O falso pao de aqucar di Franco Harrauer (quinta puntata)
Avvincente ed emozionante puntata di questo racconto di Franco Harrauer che dovevamo correggere insieme e che invece rimane nel mio archivio personale come il suo ultimo racconto tra i tanti che aveva scritto e che AMB ha pubblicato. Non potrò mai dimenticare le ore, le piacevoli nottate trascorse tra le bozze che mi inviava sia in cartaceo che per posta elettronica, per poi elaborare il testo definitivo… e riproporlo a lui stesso che a sua volta mi dava l’ok per la pubblicazione. Insomma, un entusiasmante lavoro di squadra… Poi il lungo silenzio, le mie continue mail in cui chiedevo di Franco e poi d’improvviso la triste notizia della sua scomparsa di cui ancora oggi non abbiamo alcun particolare, ma rispettiamo la privacy dei suoi congiunti.
Nella prossima ed ultima puntata leggerete l’epilogo di questo entusiasmante racconto che lascia trasparire a tratti una narrazione vissuta da alcuni personaggi realmente esistiti e che lasciano trasparire realtà in parte vissute realmente ed in parte totalmente inventate dal suo autore. Grazie Franco e “Buon vento”. In tanti non ti dimenticheremo mai!!
Francesco udì il lieve rumore della risacca e ne vide la fosforescenza quando era a pochi metri dalla spiaggia la notte era fonda e solo le stelle davano una pallida illuminazione. L’umido e fragrante odore della terra giungeva a Francesco dopo tanto giorni di pesante atmosfera del sommergibile. La fioca luce che lo aveva guidato a terra riapparve con un segnale intermittente e adesso era in mano ad un’ombra che si avvicinava.
Francesco, che era in ginocchio sull’instabile pagliolo del battello pneumatico, pagaiava alternativamente a destra e sinistra, posò la pagaia di alluminio e con la barbetta del battello in mano balzò sulla sabbia immergendo le scarpe da tennis nell’acqua tiepida.
– Da Vinci?
chiese la voce nell’ombra.
– Da Vinci!
rispose Francesco.
– Presto portiamo il battello a riparo, è tutto calmo ma dobbiamo sgonfiarlo e seppellirlo prima di andare verso la città e sono parecchi chilometri.
A proposito: sono il Tenente di Vascello Rossi
– Guardiamarina Attanasio, agli ordini!
Una rapida stretta di mano.
– Questa spiaggia si chiama spiaggia della tranquillità – Prahina do sossego! Nessuna località migliore di questa!
disse a bassa voce Rossi quando raggiunsero il gruppo di cespugli.
Mentre il battello si sgonfiava Francesco aprì un involucro impermeabile dal quale estrasse due binocoli not=
turni ed una carta della baia di Rio che consegnò al suo interlocutore. Il battello sgonfio fu piegato assieme al suo soffietto per rigonfiarlo e con l’involucro impermeabile nel quale Rossi mise la lampada a pile: poi fu occultato in una buca scavata a mano nella sabbia.
Durante l’operazione Francesco fu messo al corrente della visita di Rossi a sua zio Amerigo ad Angra e della conferma che gli internati erano stati allertati ed attendevano solo un segnale per la fuga.
– Credo che sia ora che ci incamminiamo
Rossi era in giacca e pantaloni con uno sdrucito cappello in testa. Francesco era vestito con una tuta da lavoro della Marina senza galloni e con il colletto rivoltato all’interno per nascondere le stellette;poteva sembrare un un giovane operaio; i due binocoli e la carta furono nascosti in una borsa di tela.
Camminarono in silenzio lungo la spiaggia deserta nel buio e quando cominciarono ad inerpicarsi per un sentiero a zig-zag che, tra una folta vegetazione saliva verso l’altura che dominava l’ingresso della Baia; le prime luci dell’alba incominciarono a tingersi di rosa ed il cielo, ove le stelle impallidivano, nel loro sempre più tenue blu.
