L’irresistibile: I novanta anni di Nanda Pivano
di Antonio Soccol
Rubrica: Navigando navigando
Foto: depadova.it
Quando, nello stesso giorno, ti succedono due cose correlate, qualcosa vuol dire. Magari no. Però pensarci è inesorabile.
Oggi sono andato dalla “Nanda”. E oggi i quotidiani pubblicano la notizia che il periodico americano “Life” chiude per sempre.
“La Nanda”, per gli amici, è Fernanda Pivano. Cioè quella signora, oggi novantenne, che ha tradotto in italiano “Spoon River” (a questo proposito segnalo che, di recente, è uscito un bellissimo libro dal titolo “Spoonriver, ciao” con foto di William Willinghton e parole della Pivano per i tipi di Dreams Creek) oltre ad un gran numero di altri capolavori della letteratura americana. Cioè quella signora che ci ha fatto conoscere scrittori come Gregory Corso, Jack Kerouc, Alen Ginsberg e tutti i ragazzi della “beat generation”, che per prima ha parlato in Italia (quando nessuno sapeva chi fosse) di Bob Dylan, che è (o è stata) amica e frequentatrice di cantautori (sarebbe più giusto definirli poeti, però) come Fabrizio De André, John Cage, Jim Morrison, David Bowie, Vasco Rossi, Kurt Cobain, Ligabue, Bruce Springsteen, Jovanotti, Patti Smith, Francesco Guccini, Lou Reed e Vinicio Capossela. Quella signora che ci ha tradotto (nel 1952) quel capolavoro di letteratura del mare che è “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway.
Quando, mezzo secolo fa, lo lessi per la prima volta “Il vecchio e il mare”, mi arrabbiai molto con Ernest Hemingway. Come forse ricorderete, il “vecchio” pescatore Santiago, mentre aspetta che il grande marlin abbocchi alla sua esca, riesce a prendere all’amo alcuni, diciamo, “pesci minori” che poi mangia per mantenersi in forze durante la sua drammatica lotta prima con la sua preda e poi con i pescicane che gliela divorano. L’edizione italiana (Arnoldo Mondadori, collana Medusa, 1952) curata e tradotta dalla Pivano, questi “pesci minori” li chiama “delfini”.
Che un pescatore come Hemingway potesse scrivere che i delfini abboccano ad un amo e che un pescatore esperto come il vecchio Santiago se li potesse mangiare a me sembrava (e sembra tutt’ora) pura follia. Lo sanno tutti che i delfini non sono così sciocchi da abboccare a una esca e che quando, purtroppo, si catturano lo si fa solo con le reti di circuizione, le stesse che si usano per i tonni (e, infatti, spesso i simpatici cugini di “Flipper” finiscono, purtroppo per loro e ahimè anche anche a nostra insaputa, in scatola). Così come tutti sanno che mai un pescatore oserebbe mangiare (addirittura cruda) la carne di questi cetacei da sempre amici dell’uomo, figuriamoci uno come Santiago che di suo era già un po’ salao, sfigato, visto che da oltre “ottantaquattro giorni non prendeva un pesce”.
Molti anni dopo capii dov’era nato il pasticcio, nella traduzione. Feci la pace con Hemingway e mi inquietai con Fernanda Pivano. All’interno di una traduzione assolutamente fantastica per poesia e linearità c’era, infatti, un errore di interpretazione orrendo e drammatico. Che avrei scoperto molto tempo dopo.
In tutti gli anni Ottanta sono andato, in ben venticinque occasioni, a Cuba per lavoro e a Cojimar, dove Hemingway teneva la “Pilar”, la sua barca da pesca e dove aveva ambientato il suo più famoso romanzo, avevo un grande amico, Raul Corral, detto “Corrales”. Corrales è stato uno dei più grandi fotografi del mondo e Norma, sua moglie, è figlia di Alipio Lòpez, uno dei più anziani pescatori di Cojimar. Uno di quelli che vivevano nel sottoscala de “La Terrazza” (il bar del porto dove la tragedia di Santiago si conclude) e mi giurò che mai uno di loro avrebbe mangiato carne di delfino.
