dollari e si basa su una nave appoggio, di solito in peschereccio che a priori sembrerebbe inoffensivo, da cui partono i mezzi veloci (RIB e Skiff motorizzati con fuoribordo) armati con armi portatili leggere e lanciarazzi nonché di grappini di arrembaggio degni della filibusta per consentire ai pirati di arrampicarsi a bordo e impadronirsi della nave.
Per difendersi, alle navi in transito nel golfo di Aden viene consigliato di percorrere un corridoio al largo delle coste yemenite pattugliate dalle unità militari. L’International Recommended Transit Corridor (IRCT) costituisce un deterrente valido ma insufficiente.
Un’autodifesa delle unità isolate può essere efficace, in caso di attacco, da parte delle navi più grandi e veloci che riescono a scoraggiarlo manovrando opportunamente o impedendo fisicamente l’abbordaggio utilizzando potenti cannoni ad acqua. Esistono anche delle organizzazioni che noleggiano squadre, i private defence contractors, armate anche con mitragliatrici che imbarcano per un determinato viaggio ma questa pratica comporta uno status di nave paramilitare per le navi mercantili e quindi contrario alla legislazione internazionale.
La IMO, International Maritime Organisation è contraria a questa escalation perché gli equipaggi dei mercantili non avrebbero un adeguato addestramento e potrebbe far sorgere problemi legali e assicurativi.
In seguito al sequestro della Sirius Star da 300.000 tonnellate a ben 500 miglia a sudest di Mombasa
una società fornitrice di contractors si sarebbe offerta di svolgere un vero e proprio convogliamento con un suo mercantile dotato di un adeguato armamento offensivo e perfino di elicottero.
Le Marine Nato operano in difesa del traffico nella zona assieme ad altre, indiane giapponesi e cinesi comprese, nel quadro dell’operazione Atalanta, destinata anche alla protezione del World Food Program (WFT), il programma UN per soccorrere le popolazioni somale e sudanesi.
E’ stato organizzato un vessel traffic monitoring system per coordinare gli interventi ma in definitiva la soluzione della pirateria in questa zona risiede soprattutto nello ristabilire la legalità sul territorio somalo, compito non delle Marine ma della diplomazia internazionale.
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