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Quando le navi parlano, cantano, s’incazzano, quando cambiano sesso e quando muoiono

02/05/2010/0 Commenti/in Poesie e racconti di mare, Premio Giornalistico Carlo Marincovich/da Alessandro Vitale

di Decio Lucano

Le più vive e sincere congratulazioni dello staff di AltoMareBlu e dei suoi appassionati lettori a Decio Lucano per l’importante e meritato successo ottenuto alla Prima edizione del “Premio Marincovich”:

“Sezione articoli cultura del mare”

1° classificato: Decio Lucano “Quando le navi parlano…” pubblicato su “DL Newsletter”
Premio: Mascalzone Latino – la ruota del timone del “Farr 40” più volte Campione del Mondo, offerta da Vincenzo Onorato – Team Mascalzone Latino.
I vincitori del Premio Giornalistico/Letterario 2009 Carlo Marincovich

Premio Marincovich

Ho regalato ad un bambino biondo una bottiglia vuota e il bambino l’ha presa con sé e l’ha portata sulla spiaggia vicino al suo mondo di sabbia.

Io avevo messo nella bottiglia un poco di me e il bambino stringeva forte la bottiglia e i suoi occhi vedevano dentro il gabbiano, la rondine, il merlo, il granchio, la lucertola, corse di impàla, pesci grandi dal cuore in trasparenza, barche, ancore, velieri che sfumano dietro banchi di nebbia, frotte di beluga bianchi e zanne di trichechi che spuntano in superficie tra i ghiacci.

Il bambino era felice per tutto quello che vedeva nella bottiglia, pensava che il mare fosse popolato di tutte quelle cose e aveva cominciato ad amarlo. E non aveva paura.

Questo bambino, crescendo, aveva scoperto che nella bottiglia non avevo messo gli uomini e forse era per questo che non aveva paura. Le storie che vi racconto sono vere anche se sembrano idealizzate e favoleggianti come le canzoni; in realtà il bambino, crescendo, era diventato un marinaio e aveva fatto un’altra scoperta: le navi hanno sentimenti come gli adulti (quelli buoni) e hanno un’anima: lo avevano scritto anche Kipling e Conrad, ma queste cose le conoscevano i capitani dei velieri, dei vapori fino ad arrivare ai giorni nostri.

Che poi alcuni di questi bastimenti sapessero anche cantare, forse lo sapevano e lo sanno quelli che navigano a vela su grandi “barche” con le antiche vele sui pennoni degli alberi .

Nel passato più recente i britannici hanno scritto tante canzoni di mare, ma già tra i vogatori delle navi romane il loro “canto cadenzato” ritmato dal capo ciurma ci è stato tramandato da un codice dell’Anthologia Latina… “Heia”, “Heia”, forza dai , cominciava proprio così, per dare vigore alla barca e sostegno alle loro braccia. E cantavano, chi legato, chi no sui banchi dei remi.

Se gli equipaggi britannici sono abituati a cantare canzoni marinare, non da meno noi italiani possiamo considerarci carenti in questo campo tra cui pescatori, corallari, battipali, di fiume e di lago, musicisti di fama; ne sa qualcosa l’ammiraglio Luigi Romani, studioso del mare nella musica e ci sono libri come “I canti del mare nella tradizione popolare italiana”, ed. Mursia, e “Piccolo Canzoniere del mare”, emme edizioni, che creano una vera letteratura musicale.