Corrales mi presentò, sempre a Cojimar, anche Gregorio Fuentes de Betancourt, il vecchio Gregorio che, a torto, molti ritenevano esser stato l’ispiratore del personaggio di Santiago. In realtà Gregorio era solo il “patron”, cioè il marinaio di Hemingway. Con la complicità iniziale di una buona bottiglia di ron divenni amico anche di Gregorio che poi, proprio quando compì 100 anni, mi nominò ufficialmente “cittadino onorario di Cojimar” nel corso di una cerimonia-festa durante la quale il famoso distillato della canna da zucchero corse a fiumi e in sane, robuste ed esuberanti dosi industriali. Conservo, naturalmente con gelosa cura, quel certificato, l’unico “honoris causa” conquistato nella mia vita di vagabondo e che non scambierei con alcun “dottorato” al mondo.
Adesso vi racconto come sono andate alcune cose.
Negli anni Trenta Ernest Hemingway scriveva come corrispondente dall’estero per alcune riviste americane. Nel 1936 inviò alla consorella “Esquire” un servizio dal titolo “On the Blue Water: A Gulf Stream Letter” che venne pubblicato nel fascicolo di aprile dello stesso anno. In questo scritto, in appena dieci righe, è riassunta, o meglio, anticipata la trama de “Il vecchio e il mare”. Il 7 febbraio del 1939 Hemingway scrive a Maxwell Perkins una lettera nella quale dichiara di essere “molto stimolato dalla storia di un antico marinaio” che viveva a Casablanca, sulla costa orientale del porto di La Habana. Ma la stesura definitiva de “Il vecchio e il mare” fu pronta solo dodici anni dopo, nel 1951.
Il lancio di questo romanzo fu qualcosa di assolutamente inconsueto: per la prima volta, infatti, anziché in una edizione classica da libreria, il racconto apparve inizialmente come supplemento di “Life”, in quegli anni in assoluto il settimale il più diffuso al mondo con tirature (per l’epoca) enormi. Una schiera di fotografi della casa editrice “Time-Life” invase Cojimar, identificarono in Anselmo Hernandez, il vecchio pescatore che aveva ispirato Hemingway per quanto riguardava l’aspetto fisico (“Il vecchio era magro e scarno e aveva rughe profonde sulla nuca. Sulle guance aveva le chiazze del cancro della pelle, provocato dai riflessi del sole sul mare tropicale...”) e, in una casupola sulla breve collina, la pseudo abitazione di Santiago. Per il resto scattarano immagini della realtà quotidiana e così illustrarono il racconto per “Life”.
Il libro, ricorda in un suo testo “Nanda” Pivano, “venne lanciato nel 1952 con la distribuzione di 600 copie ai critici e compensato dalla vendita di 5 milioni e mezzo di copie in 48 ore, scavalcando una prospettiva che a Hemingway già era sembrata troppo ottimistica quando pensava che la rivista gli avrebbe assicurato più di un milione di lettori. Forse questo successo non fu estraneo a quello del libro vero e proprio, di cui vennero prenotate nella prima settimana 50 mila copie in America e 20 mila a Londra. Le lodi furono tante che cominciarono presto a stancare l’autore: Hemingway finì per dire che vedersi pubblicare i libri era anche più distruttivo che fare troppo l’amore.”
Il successo straordinario de “Il vecchio e il mare” valse subito allo scrittore il premio Pulitzer (che egli con ironia ribattezzò “premio pullover”). Poi, nel 1954, Ernest Hemingway vinse il premio Nobel per la letteratura. Non andò a ritirarlo perché malconcio di salute per una caduta di un piccolo aeroplano in Africa ma disse che glielo avevano dato perché, con quel romanzo per la prima volta, aveva scritto una storia senza usare la parola shit.
Negli anni Quaranta il fotografo cubano Raul Corrales si era innamorato e aveva sposato Norma Lòpez, come ho detto figlia di Alipio Lòpez, pescatore di Cojimar e si era trasferito a vivere in questo incantevole paesino che sorge a pochi chilometri ad est di La Habana. Qui Corrales aveva conosciuto Ernest Hemingway e qui aveva avuto l’occasione di uscire in mare e pescare in altura con lui e con Gregorio Fuentes de Betancourt, il patron della “Pilar”.
