A bala du’ sciu’ Pin
di Franco Harrauer
“Improvvisamente la mia “macchina“ con una lieve oscillazione tocca il fondo della baia. Guardo il manometro: bene, trenta metri.. Spengo la luce interna dopo aver regolato il flusso dell’aria ed una fioca luce verdastra penetra nell’angusto ambiente attraverso i quattro piccoli oblò di spesso cristallo. Aziono le due grandi ruote e lentamente, per non sollevare il fango del fondo, mi muovo in direzione Nord , Nord – Est come indica la bussola. L’aria all’interno della “macchina“ è pesante e calda, sudo abbondantemente, ma resisto perché l’obiettivo è vicino. Passo lentamente vicino a numerosi rottami, vecchie ancore tra le alghe che fluttuano come tentacoli di mostri marini, ma il mio obiettivo è la “TOJA“, il grande galeone dell’ Havana giunto sin qui carico d’oro e preziosi per il Re di Spagna.
“Me ne frego del Re di Spagna!“, urlo di gioia e la mia voce rimbomba cupamente nel ventre della macchina… i miei occhi hanno intravisto il galeone. “Il tesoro sarà mio!“, mormoro in un sogghigno mentre guardo la nave enorme, con il suo altissimo castello di poppa e coricata sul fondo marino con gli alberi spezzati. Aziono con più lena le grandi ruote metalliche che fanno camminare la “ macchina“ sul fondale sabbioso. Ecco, ora sono a fianco dell’enorme carcassa che presenta un grande squarcio verso il quale indirizzo la luce del faro subacqueo. Preparo il braccio meccanico: casse aperte, forzieri spalancati e vuoti!
Maledizione!! Il Capitano Nemo, con il Nautilus e di suoi uomini sono già passati di qui ed hanno depredato i galeoni della baia di Vigo! Improvvisamente un rumore assordante mi gela il sangue, qualcosa sta percuotendo le lamiere della mia “macchina“. Guardo allarmato fuori dall’oblò laterale e vedo la faccia del mio amico Piero.
“Dai Franco, vieni fuori è tardi e dobbiamo prendere la corriera per Santa Margherita“.
Maledetto Nemo! Salgo la scaletta interna a ramponi e spingo con forza il boccaporto che cigolando si apre. La luce del sole mi stordisce… “Vaffanculo Piero! Il Capitano Nemo è arrivato prima di me!“ “Già! E Fausto Coppi è terzo a dieci secondi!“ Mi risponde l’amico che mi aspetta ai piedi della “macchina“ sul molo.
Alla fine degli anni trenta Portofino era veramente un’oasi di pace, anche durante i mesi estivi. Nel piccolo porto, tra le rive rocciose incoronate dai pini erano ancorate poche barche, alcuni rivani da vino o sabbia con il loro albero curiosamente inclinato in avanti, piccoli gozzi da pesca ed un paio di barche a vela tra le quali giganteggiava il “Quadrifoglio“, un vecchio “J Clas“ di Crespi e Annabella, della famiglia Piaggio.
In banchina seminascosto in un angolo, tra le rocce del costone sul quale c’è la chiesetta di S. Giorgio, giaceva abbandonato da anni un misterioso oggetto. Noi ragazzi lo chiamavamo “A bala du’ sciu’ Pin“, cioè: “la palla del Signor Pino” ed ancora oggi sono in dubbio circa il vero significato di questa denominazione! “Palla“ in senso geometrico? In quello della validità funzionale dell’oggetto o in senso anatomico? Conoscendo il genuino “sense of humor“ dei Portofinesi, propenderei per la seconda ipotesi. La vidi per la prima volta nel 1938 o 39, ma la macchina era già abbandonata da tempo.
Direi a memoria d’uomo, corrosa dalla ruggine e forse mancante di alcuni pezzi. Noi ragazzi ci calavamo nel suo misterioso e buio interno dove stagnava un fondo d’acqua piovana misteriose manovelle e comandi e ci davano l’illusione di scendere negli abissi marini in cerca di tesori sommersi, come il Capitano Nemo nel suo Nautilus. Non avevamo un’idea precisa dell’uso di quella macchina, ma era chiaro che fosse destinata ad andare sott’acqua sospesa ad un cavo e che le grandi ruote dovevano servire per spostarsi sul fondo marino. Dal lato dei fari e degli oblò vi era uno snodo a sfera con un moncone di braccio meccanico che si manovrava dall’interno.
La rividi nel dopoguerra, forse nel ’45, sempre più rugginosa con i cristalli sfregiati da colpi d’arma da fuoco. Poi un giorno sparì portandosi dietro le sue origini e la sua misteriosa storia. Forse finì in una fonderia.