Dal punto più alto raggiunto il panorama era grandioso e di fronte a loro il Pan di Zucchero con la cima già illuminata dal sole con la bocca di ingresso alla baia e nel mezzo l’isolotto di Laje. Lo scoglio occupato quasi per intero da un bunker sembrava una nave in entrata nella baia, tanta era la scia che lasciava dietro di se nella corrente di marea in uscita dalla baia.
Sotto di loro il forte di “Ponta de Imbuì” con i vecchi cannoni puntati verso l’oceano che riposavano incappottati e con la bandiera verde oro che sventolava pigramente su un alto pennone. Alla loro destra l’ampia Ensenada de “Jaricuba e Charitas” terminante a Nord con le prime case di “Niteroj” e la “Baia di Guanabara” che a causa della foschia del mattino non era visibile in tutta la sua grandiosità.
Francesco e Rossi si fermarono e nascosti da alcuni cespugli, stesi a terra iniziarono le osservazioni.
Per prima cosa videro il vecchio caccia, già osservato da Francesco da bordo del Da Vinci, che fumando abbondantemente pendolava fuori dalla baia tra la “Isola do Pai” e la Cotuntuba; procedeva a tre o quattro nodi e Rossi osservò che probabilmente era in ascolto idrofonico. L’entrata della baia non era sbarrata da ostruzioni retali, come aveva previsto il Comandante Longanesi, ma due motovedette ne percorrevano lentamente la bocca con una curiosa andatura a “Gambero” che evidenziava la forza della corrente di marea.
Alla destra del Pan di Zucchero, nell’insenatura del Botafogo, era alla boa un cacciatorpediniere, forse americano, ancorato ove Francesco ricordava , aveva sostato con la sua nave scuola “Cristoforo Colombo” accanto alla corazzata brasiliana “Minas Gerais”. Il sole cominciava a farsi sentire e dopo una ventina di minuti si rimisero in cammino scendendo verso la “Baia di Charitas”. Raggiunsero la strada costiera lungo la spiaggia e con un “passaggio” su un carro che trasportava banane raggiunsero il centro di Niteroi.
Rossi aveva affittato un piccolo appartamento nella zona nord della cittadina in un quartiere popolare ma in posizione dominante su un’altura “Ponta de Areja”. La casa era strategicamente posizionata in maniera da offrire una vista sulla zona degli obiettivi come il porto mercantile e l’Arsenale distanti circa quattro miglia.
Dopo essersi dati una rinfrescata scesero in città per fare colazione e Francesco azzardò qualche parola in portoghese per esercitarsi “dal vivo”. Il risultato fu un sospettoso sguardo del gestore del piccolo ristorante che servì loro gamberoni e cerveja.
– Francesco forse è meglio che mimetizzi il tuo portoghese con una forte laringite
disse ridendo Rossi che parlava correttamente il dialetto carioca.
Nel pomeriggio , dopo essere andati alla stazionie dei traghetti ove Francesco apprese come si compera un biglietto per Rio anche con un forte mal di gola, rientrarono a casa e si misero ad osservare il movimento della Baia.
Rossi annotò sulla carta la posizione dello sbarramento retale che si estendeva dalla “Punta Do Boa Viagem” fino alla fortezza dell’isola di “Villagaignon” e isolava così il porto, l’Arsenale ed il fondo della baia dall’esterno. Un ostacolo invalicabile per il “Da Vinci”.
Ma Francesco, che stava osservando anche lui l’ostruzione sostenuta da una lunga fila di galleggianti sferici, notò verso “Nicteroj” e precisamente sotto la punta rocciosa “do Boa Viagem”, un varco sufficientemente largo, probabilmente lasciato aperto permanentemente per il piccolo traffico locale. Longanesi sarebbe passato di lì!