Le canzoni e le storie che presento non sono allegre, riguardano alcune navi destinate alla demolizione. Una volta i cantieri di demolizione (La Spezia) erano stabilimenti industriali, poi con la viscida concorrenza dell’Asia, lo scrapping tramutato nel più elegante recycling (centinaia di $ alla tonnellata ) è diventato un mestiere sporco e disumano per i lavoratori e per le stesse navi. Queste storie di navi “marchiate” sono vere, le navi parlano, urlano: una s’indigna, l’altra si racconta, accomunate da un malinconico destino, fino all’ultimo indomite. Le hanno scritte e cantate degli uomini, ma viene il dubbio che l’anima queste navi ce l’abbiano davvero. E poi, ironia planetaria, proprio gli inglesi, qualche anno fa per iniziativa dell’autorevole quotidiano dei Lloyd’s decisero che le navi erano di “sesso maschile” e dal grazioso she passarono all’ anagrafico he, snaturando secoli di tradizione. Ma forse senza seguito nella patria dello shipping.

CANZONI DI NAVI

So Far From The Clyde

“So far from the Clyde” è il titolo della canzone cantata da Mark Knopfler (Album Get Lucky), settembre 2009. E’ una melopèa cantata dall’artista con sofferta partecipazione, accompagnato dalla sua band, lui stesso suona la chitarra e traspare la rabbia, l’impotenza e la malinconia per “l’accompagnamento “ musicale ad una bulker, (Knopfler usa ancòra il she), in una spiaggia del Bangladesh. Ho tradotto liberamente il testo inglese, ma voi potete vederlo e ascoltarlo su:

Ringrazio l’amico Claudio Bavassano per avermi segnalato questa canzone, forse unica nel genere.

“Avevamo cenato per l’ultima volta prima dello spiaggiamento,
the day of the beaching,
un pugno di uomini a bordo,
era una nave condannata a morte,
She’s a dead ship sailing

La cucina era vuota e sui fornelli lo stufato era freddo.
E’ arrivata la sua ora quando lei aveva imbarcato il suo boia,
il comandante lo aveva pagato e si era fatto da parte,
con il vento e la corrente la nave a tutta forza
orgogliosamente avanzava verso la spiaggia
e la ciminiera soffiava impetuosa.

Lontano dal Clyde
avevamo viaggiato insieme
e viaggiamo ancora.

Quando la prua ha toccato la terra
L’onda di riflusso l’ha sollevata
E lei coraggiosamente si è alzata
Per finire inerte sulla spiaggia.

Sotto i loro piedi il capitano e i pochi marinai
Sentivano il brivido della sua chiglia in agonia
Più tardi il capitano saluta il boia
E scende lentamente
Sulla sabbia bagnata e sporca d’olio
Cammina chino verso l’auto che lo
Porterà in città attraversando
Il mattatoio delle navi.

Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora.

Gli uomini della spiaggia strappano i suoi cavi
E fanno a pezzi le sue boccaporte
Nulla è sprecato
Per pietà o rispetto
Gli uomini s’accaniscono sulla sua carcassa
Con cannelli a fiamma e accette
Lei assomiglia a una balena
Su una riva insanguinata
Spogliata
Lei sta ancora puntellata
Sulle sue ossa
Nell’umida avvelenata spiaggia
E gli uomini trascinano quel che resta di lei,
Verricelli, macchinari, lamiere
Finché rimane solo una grande macchia sulla sabbia
Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora
Lontano dal Clyde
Avevamo viaggiato insieme
E viaggiamo ancora.

Lo scrittore, poeta e compositore di canzoni scozzese Charles Mackay (1814-1889) scrisse: “ In natura niente muore. Da ogni triste avanzo di rovine, rinasce sempre qualche forma di vita”.

Come dire: non ignoriamo i principi della termodinamica!

Le FRANCE (una nave incazzata)

Nel 1975 un caro amico, il comandante Mario Gandolfi, mi portò da Montecarlo un 45 giri dal titolo “Le France”, un successo in Francia, cantato da Michel Sardou (parole sue e di Pierre Delanoe), musica di Jacques Revaux .

Era il periodo nero per i transatlantici, la concorrenza aerea era imbattibile, ma alcune “vecchie signore del mare” non ne volevano sapere di essere messe in disarmo o peggio demolite.