La Baia di Vigo è una profonda insenatura che si apre sulla costa atlantica nel Nord- Ovest della Spagna. Questa specie di fiordo roccioso, oltre la cittadina di Vigo, si stringe nel punto dove attualmente è scavalcato dall’autostrada per poi allargarsi in una specie di “cul de sac“, un bacino di un paio di miglia dominato dal castello di Sotomayar.
Nel mese di settembre del 1702, la parte più stretta prima della baia interna, era chiusa da catene tese da una riva all’altra e sostenute da zattere. Uno sbarramento invalicabile che proteggeva la flotta dei galeoni spagnoli arrivati dal Messico e da Cuba, intenti a scaricare un inestimabile tesoro. Tonnellate di oro e argento del Perù e di Potosi, spezie dei Caraibi, cotone, caffè. Il tutto destinato alla Corona Spagnola di Filippo V d’Angiò.
Una squadra navale francese comandata da Chateau Renault aveva protetto durante il viaggio dai Caraibi il convoglio dei galeoni ed adesso era schierata all’ingresso della baia assieme alle artiglierie sbarcate e disposte sulla costa. Alla flotta britannica che aveva già tentato di intercettare il convoglio durante la traversata atlantica e che adesso stava assediando Cadice, non sfuggì la notizia dell’arrivo a Vigo del tesoro e quattro settimane dopo, precisamente il 23 ottobre 1702, la flotta anglo olandese dell’ammiraglio Rooke irruppe nello stretto fiordo dopo aver neutralizzato le difese che impedivano l’accesso.
Distrutta in combattimento la flotta francese di Chateau Renault e forzato lo sbarramento, quasi tutti i galeoni furono facile preda degli inglesi. Numeosi furono affondati o si auto affondarono incendiati.. alcuni furono catturati e rimorchiati fuori dalla baia. Pare che parte del tesoro, per un valore di due milioni di sterline decurtato delle “legittime“ prede dei capitani, sia stato depositato nei forzieri della Torre di Londra, ma fonti storiche affermano che questa quota corrisponda a circa il venti per cento del valore totale proveniente dalle Americhe. Quindi oltre cento milioni di sterline giacevano e tuttora giacciono sul fondo della baia di Vigo.
La “bala du sciu’Pin“, come tanti ricordi di gioventù, uscì dalla mia memoria, ma la sua immagine rimase accantonata in qualche angolino del mio cervello, pronta a balzare fuori in qualsiasi momento. Infatti, alcuni anni fa su un vecchissimo numero della “Domenica del Corriere“ del 1° Marzo 1903, un’illustrazione (manco a dirlo di Beltrame), che raffigura una “macchina subacquea“ progettata da un certo G.Pino di Genova. Dall’angolino del mio cervello balzò fuori sferragliando la mia “macchina misteriosa di Portofino“ con le due grandi ruote.
Successive altre mie curiosità hanno rivelato che nel 1904 il Pino ottenne un “decreto reale di concessione” da parte del governo spagnolo per l’esplorazione ed il recupero dei tesori dei galeoni nella baia di Vigo. L’ingegner Pino costruì per questo scopo alcune ingegnose macchine semoventi, tra le quali il “lavoratore“, autentico piccolo sottomarino individuale appunto illustrato sulla Domenica del Corriere.
La spedizione fu una delle poche coronate da qualche successo. Pino riuscì a recuperare un galeone che purtroppo conteneva nelle stive solo spezie e vasellame di poco conto. Il fatto curioso è che il recupero fu fatto con una specie di “sorbona“ (attrezzo composto da una tubazione a giunture snodabili e usato negli scavi sottomarini per rimuovere detriti sedimentari o prelevare campioni) mediante palloni di sollevamento. Tutte tecniche che riteniamo moderne.
Tra le ingegnose macchine che Pino portò a Vigo vi era un “idroscopio“ del quale trovai alcuni disegni, peraltro non originali, sulla “Enciclopedia del Mare” di De Agostini e su “L’uomo e il Mare” di Mursia.
In questi testi il singolare marchingegno viene descritto come un apparecchio per osservazioni sottomarine, senza però spiegarne il funzionamento che credo possa essere chiaramente comprensibile nel mio disegno e che ritengo possa essere quello di un periscopio rovescio. Infatti, da un galleggiante indicato come ”camera oscura di osservazione“ si estende un tubo telescopico che in più elementi mobili può raggiungere i venti metri.
E’ la mia macchina misteriosa di Portofino, possibile superstite della ricerca del tesoro affondato con la flotta spagnola nella Baia di Vigo e della sorprendente analogia costruttiva rivelata sulla “DOMENICA DEL CORRIERE” confrontata con quella fatta a memoria dopo oltre cinquanta anni e della possibilità che il progettista genovese, un posticino nella storia se lo meriti.
Articolo apparso sul periodico “Mondo Sommerso” direttore Antonio Soccol e qui pubblicato p.g.c. dell’autore
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