La vecchia corazzata’ brasiliana “Sao Paulo” gemella della “Minas Gerais” era ancora a senza reti parasiluri di protezione al molo Nord dell’arsenale dell’Isola das Cobrasne si sarebbe presentata come un bersaglio ideale, ma Rossi pensò che anche Longanesi avrebbe preferito lanciare i suoi otto siluri contro i ben più preziosi mercantili che si vedevano distintamente affiancati al molo del porto mercantile.
Forse l’effetto psicologico del siluramento della Sao Paulo sarebbe stato psicologicamente più efficace come d’altronde era l’effetto previsto dal forzamento della baia.
L’osservazione degli obiettivi continuò anche dopo cena per studiare i fanali e le luci della zona portuale e la posizione delle navi oscurate che con le loro silouette risaltavano contro le luci della città. Tutti particolari dei quali Rossi prese nota.
Francesco si svegliò alle luci che trasparivano dalle persiane della finestra. Da principio, con gli occhi ancora piacevolmente chiusi, non fu capace di capire dove era: sul Da vinci? No! era in Brasile! e gli venne in mente subito la missione che doveva portare a termine. Si alzò e seduto sul letto, dalla cucina udì il discreto borbottio di una caffettiera e “finalmente” pensò Francesco, un aroma di vero caffè.
Vide accanto al letto la valigetta che avrebbe dovuto portare ad Angra a suo zio Amerigo. In un doppio fondo vi era istallata una piccola ricetrasmittente che bisognava solo collegare ad un improvvisato filo d’antenna. Era una Telefunken tedesca e durante la notte Rossi lo aveva istruito sul suo uso sulle frequenze, su gli orari e su un cifrario per le trasmissioni in grafia che lo avrebbero messo in condizioni di comunicare con il sommergibile.
Nella parte superiore della valigia Francesco aveva già messo biancheria, un paio di calzoni ed una camicia che il giorno prima aveva comperato in un negozio della cittadina. Sarebbe dovuto partire per Angra nel tardo pomeriggio, mentre Rossi in nottata sarebbe andato alla spiaggia “Do Sossego” e con il battellino dopo mezzanotte avrebbe raggiunto il Da Vinci già preavvisato per radio.
Dopo un paio di stiramenti e sbadigli Francesco fece una rapida doccia e raggiunse Rossi in cucina.
– Mi raccomando Francesco, se ti beccano metti in ordine i risvolti della tuta e mostra le stellette ed il nostro tesserino. Per adesso adopera questi documenti
e mise sul tavolo accanto alla terza tazzina di caffè, una “cartera de identidade” che aveva una foto, a giudizio dell’interessato, “pericolosamente poco rassomigliante”: la cartera era intestata a Fabiano Arantes, nativo di Uberaba, di professione meccanico.
– Vedi Francesco abbiamo pensato a tutto
disse ridendo il Tenente di Vascello Rossi sorbendo il suo cafezinho..
A Uberaba, nello stato di Minas, parlano in una maniera un po’ strana, quindi qualsiasi stronzata esca dalla tua gola infiammata può passare – e proseguì
– Quelle poche parole che sarai costretto a dire in portoghese devi pronunciarle con la lingua allargata tra i molari e arrotolata verso il palato
e Rossi pronunciò la parola “Pastel”
– Comandante, spero solo nel più breve tempo possibile di pronunciare le parole “fettuccine” in italiano e possibilmente in bolognese, a casa di mia zia Lucia.
Si salutarono nel tardo pomeriggio all’imbarcadero dei traghetti, a quell’ora sempre affollati.
– Attanasio ci vediamo a bordo del “Da Vinci”! Mi saluti suo zio e buona fortuna!
Più tardi Rossi si sarebbe avviato con calma verso la spiaggia della Tranquillità, mentre Francesco con la sua valigetta si imbarcava assieme ad una allegra e vociante folla di operai, contadini, militari e gente comune diretta a “Rio de Janeiro”, dove alla stazione “Rodoviaria” lo attendeva e dove un autobus lo avrebbe portato ad Angra.