La Francia, a differenza dell’Italia, ha una tradizione di orgoglio nazionale e un sentimento marinaro molto spiccato; quando mai noi avremmo composto una canzone sulle nostre navi passeggeri di linea che venivano vendute o disarmate ? ( Se mi smentite mi fate un regalo).

Meglio, quando mai avremmo immaginato che a cantarla fosse proprio lei, la grande nave, una volta orgoglio nazionale? Le France urla e s’indigna con tutte le forze dalla baia in cui l’hanno portata vicino a Saint Nazaire e non vuole saperne più del suo paese natale… Se volete, andate a cercare nel web Sardou.com, io l’ho tradotto liberamente.

(cantata dal transatlantico FRANCE in disarmo nel 1975 vicino a Saint Nazaire )

Quando penso alla vecchia inglese
Che si chiama “Queen Mary“
Imbalsamata, lontano dalle sue scogliere
Su una banchina della California.

Quando penso alla vecchia inglese
Invidio i relitti affondati
Delle navi al lungo corso che cercavano un sogno
E non hanno rivisto il loro paese.

Non chiamatemi più “France”
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “France”
E ‘ la mia ultima volontà
Ero una nave gigantesca
In grado di navigare mille anni
Ero un gigante ero quasi
Forte come l’oceano
Ero una nave gigantesca
Portavo migliaia di amanti
Ero la Francia, quel che ne resta
E’un corpo morto per i cormorani
Non chiamatemi più “France”
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “France”
E’ la mia ultima volontà.

Quando penso alla vecchia inglese
Che si chiamava “Queen Mary”
Non vorrei finire come lei
Su una banchina della California
Che la più grande nave da guerra
Avesse il coraggio di affondarmi
La poppa rivolta a Saint- Nazaire
Paese bretone dove sono nato
Non chiamatemi più “France“
La Francia mi ha dimenticato
Non chiamatemi più “France“
E ‘ la mia ultima volontà.

(L’appello del “France” fu ascoltato a nord, raggiunse una grande compagnia e il “France” fu acquistato e adibito a crociere con il nome NORWAY, una lunga stagione di giovinezza, di nuova avventura nel business delle vacanze in mare. Solo qualche anno fa la sua lunga carriera, più fortunata di tante “vecchie signore” italiane, si concluse non senza problemi (non volevano farla passare da Suez, perché portava il cancro dell’amianto ), poi andò a morire in qualche porto senza clamore, come fanno gli elefanti e altri esseri nella natura.

La nave che respirava, diceva il suo comandante

QUEEN MARY (era la vecchia signora di cui il “France” temeva di fare la stessa fine)

9 dicembre 1967, ultimo viaggio della “Queen Mary”, uno dei più prestigiosi liners mai costruiti (viaggio inaugurale il 27 maggio 1936), Blue Riband nel 1938, fino a Long Beach, dove fu ormeggiata definitivamente e adibita a centro di attrazione e altri trattenimenti .

Un gigante, ma non un falansterio tipo livestock carriers delle navi da crociera attuali.

L’ultimo comandante, il capitano John Treasure John, disse che questa nave evoca un senso di splendore e di stile raramente attribuito alle moderne navi passeggeri.

Aggiunse anche: “Ella respirava, ella aveva carattere e personalità, ella era soprattutto simile ad un reale essere umano”.

Il ponte di comando è rimasto preservato come una sala sacra in cui riverberano i scintillanti ottoni delle ruote dei timoni, delle cuffie e delle chiesuole delle bussole, dei telegrafi di macchina , dei ripetitori, dei portavoce, delle barre delle ringhiere di separazione creando un’atmosfera di grande fascino artistico e spirituale.

Ricordo qualcosa di simile, dopo il restyling, nella “Enrico C.” a Genova durante un ricevimento . Salii fino al ponte, la timoneria e rimasi senza parole: nemmeno una chiesa ti riempiva di rispetto e di riflessione che l’insieme delle “rappresentazioni” nautiche smaglianti e scintillanti degli strumenti per la navigazione ti coinvolgevano in un abbraccio spirituale.