Ostinato più di un mulo nelle mie fissazioni, la storia dei delfini non mi andava giù. Così un giorno, uno dei tanti passati a Cuba, andai all’Università di La Habana e consultai la “Sinopsis de los peces tropicales” e scoprii l’arcano mistero dell’errore della “Nanda”. Era assolutamente comprensibile perché dettato da un termine, scritto sì in inglese, ma molto equivoco
Mi spiego: in inglese, Hemingway indica questi “pesci minori” pescati e mangiati crudi da Santiago, con il termine “dolphin fish”: non è termine inglese ma solo caribeño. Lemme che la nostra “Nanda” ha tradotto, ovviamente e d’istinto, in “delfini”. Ma, secondo la Sinopsis, il “dolphin fish” non è assolutamente il delfino quanto piuttosto la più gustosa lampuga. Che Santiago mangiasse lampuga cruda mi stava bene e mentalmente feci la pace con la Pivano che ancora non conoscevo. Aveva solo equivocato un termine di biologia marina, una sciocca abitudine gergale del luogo che Hemingway, per vezzo, aveva fatto sua. La mia futura amica non aveva colpe.
La mia amicizia con Raul Corrales diventò intensa: nel 1991 venne in Italia, mio ospite per oltre un mese con Norma e con l’altro straordinario fotografo cubano Alberto Korda e lo portai a Venezia in occasione della Vogalonga. Scattò una sola fotografia (“Cosa fotografare in questa città dove tutti hanno già fotografato tutto? Meglio comprare una cartolina postale, se si vuole un ricordo”, diceva) e fu quella sua unica foto, la prescelta per il manifesto dell’edizione successiva della grande manifestazione remiera (vedi notizie su questa “festa del remo” su “Navigando navigando” di “Barche” nel fascicolo di maggio di quest’anno, ndr).
Ma fu sul patio della casa di Corrales, a Cojimar che, nel 1988, era nata l’idea di fare un libro fotografico con le immagini dello stesso Corrales, scattate a Hemingway, a Anselmo Hernandez, ai pescatori di Cojimar, alla vita quotidiana di quel villaggio di pescatori.
Io bevevo ron e lui aguardiente, io fumavo le “popular” (che già portavano sul pacchetto la scritta “fumar daña su salud”) e lui il sigaro che accendeva e lasciava spegnere continuamente. Norma e Antonella ci facevano compagnia nonostante i latrati infernali di Moa, uno splendido cane, geloso della nostra presenza. In poche ore nacque un libro: Raul cercava nei suoi provini a contatto, controllava con il lentino, borbottava e poi mi faceva vedere, io annuivo. L’impresa più difficile fu trovare carta fotografica buona per stampare con il suo vecchio ingranditore quegli antichi negativi che risalivano a quasi mezzo secolo prima. E gli acidi per sviluppare e fissare il tutto nella sua piccola “camera oscura”. Ma riuscimmo nell’impresa.
Rientrato in Italia, con quel pacco fantastico di foto, mi misi di buona lena ad impaginare quello che sarebbe stato chiamato “Album fotografico: Cojimar- Ernest Hemingway e Il vecchio e il mare”. Per didascalizzare le foto era sufficiente estrapolare brevi frasi dal romanzo di Hemingway. Mi divertii a trovarle, una per una, leggendo e rileggendo il racconto e sobbalzando sempre quando Santiago si mangia i cosidetti delfini. Ma, esagerato come sono, mi documetai sino alla nausea.
Per vostra noia vi elenco i libri che, assieme a Carlotta Beltrami che mi aiutava, ho consultato in quella occasione (però non si sa mai, potrebbero magari interessarvi: lo spero vivamente): “Hemingway”, Fernanda Pivano, Rusconi Editore, 1984; “Hemingway en Cuba”, Norberto Fuentes, prologo di Gabriel Garcìa Màrquez, Editorial Letras Cubanas, La Habana, 1984; “Album Hemingway”, iconografia ordinata e commentata da Eileen Romano, con saggio biografico di Mugolino d’Amico, Arnoldo Mondatori Editore, 1988; “Ernest Hemingway Rediscovered”, foto di Roberto Herrera Sotolongo, testo di Norberto Fuentes, Plexus Publishing Limited, 1988.