Un picchetto di soldati e poliziotti sorvegliava svogliatamente l’imbarco di tanta umanità, mentre dall’altra parte della baia il sole tramontava dietro il Pan di Zucchero ed una coppia di grossi idrovolanti americani, ancora illuminati dal sole, volava bassa rientrando da un volo di pattugliamento antisommergibile.
Erano le sei del mattino quando Francesco insonnolito e con le ossa rotte scese dall’autobus che per tutta la notte lo aveva scarrozzato da Rio de Janeiro ad Angra. Il viaggio era stato relativamente tranquillo, salvo per due, tre batticuore dovuti ai controlli di polizia, di cui il primo alla stazione degli autobus ed il secondo a metà strada.
I poliziotti della Rodoviaria si erano accontentati di esaminare i documenti di identità e solo a dare un’occhiata superficiale alla valigia. Francesco dopo l’ispezione rivolse un riconoscente e amoroso pensiero alla sua fiamma lontana. Si era sentito morire alla richiesta di aprire la fatidica valigia, ma il funzionario non osò toccare la camicia ed i pantaloni accuratamente piegati come la mamma aveva insegnato al suo ragazzo. Consegnato il bagaglio all’autista lo accatastò sul portapacchi del veicolo assieme ad altre valige, ceste ed una gabbia di galline. Aveva più di un’ora libera prima della partenza, dell’ autobus.
Si avviò per la città in un chioschetto e con grande spudoratezza volle ordinare un “pastel”, ma gli venne da ridere e desistette dall’impresa ripensando alle raccomandazioni di Rossi sulla pronuncia. Il risultato fu uno strano suono che giustificò solo con il dito indice puntato prima alla gola e poi al pentolone dove friggevano gli invitanti ravioloni di carne. La città al tramonto aveva assunto una particolare atmosfera di vivaci colori e di suoni. La musica aleggiava nell’aria ed ai suoi ritmi la folla si muoveva come in un ballo collettivo.
Maschere e costumi preannunciavano l’imminente carnevale. Si avviò in mezzo alla gente festante verso la stazione degli autobus dove arrivò in anticipo. Con il biglietto in mano ed avendo già consegnato il bagaglio oltrepassò i cancelli senza essere fermato. Salì a bordo dell’autobus sistemandosi in uno dei posti in fondo e si addormentò non accorgendosi del fatto che il veicolo si era messo in moto e viaggiava nella notte verso Angra dos Reis.
L’autista che si era arrampicato sul tetto dell’autobus gli riconsegnò la valigetta e poco dopo Francesco si ritrovò solo ad un bivio della strada tra Angra e Paratì, mentre l’autobus si allontanava nascosto da una turbinate nuvola di polvere rossa in direzione delle prime rampe del colle dietro il quale era Faratì.
Su consiglio di Rossi aveva fatto fermare il veicolo un paio di chilometri prima del portale della Fazenda Italia.
Così si mise in cammino verso il folto palmeto che sulla spiaggia nascondeva la casa di zio Amerigo. Il sole appena sorto illuminava dolcemente con luce dorata le imponenti torri dei nembocumoli mettendone in risalto la tormentata e mutevole architettura. Le nuvole sovrastavano alte le verdi montagne dalle quali scendevano bianche cascate silenziose nella loro lontananza .
La strada era fiancheggiata da una estesa piantagione di canna da zucchero che si interrompeva solo al portale in legno della fazenda Italia. Francesco diede un’occhiata intorno e imboccò la stradina verso la casa sulla spiaggia.
La prima persona che vide fu la zia Lucia che leggeva un libro seduta in poltrona sotto la veranda. Depose in grembo il libro e guardandolo sopra gli occhiali bifocali incredula balbettò:
– Mio Dio ma sei proprio tu Francesco?
e si alzò in piedi.