Anche qui la mano dell’architetto e dell’armatore avevano mantenuto uno stile umano e regale.

TRATTATELA BENE, SIATE COMPRENSIVI PER LA SUA NATURA FEMMINILE, NON E’UNA SCHIAVA

Da “Lo specchio del mare” di Joseph Conrad

“… Sì, la nave vuole essere trattata con riguardo, e con sapienza. Dovete mostrare comprensiva considerazione per i misteri della sua natura femminile, e allora vi starà al fianco lealmente nell’incessante lotta contro forze potenti, in cui la disfatta non è vergogna.
E’ una relazione seria quella che un uomo stabilisce con la sua nave. Essa ha i suoi diritti come se fosse capace di respirare e di parlare. E, in verità , ci sono navi che, per l’uomo giusto, faranno qualsiasi cosa meno che parlare, come dice il proverbio.
Una nave non è una schiava. Dovete renderle la vita facile quando naviga, non dovete mai dimenticare che le dovete la più piena partecipazione del vostro pensiero, della vostra pazienza, del vostro amor proprio.
Se ricorderete questo obbligo, naturalmente e senza sforzo, come se fosse un sentimento istintivo della vostra vita interiore, la vostra nave veleggerà , virerà di prora, correrà in poppa per voi finché potrà, oppure, come un uccello marino che si mette a riposare sulle onde infuriate, sosterrà alla cappa la burrasca più forte che sia mai riuscita a farvi disperare di vivere fino al prossimo sorger del sole.”

(testo inviatomi dall’architetto Edoardo Miola)

MI RACCONTO… (di Eugenio C.)

Nel numero di settembre 2006 la rivista TTM pubblicò nella rubrica “Storie di navi famose” l’ “autobiografia” di un transatlantico, anzi dell’ultimo transatlantico italiano, la turbonave “Eugenio C.” raccolta dal suo comandante Piero Buatier de Mongeot.

Lui la conosceva bene, è stato l’ultimo comandante della “Eugenio C.” in servizio di linea., ha raccolto i ricordi della nave prima del 2004, l’anno in cui le ultime lamiere sono state strappate al suo scafo nella squallida spiaggia di Alang…

Il comandante Buatier ha scritto anche un libro di successo su questo transatlantico, appunto. “L’ultimo dei transatlantici”. Del racconto della nave pubblichiamo alcuni brani.

“ La mia storia comincia a Monfalcone il 21 novembre del 1964. Là sono nato, o sono stato costruito, come dicono gli uomini. Mi hanno battezzato in quello stesso giorno. Per noi navi la nascita si chiama “varo” ed è, tanto per intenderci, una scivolata in mare lungo lo scalo.

Un grande splash e ci si accorge di galleggiare. Il battesimo precede la scivolata. Una bella ragazza o una signora importante ti spaccano una bottiglia in testa.
Ho saputo che di questi tempi le cose non si fanno più così: niente scivolata in mare. Le navi vengono costruite a pezzi in bacino. Quando i pezzi sono tutti saldati si riempie il bacino e la nave galleggia.
Ho detto “sono nato” , ho infatti un nome maschile: “ Eugenio”: eppure essendo nave, sono costretto ad essere femmina. “A ship is a she”. Lo dicono gli inglesi da qualche secolo.
E loro in mare ci sanno fare. Ma in questa storia ho deciso di usare il maschile. Gli inglesi non possono più impedirmelo. Non esisto più.

La memoria della mia esistenza risale al momento in cui le prime lamiere venivano saldate in quel cantiere di Monfalcone. In quei tempi le navi in cantiere crescevano in verticale. Dalla carena alle ordinate, alle murate, alla sovrastrutture.
Finalmente mi hanno montato il cuore, un cuore potentissimo: la somma di cuori di 55.000 cavalli!