E inoltre i seguenti saggi: Arpino Giovanni, Ricordo di Hemingway, “Il Paese”, 19 luglio 1961; Baker Carlos, Hemingway and His Critics, Hill and Wang, New York, 1961; Beach Sylvia, Shakespeare & Company, New York, Harcout Brace, 1956, edizione it. Rizzoli, 1961; Calvino Italo, Hemingway e noi, “Il Contemporaneo”, 13 novembre 1954; Cecchi Emilio, Ernest Hemingway, “Mercurio”, ottobre 1945; Comisso Giovanni, Hemingway tra noi, “Il Caffè”, agosto 1961; Cowley Malcom, The Portable Hemingway, New York, 1944; Montale Eugenio, L’uomo e le opere, “Corriere della Sera”, 25 gennaio 1954; Moravia Alberto, Niente e così sia, “L’Espresso”, 9 luglio 1961; Piovene Guido, Il pioniere della nuova frontiera, “L’Espresso”, 16 luglio 1961; Pivano Fernanda, La balena bianca e altri miti, Mondadori, 1961; Quarantotti Gambini P.A., Incontro a Venezia, “Corriere della Sera”, 16 gennaio 1962; Vittorini Elio, in Americana, Bompiani, 1947; Diario in Pubblico, Bompiani, 1957.
Fra i tanti ho trovato anche la famosa recensione che fece a quello straordinario romanzo, il grande William Faulkner su “Shenandoah” e che scrisse: “Il tempo forse mostrerà che questo libro è stato il migliore fra quelli scritti da tutti noi, intendo dire dai suoi e miei contemporanei. Questa volta ha scoperto Dio, un creatore. Finora i suoi uomini e donne si erano fatti, si erano formati con la loro stessa argilla; le loro vittorie e sconfitte erano nelle loro mani, soltanto per provare a se stessi fino a che punto potevano essere duri. Ma questa volta ha scritto sulla pietà: su qualcosa che da qualche parte li ha creati tutti: il vecchio che doveva catturare il pesce e poi perderlo, il pesce che doveva essere catturato e poi perduto, i pescicani che dovevano derubare il vecchio del suo pesce; li ha creati tutti e li ha amati tutti e ha avuto pietà di tutti. E’ giusto. Lode a Dio che qualunque sia la cosa da lui creata per amare e aver pietà di Hemingway e di me lo abbia trattenuto dal ritoccare il suo scritto”.
Avevo tutto, sapevo tutto (beh, quasi, diciamo). Ma mi mancava la prefazione e decisi che solo Fernanda Pivano poteva/doveva scriverla. Mi portò a lei Valerio Monaco, allora navigatore solitario nonché collaboratore di questa testata (intesa come “Barche”) e oggi giornalista di motori per “la Repubblica”, che organizzò una cena al ristorante “al Girarrosto”, in corso Venezia, a Milano. Ci andai con Antonella e portammo la “maquette” del libro realizzata casarecciamente incollando le fotocopie (delle foto originali) fatte a misura per quel menabò.
Con pudore Antonella ed io spiegammo alla grande talent scout il motivo banal-evidente per cui la nostra minuscola casa editrice si chiamasse “A&A”: erano le iniziali dei nostri nomi di battesimo. Osammo poi raccontare le nostre intenzioni e alla fine mettemmo sul tavolo quel colloso menabò, compendio di un mese di frenetico lavoro. La “Nanda” ci guardò con quei suoi occhi dolci e generosi, “allegri e indomiti”, come avrebbe scritto Hemingway, e prese a sfogliare lentamente pagina per pagina, incurante del fatto che i camerieri del noto ristorante aspettassero solo noi per andarsene a nanna… Sfogliò tutto la Nanda senza dir una sola parola. Ma, arrivata a quella che poi nel libro stampato sarebbe stata la pagina 71, ebbe un sobbalzo: c’era una foto piccolina, scattata alla Finca Vigìa- la casa cubana di Hemingway- dove si vedevano gli occhiali dello scrittore appoggiati su una copia della rivista “Sea Frontiers”. In quel momento la Nanda non seppe trattenere le lacrime.: “E’ tutto come quando laggiù c’era lui, c’era Mary e, per troppi pochi giorni, c’ero anch’io”, disse piano, con quella sua voce inconfondibile.