– Si zia Lucia sono Francesco, ma credevo che zio Amerigo ti avesse detto qualcosa…
Lucia lo abbracciò con la tenerezza e lo slancio riservato ai nipotini e ne fu ricambiata.
– Mi ha solo accennato al probabile arrivo di un italiano, ma credevo che fosse il tipo che era venuto già qui un paio di volte, ma non avrei mai creduto di rivederti qui. Poi mi darai notizie di mamma e papà. Stanno bene?
Ho saputo del bombardamento di Genova. vieni dentro Francesco che ti preparo una buona colazione, sarai affamato! Qui c’è sempre una camera per te. Amerigo sarà qui tra poco, è in giro per la fazenda.
Francesco rassicurò sommariamente la zia della sua presenza in Brasile raccomandandole di non parlare con nessuno e la seguì nell’interno della grande casa salendo nella camera degli ospiti. Dopo una doccia ed un cambio di abiti scese nella grande sala da pranzo. Amerigo gli andò incontro sulle scale e lo abbracciò.
– Sai che dopo l’incontro con Rossi ho spesso sospettato che l’agente in arrivo fossi tu! Era quasi logico.
Sedettero al grande tavolo di quercia nel salone dall’ampio soffitto di travi di legno, le grandi porte – finestra erano aperte verso il mare e Francesco vedeva la lontana sagoma dell’Isola Grande.
Mangiarono uova fritte, prosciutto, pane, formaggi bevendo caffè e succhi di frutta, mentre si scambiavano le notizie dell’Italia e del Brasile con zia Lucia che partecipava alla conversazione, mentre andava e veniva dalla vicina cucina.
Amerigo aveva fatto pervenire a Orfeo altri messaggi dopo il primo contatto suggerito da Rossi, tenendolo al corrente degli sviluppi del piano.
Mentre parlava Francesco sentiva che la tensione e le fatiche degli ultimi giorni, da quando era sbarcato dal sommergibile, si stavano facendo sentire e si stava addormentando con i boccone in bocca. Fu zia Lucia che se ne accorse e suggerì saggiamente che Francesco andasse a farsi una bella dormita.
Dopo due giorni dall’arrivo alla fazenda Francesco salì di notte su una collinetta rocciosa poco distante dalla
casa. Doveva mettersi in comunicazione con il Da Vinci che ogni notte era in ascolto radio. Dopo una mezz’oretta di agevole cammino raggiunse la vetta della “pedra” dalla quale si vedeva bene il mare. Aspettando la mezzanotte aprì la valigetta e stese un lungo filo di rame tra due palme. Poi accese l’apparecchio radio e si mise pazientemente in attesa sulla frequenza indicatagli da Rossi. In perfetto orario, il fruscio più forte di una portante gli giunse attraverso gli auricolari, sentendo battere il segnale morse L -D – V per Leonardo da Vinci, ripetuto quattro volte a distanza di cinque Secondi.
Passò in trasmissione e batté sul minuscolo tasto inserito nell’apparecchio le lettere F – A per Francesco Attanasio e poi un breve messaggio in codice che si era preparato e trascritto su un foglio:
“F – A – NOTTE 10 / 15 ESEGUIRO’ RICOGNIZIONE SU OBIETTIVO E RILIEVO BATIMETRICO PER ATTERRAGGIO”.
Poco dopo sentì il segnale morse: “RICEVUTO – PASSO IN FONIA” e subito dopo con grande sorpresa sentì debole ma distinta la voce di Longanesi…
– Attanasio molto bene, Rossi che è a bordo mi dice che lei è stato molto efficiente nelle osservazioni. Stia tranquillo, nessuno può intercettarci perché trasmettiamo con una potenza d’antenna molto bassa e poi BELIN! SEMU IN POCHI!
Francesco sapeva che Longanesi era ligure e si stupì molto nel di sentirlo parlare in genovese stretto, ma capì subito il perché. Nessun altro che non fosse genovese avrebbe potuto capire cosa si dicevano il Comandante ed il suo guardiamarina.