E poi le ciminiere. Non una dietro l’altra, ma appaiate come due gemelle. E su, su fino all’albero che arrivava in cielo. E poi mi hanno dipinto di bianco. Non finivano mai di spennellare. Ero lungo duecentoventi metri.
Ed è arrivato il giorno in cui mi è stato chiesto di far vedere cosa sapevo fare.
Mi sono accorto quella mattina che il mio cuore batteva forte e che mi muovevo sempre più velocemente. I miei occhi, situati all’estrema prora (li chiamano, chi sa perché, “occhi di cubia”) vedevano l’acqua scorrere sulle due fiancate come due precipitosi torrenti . Marciavo a ventotto nodi!

Ma è solo una settimana dopo, da un porto chiamato Genova, che doveva iniziare la mia vita di lavoro.
Ero stato destinato a trasportare attraverso un Oceano oltre milleduecento passeggeri in vari porti di un continente meridionale. Li ho imparati a memoria i nomi di quei porti.
L’ultimo si chiamava Buenos Aires e si raggiungeva a fatica attraverso un fiume fangoso dal nome immeritato : “Fiume d’Argento”.

Più di duecento viaggi in vent’anni.

Ho visto sparire le navi importanti. Sono finite in maniera dolorosa: bruciate da un incendio, vendute e finite all’ancora in porti remoti, relegate a far da caserma in rade deserte.

Io sono sopravissuto per tanti anni ancora, anche quando si è saputo che nessuno voleva più partire per quel continente meridionale. O, se dovevano andarvi, lo facevano attraverso il cielo su navi volanti molto più veloci e senza la fatica di dover spingere tutta quell’acqua con la prora.

Gli uomini hanno allora scoperto per me un altro mestiere: da transatlantico che ero mi hanno trasformato in “cruise ship”, in nave da crociera.
Il Comandante che mi ha portato intorno al mondo, anche attraverso tempeste, mi ha lasciato nel 1987.
Alla fine del suo ultimo viaggio, all’arrivo a Genova, mi ha consegnato al suo successore con queste parole : “She’s all yours”, “E’ tutta tua”.

Ho continuato per altri anni a viaggiare, con le mie due “C” sulle ciminiere , attraverso mari ed oceani dal Mediterraneo all’Atlantico, dall’Estremo Nord all’Estremo Sud fino ad un continente di ghiaccio chiamato Antartide.

Ed è venuto il momento più triste della mia vita: sono stato venduto.
Ho sentito di non contar più niente. Avevo poco meno di trent’anni. Dicono siano tanti per una nave.
Mi è stato cambiato nome. Niente più “C” sulle ciminiere sono diventato la “Edimburgh Castle” e ho lasciato Genova per sempre.
Ho ancora cambiato padrone e nome. Mi hanno dipinto tutto di rosso. “Big Red Boat II” è stata la mia ultima stravagante trasformazione.
Dopo qualche tempo, il mondo era appena entrato nel nuovo secolo, sono stato abbandonato.
Per più di quattro anni sono rimasto legato ad una squallida banchina in un’isola minore delle Bahamas.

A quel punto non mi fregava più nulla di essere maschio o femmina.
Ho ancora avuto un momento di speranza. Ho saputo, anche le navi sanno, che un gruppo di uomini di buona volontà, intendeva riportarmi a Genova perché vi rimanessi ormeggiato per sempre come “ L’ultimo dei Transatlantici”. A ricordo di una grande era nella storia della navigazione.
Non se ne è fatto niente.
Sono stato infatti condotto in una orrida spiaggia al di là di due Oceani e fatto a pezzi. Condotto un corno! Ci sono andato io con quel quarto di cuore che mi era rimasto. E’ stato come rinascere.
Come quella prima uscita a Monfalcone.
Anche se i miei occhi non vedevano il mare scorrere veloce sulle mie fiancate. Adagio, adagio.