Poi si riprese e divenne leggermente professionale: “Ho molti impegni in questo momento- mi disse guardadomi con quegli occhi ancora lucidi- devo finire un libro, ho due “pezzi” da fare urgenti per il “Corriere della Sera”, poi c’è…” e infilò una serie di cose e di impegni che non ascoltai. Temevo fosse il preludio a un morbido, educato: “Mi spiace ma non posso”… E invece la Nanda concluse la sua introduzione al problema con uno stupendo: “Se ce la fai ad aspettare un mesetto, credo di poterti scrivere qualcosa…”. Eravamo felici e l’accompagnammo a quella sua casa in via Senato che poi avrei conosciuto bene e dentro la quale la Nanda viveva arrampicata su una poltrona con davanti una scrivania dove troneggiava la macchina Olivetti Lexicon 80 e dove lei era letteralmente assediata da una infinità di libri, giornali, appunti eccetera: per avvicinarsi al tavolo di lavoro bisognava fare, fra le pigne altissime e incombenti, uno slalom che neppure Tomba….
Un mese di attesa era niente pur di avere la sua firma, quella di Fernanda Pivano- mi capite?- su quel nostro lavoro editoriale. I preti, che se ne intendono, dicono che fare un figlio è la cosa più bella del mondo. Io, che di figli non ne ho mai fatti e quindi non me ne intendo, dico lo stesso per un libro. Ero davvero felice. Eravamo felici, Antonella ed io, che da quasi trenta anni siamo un “dico”.
Ma la Nanda è una che ama le sorprese. Erano le 11,45 di notte quando, tre giorni dopo quel famoso nostro primo incontro, il telefonò squillò a casa mia. Stavo chiacchierando e spegnendo bottiglie di quello buono con il “circolo Pickwick” dei miei amici di sempre: il pittore Enzo Forese, il cavadenti esimio nonché grande fotografo subacqueo Massimo Simion, l’altro pittore Mario Arlati e gli altri ragazzi della banda. Mi sorpresi per il trillo e andai a rispondere un po’ inquieto, quasi di malumore: “Sono la Nanda. Hai un minuto? Vorrei leggerti quanto ho scritto”, mi disse. E io inghiottii a fatica mentre lei iniziò: “Era il 1956, anno lontano e felice, quando andai a Cuba….”.
Ascoltai quella lettura affascinato, incredulo. Macchè mese, nemmeno tre giorni erano passati: “Non ho saputo resistere”, disse la voce della Nanda e aggiunse ridendo, “Il “Corriere della sera” aspetterà… Domattina ti lascio una busta in portineria di casa mia: manda a prenderla.”, concluse. E mi lasciò, così, senza parole. La mattina mi sedetti sul gradino dell’uscio di casa sua e aspettai che la portineria aprisse. Quando ebbi in mano il dattiloscritto mi emozionai: lo lessi e rilessi per tre volte. Era vero. Non era un sogno.
Il libro uscì poco dopo. Ma, mentre lo stampavano, frequentavo la Nanda. Diventammo amici: “Quanto ti devo per quel testo?”, le avevo chiesto. “ Ti voglio bene”, mi aveva risposto. Pochi mesi dopo una risposta analoga me l’avrebbe data anche Jorge Amado, per la prefazione al mio “album fotografico “ su Ernesto “Che” Guevara, ma questa è un’altra storia che magari un giorno racconterò.
Finché un giorno presi il coraggio e, alla Nanda, glielo dissi: “Senti, Nanda, non esiste che Hemingway faccia mangiare delfini a Santiago. Hai preso una cantonata e non dico un “granchio” perché, se mescoliamo i crostacei decapodi brachiuri con i cetacei e i pesci, aumenterebbe la confusione… Ma poi, dimmi, hai mai visto in vita tua un delfino? E ti sembra “un pesce d’oro brunito con le macchie viola”? e hanno i delfini un “lungo corpo piatto” e la “testa dorata”, come scrive Hemingway?. Dai…” e le spiegai tutto. Non parve convinta: “Lampuga”, disse scuotendo la testa, “Sembra una parolaccia”.