– Mi serve una batimetria esatta per l’atterraggio e tutte le altre notizie circa l’ora dell’imbarco e il numero delle persone dopo la sua ricognizione mi posizionerò a tre miglia sulla congiungente punta Sud della isola Cipoja – punta Sud dell’Isola Grande. Le manderò su la boa telefonica alle ore 04.30 del giorno 15.
Zeneize risu e reu strenze i denti e fa la ceu!
Sentendo il Comandante che terminava con una risata e rispose in dialetto:
– Ricevuto Comandante, quando saremo tutti a bordo faccia preparare trenette al pesto per tutto l’equipaggio e per gli ospiti. Porto io il basilico fresco che da queste parti cresce meglio che a Genova – passo e chiudo.
Sentì il segnale di chiusura, raccolse il filo dell’antenna, richiuse la valigetta e si avviò in discesa verso la fazenda e la luna alta nel cielo disegnava un riflesso d’argento sul mare ed illuminava il paesaggio circostante.
La grande canoa si muoveva appena sul mare tranquillo

Attanasio parla con il Comandante del sommergibile “Leonardo Da Vinci”
Francesco guardò brevemente il suo cronometro che segnava le 04,00. Era in anticipo sull’orario dell’appuntamento e con un rilevamento verso i due punti a terra e sull’isola Grande, ben visibili al chiaro di luna, ebbe la conferma di essere sul punto giusto. Forse poteva esserci un errore nella distanza.
Guardò su nel cielo stellato, era completamente differente dal familiare cielo Mediterraneo sul quale faceva le sue esercitazioni ed osservazioni quando navigava. Riconobbe la costellazione del Centauro con la luminosa Righel, Canopo, Eridano e bassa sull’orizzonte la Croce del Sud.
Era partito al tramonto dalla Fazenda con la canoa ed i due fidi Pedro e Bira che avevano pagaiato con lena. Francesco si era rimesso la tuta regolamentare con i risvolti e le stellette ben in vista e lo zio Amerigo lo aveva guardato con orgoglio mentre lo abbracciava. Impiegarono quattro ore per raggiungere la stretta calanca nella quale erano approdati tre anni prima con il motoveliero.
Con Pedro si era arrampicato verso il crinale percorrendo lo stretto sentiero che nella foresta sembrava aprirsi e chiudersi al loro passaggio. Giunti in cima non si fermarono ma proseguirono in discesa con un passo più prudente e silenzioso verso il complesso del campo di internamento.
Alle 11.00 erano presso il muro di cinta perimetrale che percorsero cautamente lungo il lato Nord, quello verso la montagna. Il muro era alto circa tre metri ed in parte diroccato. Alle quattro estremità del complesso vi erano delle torrette di guardia che come confermò Pedro erano sguarnite.
Circa a metà, tra le due supposte postazioni di guardia, il muro era stato ricostruito a secco e nascosto tra i cespugli Pedro indicò alcune pietre che si rivelarono facilmente asportabili.
Con l’aiuto di Francesco si mise al lavoro e poco dopo aprì un basso varco verso l’interno. Pedro, che in uno degli ultimi viaggi di riferimento all’isola per portare i viveri agli internati, era riuscito a lasciare un messaggio a Negri, si introdusse a fatica nel varco e senza entrare completamente emise un verso da uccello notturno ripetendolo per quattro volte prima di rientrare.
Francesco guardò l’ora e poco dopo vide una massiccia sagoma che riconobbe in quella del Comandante Orfeo Negri che tentava di uscire dallo stretto pertugio.
– Porca miseria
sentì dire Francesco mentre si chinava per aiutare il suo vecchio amico a rimettersi in piedi. Nella penombra Negri riconobbe Francesco e abbracciandolo esclamò a bassa voce:
– Il Mo ben, guarda chi si vede!
Francesco riassunse rapidamente il piano di evasione mentre tutti e tre si nascondevano nella selva un po’ più distanti dal muro.