Era un viaggio che volevo non finisse mai.
La mia ultima spiaggia è Alang, in India.
Il mattatoio delle navi.

Non sono più una nave ma continuo a vivere in ciascuno di quei ferri, grandi e piccoli in cui sono stato suddiviso e riutilizzato: la carrozzeria di un’automobile, la lamiera di una nuova nave, una macchina da guerra, una scatola di sardine, un soprammobile.
Ognuna di queste creature ha una vita propria: trasporta, uccide, contiene, appare.
Ma io mi trovo assai meglio in un piccolo pezzo di lamiera che riposa sulla scrivania delle persone che mi hanno voluto bene.
Una di queste, che mi ha portato intorno al mondo, tutte le volte che siede alla scrivania, mi afferra, mi trattiene e mi sposta di qualche centimetro.
Chissà perché è come una carezza.”

Quando armatori e navi si parlano

DA SETTE ANNI NEL NOSTRO PORTO UNA NAVE CHE NON VUOLE MORIRE

Nel febbraio 2009, in una memorabile conferenza alla Biblioteca dei Parchi di Nervi su Armatori, marinai e bastimenti, il comandante Pro Schiaffino citò il piroscafo “Cor Jesu” dell’armatore nerviese Gazzolo. Il “Cor Jesu” era stata costruito negli Ateliers et Chantiers de la Loire di Nantes nel 1908 e si chiamava “Lerdre”, 115 metri di lunghezza e una stazza lorda di 3.885 tonnellate. Ai suoi tempi era una “barca” da carico che a paragone con quelle di oggi era l’antesignana del gigantismo navale.

Un giorno l’acquistò un armatore genovese che lo battezzò “Cor Jesu” e lo splendido piroscafo divenne quasi il simbolo degli ex –voto marinari perché era scampato a tempeste e mille difficoltà.

Nel 1964, dopo quasi sessant’anni di carriera, approdò definitivamente a Genova, in disarmo a Calata Giaccone, in andana, quasi sotto la Lanterna. Da allora fino al 1971, nonostante la perdita della classe, dell’elica l’armatore non volle sbarazzarsene, lo considerò una continuità ideale della sua vita, l’amava perché la nave gli aveva fatto guadagnare soldi e aveva una grinta quasi a sfidare il mare oltre la diga. Avevo scritto per “Il Secolo XIX” l’1 settembre 1971 un articolo con la sua fotografia dal titolo appunto “Da sette anni nel nostro porto una nave che non vuole morire”.

Me l’aveva segnalata un suo comandante e mi aveva raccontato del rapporto tra l’armatore e la nave, dell’armatore che se la guardava tutti i giorni dalla finestra di casa e che non voleva venderla per ferro da demolizione. Perché ? Forse tra i due, nave e armatore, avevano trovato un linguaggio per comunicare, e la nave gli diceva di avere ancora fiducia in lei, che avrebbe ripreso il mare, chi sa… E’ certo che le energie, le particelle che navigano invisibili tra di noi giustificano rapporti extraumani, creano complicità di cui siamo ignari protagonisti e non lo sappiamo fino a che punto ci condizionano, e chi ci parla e ci ascolta.

Anche tra armatori e le loro navi. Ho raccolto questa storia ( il “Cor Jesu” proprio quell’anno fu inviato alla demolizione, e forse ero il responsabile per aver svelato con l’articolo sul giornale il segreto dell’armatore) nel libro “Però il porto è ancora quello”, De Ferrari editore , 2001, esaurito nella seconda edizione, un testo che potrebbe essere utile all’iniziativa del costituendo Port Center a Genova.

Articolo apparso su “DL NEWS CULTURA- Notizie e Commenti a cura di DECIO LUCANO” nella Newsletter del 23 novembre 2009 e qui riprodotto per g.c. dell’autore.

Tags: Premio Giornalistico Marincovich
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Renato Sonny Levi è morto
Barca Andreani Vega Dart
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Ciao Franco Harrauer
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