Rinunciai.
Tornai a Cuba a portare le copie del libro a Corrales e comprai una copia delle “Sinposis dei pesci tropicali”, la portai in Italia e la diedi in mano a Nanda: “Hai ragione”, convenne. E scrisse una raccomandata con ricevuta di ritorno all’allora direttore editoriale della Mondadori per segnalargli l’errore e pregarlo di modificare le nuove ristampe di “Il vecchio e il mare”.
Oggi sono andato in libreria e ho comprato per 7,40 euro, la copia più recente di quel romanzo. Risulta esser stato pubblicato nella “Medusa” nel 1952, negli “Oscar Mondadori” nel 1972, in 12 edizioni degli “Oscar narrativa”, in una edizione degli “Oscar classici moderni” nel 1989. E in un numero rigorosamente incomprensibile di ristampe (pare 28), per un quantitativo ignoto di esemplari. Sembrasidice, per un totale complessivo, di almeno un milione di copie. Alle quali si debbono aggiungere quelle, altrettanto indefinite, stampate e vendute di recente dal libro-gadget edito dal “Corriere della sera” nella sua collana “ I nobel della letteratura”. Qui l’oltraggio è totale: nemmeno il nome della traduttrice (che è pur sempre la nostra solita Nanda) hanno messo. Alla faccia della serietà, della deodontologia professionale, del rispetto per il lavoro altrui.
“Me l’hanno pagata una miseria quella traduzione”, dice la Nanda. Però, ancora appesantito da quella miseria, il grande editore (e con lui, i suoi partner d’affari) non ha ritenuto di dover cambiare una sola, semplice parola dopo ben cinquantacinque anni di “sfruttamento”. E così Santiago continua a mangiare delfini.
Non scandolezzatevi: è solo un refuso. E pensate che “Life”, il mitico settimanale che stampò quel romanzo in oltre cinque milioni e mezzo di copie, oggi chiude per sempre: il peggio c’è.
Buon compleanno, cara Nanda. Grazie per la tua amicizia: ti voglio tanto bene.
Articolo apparso sulla rivista “Barche” di giugno 2007 e qui riprodotto per g.c. dell’autore. Tutti i diritti riservati. Note Legali
Ciao Michel,
ti segnalo anche un articolo che si chiama “Ciao Nanda“.
Buona lettura e buon vento in Altomareblu
Un rammarico: aver letto questa cronaca solo ora.
Un’emozione e una gioia: averla letta.
Questa notte dormirò in pace.
Grazie.
Gentile Sofia,
il nostro direttore Antonio Soccol è momentaneamente fuori sede e l’ho contattato telefonicamente per informarlo della tua richiesta, circa il suo articolo “Lessico montaliano e dualismo uomo-mare” da poter leggere ed in effetti aveva già deciso di pubblicare tale pezzo su Altomareblu da tempo. Poi, come spesso accade in redazione tra i tanti pezzi da pubblicare, ne sfugge qualcuno come quello che a te interessa.
Tra una quindicina di giorni, appena il direttore rientra e ci metterà a disposizione tale pezzo, lo pubblicheremo molto volentieri, sicuri di far piacere a te che gentilmente ce lo hai richiesto e ti ringraziamo per averlo fatto e tanti appassionati lettori che seguono la letteratura dedicata al mare.
Appena pubblicheremo il pezzo ti avviseremo con una mail.
Un caro saluto a nome di Antonio Soccol e tutti noi di Altomareblu
Giacomo Vitale
Buongiorno,
Avrei piacere di leggere il suo aricolo pubblicato su Mondo sommerso del 15 gennaio 1976 dal titolo “Lessico montaliano e dualismo uomo-mare”.
Purtroppo l’annata non è reperibile in Biblioteca Nazonale a Firenze. Sarebbe così gentile da aiutarmi?
La ringrazio anticipatamente.
Sofia D’Andrea