– Comandante, il sommergibile potrebbe essere qui tra un paio di notti nella baia che lei ricorda dietro la montagna. Pedro vi attenderà qui fuori non più tardi di mezzanotte.
– Quanti siete? Mi raccomando, dobbiamo imbarcarci con la massima rapidità e non portate nulla con voi.
Negri assicurò che tutti erano pronti e stabilirono l’operazione per la notte successiva. Dopo essersi salutati Negri smoccolando in perfetto bolognese e lamentandosi della sua circonferenza sparì nel pertugio del muro, mentre Francesco e Pedro ripresero il sentiero in salita.
Giunto nella baia con Pedro e Bira, rilevò i fondali con uno scandaglio improvvisato, un po’ dagli scogli ed un po’ dalla canoa e ne prese nota su un foglio sul quale aveva fatto un sommario rilievo. Poi verso le 03,00 si misero nuovamente in rotta per il luogo dell’appuntamento con il “Da Vinci”.
Francesco si era quasi assopito e quando sentì il tocco della mano sulla spalla aprì gli occhi e guardò nella direzione che gli indicava Pedro. Alcune grosse bolle di aria erano salite rumorosamente in superficie nell’acqua tranquilla a meno di una cinquantina di metri dalla prua della canoa. Lievi piccole onde si allargarono concentriche e al centro di esse emerse ballonzolando una boa bianca e rossa.
Senza attendere ordini i due pagaiatori si misero in moto e raggiunsero in breve la boa. Francesco sporgendosi fuori bordo la vincolò alla canoa con una piccola cima e cominciò a svitare una serie di galletti che serravano un coperchio sul quale oltre ad un lampeggiatore stagno vi era una targa in bronzo con la scritta “R.N. LEONARDO DA VINCI”.
Aperto il boccaportello, che ruotò sulle sue cerniere stridendo debolmente, apparve nel suo interno un microfono con auricolare di tipo stagno che Francesco si portò subito all’orecchio.
– Pronto Comandante, Attanasio agli ordini!
– Bene Attanasio! Siamo qui sotto posati su un fondo di sabbia a settanta metri. Com’è il tempo ed il mare li sopra?
– Ottimo Comandante! Ho preso contatto la notte scorsa con il comandante Negri della LATI, il quale mi ha detto che sono pronti per l’imbarco dopo le 00;00 di domani. Sono dodici italiani e dieci tedeschi della Lufhansa.
La baia che ho segnato sulla carta ha un fondale sufficiente sin quasi alle spiaggia e sul lato destro le rocce permettono quasi un accosto tenendo conto che il “Leonardo” ha un pescaggio di quattro metri e settanta al centro, credo che possa essere utile usare la passerella di bordo armandola sul fianco destro, un po’ più a proravia del pezzo.
Le metto nella boa accanto al telefono un rilievo approssimativo della cala con le batimetrie.
– Grazie Attanasio, tra poco vado al largo per emergere, cambiare aria e caricare le batterie. Confermerò per radio anche l’appuntamento con il battello rifornitore tedesco. Ci vediamo a mezzanotte e batta il segnale F + A per indicarmi la direzione esatta con la lampada che può prendere nella boa. Risponderemo con il nostro nominativo. Se non ci sono altre notizie richiuda il portello e faccio ritirare la boa. Arrivederci.
Francesco estrasse la Lampada immettendo il foglio con il rilievo per chiudere di seguito il boccaporto avvitando i galletti e svincolando la boa dalla canoa. Poco dopo il galleggiante con un sommesso gorgoglio scomparve dalla superficie ritirato verso il battello dal cavo di comunicazione. Pedro e Bira guardavano con occhi sbarrati il punto dove la boa era scomparsa.
– Nossa Senora da Badia! O submarino està là no fundo? Deus Deus!
e ripresero a pagaiare con lena verso casa.
(fine quinta puntata)
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